Da Mondoperaio
Una premessa: ci interessiamo e torniamo ad interrogarci sul destino del “governo del papa” per quello che siamo, e cioè da socialisti italiani, eredi non solo del “concordatario” Craxi. Lo facciamo in particolare perché è fuori di dubbio che il papato ha avuto e continuerà ad avere un ruolo molto importante in Italia. Il mondo solidale rappresentato da una Chiesa che tuttora cammina pellegrina sulla terra che è la terra di tutti gli italiani non è infatti ancora del tutto impotente o inefficiente rispetto ai problemi ed ai drammi che ci circondano, come sembrano ritenere oggi anche alcuni dei suoi stessi pastori. Il popolo cattolico che qui vive, lavora, prega e opera nella carità è infatti ancora oggi una realtà viva, vitale e decisiva per l’Italia, al cui destino esso è unita attraverso mille fili.
La mia convinzione è che, anche se molti nelle sue file sono intimoriti ed incerti di fronte alle difficoltà dell’ora presente, questo popolo cattolico ha il dovere di tornare a ricordarsi che esso è parte essenziale di una comunità di persone che riconosce la politica come la più alta forma di carità per un cristiano. È infatti questa la ragione elementare che ha reso e rende unici (e, ripeto, decisivi) ancora oggi i cattolici nella vicenda sociale e politica del nostro paese: semplicemente perché essi sono – lo vogliano o no, ne siano coscienti o no – una risorsa preziosa per la politica, forse l’unica ancora praticabile, assieme a quella espressa cocciutamente da chi vuole far riemergere, ma soprattutto far vivere, i valori ed i programmi di un socialismo liberale e riformatore.
Torniamo dunque ad occuparci – anche con passione, come è nostro costume – del destino di questo popolo di credenti in Gesù Cristo chiamato all’appello del rinnovamento dalla predicazione pastorale e dall’esempio di un papa che – pur se viene “dalla fine del mondo” – ha mostrato di essere portatore di capacità e volontà non tradizionali. Seguendo il percorso da lui indicato ci siamo proposti di confrontarlo con l’equilibrio raggiunto nei secoli passati dal governo del papa, e cioè da un governo romanocentrico oggi obbligatoriamente immerso nell’universalismo dell’impegno planetario della azione della sua Chiesa.
Ne è emersa, come prima questione, la necessità di riconsiderare i termini stessi di una riforma del “Primato petrino”, e cioè di quel principio fondante a cui è legata indissolubilmente la funzione del vescovo di Roma nella vita della Chiesa. Abbiamo infine riconosciuto che individuare una sua riforma è questione preliminare e comunque coessenziale all’azione riformatrice: e cioè alla costruzione degli atti successivi destinati a produrre rinnovate fattezze organizzative e gestionali nel governo del papa. Rispetto a questo percorso è parso infine evidente che l’attuazione di questa riforma è destinata a produrre conseguenze anche sulla gestione e funzione della Chiesa italiana, non foss’altro perché non vi può essere “universalità” senza “romanità”.
Cerco di proporre una spiegazione di questa proposizione finale. Quando, nell’ottobre del 1978, un vescovo polacco titolare della diocesi di Cracovia venne eletto pontefice dopo quasi cinquecento anni di costante preferenza italiana, la preoccupazione che indubbiamente attraversò l’animo di quel Conclave nasceva dal fatto che quella antica e venerata tradizione era riconosciuta legittima ed anche utile dall’intera Chiesa universale: e non solo come vincolo geopolitico, ma soprattutto come importante condizione di “facilitazione” nella gestione della sede di Pietro, plasmata appunto per lunghi secoli dalla eccezionale peculiarità di un rapporto che era venuto acquisendo qualcosa di sacrale rispetto ad un luogo, ad una cultura, ad un popolo.
Questo legame, evidente lungo molti secoli, era tornato ad apparire di grande attualità proprio in quegli anni che si incrociarono con l’elezione di Giovanni Paolo II. Wojtyla diventa infatti papa appena sei mesi dopo la morte di Moro e due mesi dopo quella di Montini: vicende che oggi ci fanno evocare immediatamente la crisi della Dc, e non solo come tragica metafora. Per molti è infatti ora chiaro che l’esistenza in Italia di un partito cattolico così forte e così pervasivo come era stata la Democrazia cristiana (anche rispetto alle articolazioni più intime della Chiesa), aveva inevitabilmente svolto un ruolo importante nel favorire o nel deprimere anche la formazione della classe dirigente della Chiesa di Roma.
Uno che di queste cose se ne intendeva, Gianni Baget Bozzo, ricordò già nel 1994 una semplice verità: “Non si può valutare la storia della Chiesa in Italia senza considerare come suo maggior risultato proprio l’unità dei cattolici attorno alla Dc. La Dc è parte determinante della realtà della Chiesa in Italia in questi ultimi cinquant’anni. Non c’è altro settore della vita ecclesiale che sia così rilevante e determinante”. E aggiungeva: “La Dc ha svolto nel XX secolo la funzione che gli Stati della Chiesa hanno svolto per millequattrocento anni”[1]. Oggi, a quasi quarant’anni da quegli eventi, penso che possiamo serenamente prendere atto anche noi delle consequenzialità allora così realizzatesi, ma anche degli inevitabili sviluppi a cui quelle vicende hanno dato luogo fino al giorno d’oggi.
Una parola nello specifico della Chiesa italiana e del suo governo, la cui condizione vitale (e, diciamo, anche funzionale e organizzativa) ha dovuto reagire (e si è quindi, nel tempo, inevitabilmente dovuta confrontare e plasmare) anche rispetto a questi accadimenti e condizioni post 1978. Possiamo tornare a ricordare sinteticamente almeno i tre momenti che ne hanno indirizzato il percorso: la costituzione (1984-86) della Conferenza episcopale in forma organica e rappresentativa, dotata di mezzi che ne hanno fattalmo una struttura forte e ben funzionante; la scomparsa della Dc (1994), traumatica per l’insieme della cattolicità italiana; la costante presenza al vertice della Chiesa di un papa non italiano.
Sono state queste tre condizioni oggettive che hanno portato alla costruzione delle principali modalità di azione che hanno presieduto all’organizzazione più recente della Chiesa italiana. Esse sono infatti all’origine della stabilizzazione e gestione del nuovo strumento di rappresentanza e di governo rappresentato dalla Cei; e sono sempre esse che hanno dato fondamento a quella che a me sembra essere la sua più significativa caratteristica odierna, tra l’altro fonte di esplicita contraddizione proprio rispetto alle modalità di governo perseguite da Papa Francesco: e cioè l’applicazione costante di un forte principio di centralizzazione, inserito a sua volta in uno schema gerarchizzato e fondamentalmente romanocentrico. Occorre infine ricordare che questo è avvenuto nella permanenza di un consenso effettivo e generalizzato da parte dei vescovi italiani, guidati per quasi vent’anni da un autorevole e abile presidente quale è stato il cardinale Ruini, che ha potuto godere anche di una costante fiducia papale.
Per avanzare un giudizio sintetico su questa evoluzione mi sembra che possiamo riconoscere che si è trattato della costruzione di una intelaiatura pensata per la “navigazione ordinaria” di un vascello che, di contro, si è invece sempre più trovato sospinto entro la eccezionalità di una crisi politica, sociale e culturale che assumeva rilievo e dimensioni epocali: in Italia come in un Occidente in decadenza. Ciò ha prodotto il risultato che – al di sotto di vertici centralizzati che anche per questo sono stati portatori di alta visibilità – il tessuto della cattolicità italiana non solo non sembra oggi in grado di assolvere ad una funzione di sostegno o quantomeno di supplenza nella riforma del governo papale, ma rischia addirittura di essere ostacolo obiettivo ad un suo utile e proficuo dispiegarsi.
Non intendo naturalmente tralasciare il fatto che, in tutti questi lunghi quarant’anni, la tradizione cattolica ha continuato a permanere radicata e diffusa nella società italiana: sia nella sua vasta base popolare che nell’infinito apporto di carità concreta, come nella diffusissima e tuttora vitale presenza della sua rete parrocchiale. Ma con quali conseguenze rispetto alla sua tradizione e funzione, interna ed esterna, radicata e fondata su di un retaggio secolare?
È proprio un cattolico “figlio di obbedienza” (come lui si professa), Giuseppe De Rita, che ci indica una chiave di lettura condivisibile rispetto a questo quesito. In una recente lettera aperta egli esprime la sensazione “che i vescovi italiani, pur sentendosi partecipi degli sforzi di innovazione del Pontefice, non riescono poi a radicarli nella testa e nell’azione delle tante parrocchie, lasciate spesso alla routine quotidiana se non ad un dubitoso attendismo.” Prosegue De Rita: “Chi, come me, ha vissuto con partecipe convinzione il periodo post-conciliare e ‘montiniano’ della Chiesa italiana ricorda bene che in quel periodo non c’èra vuoto intermedio: i vescovi erano tutti motivati a seguire ed alimentare la linea papale, con un impegno convinto e diffuso delle varie comunità locali (si pensi alle decine e decine di appuntamenti diocesani organizzati fra il ’74 e il ’76, in preparazione al Convegno su Evangelizzazione e Promozione Umana). Poi il governo della Chiesa è diventato carismatico ed a forte verticalizzazione, con un progressivo impoverimento sia delle sedi intermedie che delle comunità locali.” Questo vuoto intermedio non è casuale o transitorio, conclude De Rita: “Non è un episodio congiunturale”.
Possiamo far punto qui per quello che ci interessava dire, giunti a questo punto della riflessione. Forse è utile solo aggiungere che la condizione della Chiesa italiana descritta da De Rita costituisce anche un danno grave per la nostra società, come possiamo constatare oggi giorno rispetto allo svolgersi della nostra specifica crisi d’epoca: ma è probabile che essa possa essere un danno o un ostacolo non meno grave anche rispetto al rinnovamento del governo del vertice papale. Non fosse altro perché esso, come abbiamo descritto, è vitalmente ed inevitabilmente collegato con la Chiesa italiana per mille ragioni storiche ed umane: quindi esposto al rischio costante della crescita ulteriore della tradizionale verticalizzazione nel governo del Vescovo di Roma: il quale è prigioniero, in qualche maniera (pur se indirettamente e certamente involontariamente), dei guasti di una tendenza conservativa che parte di fatto dalla “sua” diocesi e che rischia così di ostacolare la liberazione delle sue migliori energie, certamente presenti, probabilmente ancora all’altezza dell’impegno, e comunque molto utili per tornare a garantire una supplenza ancora storicamente necessaria.
Note
[1]G. BAGET BOZZO, Cattolici e democristiani, Rizzoli, 1994, p. 7. e p. 27.