“Quello che chiamo ‘nuovo realismo’ è anzitutto la presa d’atto di una svolta. L’esperienza storica dei populismi mediatici, delle guerre post 11 settembre e della recente crisi economica ha portato una pesantissima smentita di quelli che a mio avviso sono i due dogmi del postmoderno: che tutta la realtà sia socialmente costruita e infinitamente manipolabile, e che la verità sia una nozione inutile perché la solidarietà è più importante della oggettività”. Così Maurizio Ferraris spiega nel Manifesto del nuovo realismo (Laterza 2012) il senso della conferenza internazionale Prospects for a New Realism che si è svolta nel mese di marzo a Bonn.
Il nuovo realismo, secondo Ferraris, è la fotografia di uno stato di cose: il ritorno nel dibattito filosofico delle nozioni di verità e di realtà. All’incontro di Bonn, organizzato insieme al filosofo tedesco Markus Gabriel e allo studioso dell’università di Belgrado Petar Bojanić, hanno partecipato numerosi filosofi, in questo dossier pubblichiamo gli interventi tenuti da John Searle a Akeel Bilgrami. Se la crisi della post-modernità è stata rilevata da più parti, documentata al Victoria Albert Museum di Londra con una mostra su Postmodernism: Style and Subversion (1970-1990) e annunciata dalla rivista Prospect l’estate scorsa, una riformulazione delle nozioni di verità e di realtà che non ceda a un’impostazione pre-kantiana o a un realismo metafisico non è affatto scontata. Certamente la fine delle metanarrazioni descritta nel 1979 da Lyotard in quel ‘manifesto’ che è La Condition postmoderne non ha avuto gli esiti di emancipazione sperati ed è coincisa piuttosto con l’ascesa del pensiero unico neoliberale. Abbiamo chiesto a Ferraris di discutere i tratti salienti della post-modernità, le sue ricadute politiche e le terapie proposte dalla sua prospettiva realista.
Il nuovo realismo e il post moderno partono da una diagnosi comune: la rivoluzione desiderante non ha avuto gli effetti sperati e non ha condotto all’emancipazione. Vorrei chiederle innanzitutto di riassumere il senso dell’incontro di Bonn, presentando le differenti posizioni interne al dibattito sul Nuovo realismo, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra la verità e la realtà e le sue ricadute sull’etica e la politica. Partiamo dalle diagnosi.
Non direi che il postmoderno abbia una diagnosi in comune con il nuovo realismo. I postmoderni hanno fermamente puntato sul valore emancipatorio del desiderio. Faceva parte del loro anti-illuminismo: il sapere è potere, la ragione è dominio, dunque l’emancipazione va cercata nell’altro della ragione, nel mito, nel dionisiaco, nel desiderio. Poi certo i postmoderni sono stati delusi dal vedere che questa emancipazione non era tale, e che anzi il populismo mediatico, con il suo panem et circenses, ha realizzato come un incubo i sogni dei postmoderni. Cosa avrebbero detto Deleuze e Guattari del bunga bunga? E, peggio ancora, Berlusconi avrebbe potuto efficacemente difendersi invocando non il burlesque, ma l’Antiedipo. È da questa semplice constatazione che nasce il sospetto nei confronti della rivoluzione desiderante da parte dei nuovi realisti.
Terapie: oltre all’illuminismo, le due parole chiave sono – nella sua prospettiva – ontologia e critica. In che modo si oppongono a quelle che definisce nel Manifesto del nuovo realismo le tre fallacie del post-moderno?
La fallacia dell’essere-sapere pretende, appunto, che l’essere e il conoscere, l’ontologia e l’epistemologia, siano la stessa cosa. E il richiamo all’ontologia serve proprio a segnalare la differenza tra questi due livelli: posso sapere tutto sull’acqua, o posso ignorare tutto, i suoi effetti restano uguali. Diversamente vanno le cose con gli oggetti sociali: lì sapere tutto dell’Imu costituisce un oggettivo vantaggio rispetto all’ignorarne l’esistenza (sempre che l’ignoranza non sia voluta e simulata, ma in quel caso si tratta di evasione fiscale). Di qui l’importanza di distinguere non solo tra l’ontologia e l’epistemologia, ma anche tra gli oggetti naturali (che non dipendono dall’epistemologia) e gli oggetti sociali (che ne dipendono).
Le altre due fallacie, quelle dell’accettare-accertare (l’idea cioè che se accerto la realtà di qualcosa sono anche portato ad accettarla, il che è assurdo, sarebbe come se un medico studiasse le malattie per lasciare che facciano il loro corso), e quella del sapere-potere (il sapere non come forza disinteressata di emancipazione ma come manifestazione della volontà di potenza dei dotti e degli apparati statali) discendono dalla fallacia dell’essere-sapere, perché suppongono che ci sia un’azione determinante di ciò che i soggetti sanno anche sugli oggetti naturali (oltre a considerare i soggetti come moralmente spregevoli e disposti solo a cattive azioni).
La prima terapia – quella ontologica – discende dalla distinzione tra oggetti naturali e oggetti sociali e parte dalla necessità di prendere atto della realtà inemendabile dei fatti, tornando alla verità del mondo esterno, indipendente dal nostro modo di conoscerlo e di rapportarci a esso. Le giro domanda che le ha posto Roberto Esposito dalle colonne di Repubblica qualche settimana fa, relativa al superamento della svolta linguistica ed ermeneutica: “il realismo, per quanto nuovo, ne è davvero fuori o non è che lo spostamento dall’ una all’ altra della sue polarità interne? Detto in altre parole, la rivendicazione dell’autonomia dell’oggetto non presuppone necessariamente, come contraltare logico, quella del soggetto che pure intende contestare?”
Quello che ho detto nella domanda precedente dovrebbe chiarire questo punto. Da nessuna parte, nel Manifesto, nego l’importanza dei soggetti. Asserisco anzi che tutti gli oggetti sociali, cioè una buona metà del mondo, e quella che per noi è più importante, dipendono dai soggetti, pur non essendo soggettivi (nel senso che non posso fermare una crisi economica con un atto di volontà individuale). Spesso c’è molta confusione su questo, mi si attribuisce talora una tesi assurda, e cioè che esistono solo oggetti naturali, e niente soggetti, il che ovviamente non è meno insensato del sostenere che anche le montagne sono oggetti sociali e dipendono dai soggetti. La cosa curiosa è che questa seconda tesi ha avuto parecchi seguaci nel secolo scorso, credo perché conferiva ai soggetti una specie di onnipotenza idealistica. E visto che siamo nel paese di Croce e Gentile sono argomenti che continuano a toccare i precordi di molti, perché fanno di un professore ipso facto (per il solo fatto di pensare) un trasformatore del mondo.
Contro il costruttivismo delle interpretazioni e la confusione tra epistemologia e ontologia – tra ciò che sappiamo di quello che c’è e quello che c’è – scrive: “Insomma, l’inemendabilità è la sfera a cui si riferisce Wittgenstein in un passo famoso: «Quando ho esaurito le giustificazioni arrivo allo strato di roccia e la mia vanga si piega. Allora sono disposto a dire: ‘Ecco, agisco proprio così’». Ma questo strato di roccia non è proprio il fatto inoggettivabile di seguire una regola, l’appartenenza a una forma di vita piuttosto che la realtà in sé degli oggetti naturali che garantisce la progressiva verità e oggettività della scienza?
Nel Manifesto non parlo mai di “realtà in sé” degli oggetti naturali o di altro. Non sono un realista metafisico e non credo che esista qualcosa come la “realtà in sé”, degli oggetti naturali o degli oggetti sociali. Sono un realista minimale e negativo, ed è proprio a questo che fa riferimento il mio richiamo alla inemendabilità. Come dice Eco, c’è qualcosa nel mondo che ci dice “no”, e non ci si può far niente. Viceversa, io credo che – a meno di essere spaventosamente conservatori – molto si possa fare circa le regole che si seguono. Certo, quelle regole inizialmente si seguono ciecamente, Wittgenstein ha ragione. Ma non siamo mica dei servi della gleba. Se le regole sono ingiuste possiamo aprire gli occhi e prendere coscienza, con un’opera di emancipazione e di illuminismo: perché seguo questa regola? Non sarà solo un’abitudine senza ragione, e magari primitiva e assurda? E le regole, allora, si possono oggettivare eccome. È per esempio quello che ha fatto Marx quando ha svelato il plusvalore e l’arcano delle merci.
Da “Nulla al di fuori del testo” a “nulla di sociale al di fuori del testo”. E’ su questa restrizione della tesi che Derrida espose nella Grammatologia che ha costruito la sua teoria della “documentalità”, in cui mette in evidenza come tutti gli oggetti sociali – dai soldi, alle tasse, al telefonino – siano degli atti di iscrizione. La coscienza stessa, con buona pace di Cartesio, è un automa, ben più simile a un iPad che a un homunculus che se ne sta rintanato nel foro interno a vivificare col suo spirito la lettera. Ci spiega la continuità tra gli oggetti sociali e la coscienza, tra l’iPad e l’intenzionalità? E che implicazioni ha questa continuità sulla memoria, sia individuale che collettiva?
La mia teoria da questo punto di vista non è molto diversa da quella di Dennett: la competenza precede la comprensione. Noi veniamo al mondo in una società, impariamo delle consuetudini, dei comportamenti, delle parole, che poco alla volta costituiscono la nostra coscienza e si stratificano in significati. Per tutto questo è necessario memoria, è necessario un deposito delle iscrizioni e dei pensiero, e non per caso l’assenza radicale di memoria è anche assenza radicale di pensiero (è il motivo per cui l’Alzheimer è uno spettro nella società contemporanea, che ha allungato così tanto le attese di vita).
La socialità della registrazione è compatibile con una concezione neurobiologica della mente, con l’idea cioè che ci siano delle iscrizioni dentro la mente di ciascuno? O gli atti di iscrizione sono sempre pubblici e dunque anche la mente è pubblica?
Ci sono iscrizioni private (io che ricordo un momento della mia vita) e iscrizioni pubbliche (io che prometto solennemente di dire la verità in tribunale). I primi sono oggetti puramente mentali, e di per sé labili, visto che sappiamo quanto la memoria tenda ad alterare e a ricreare, volontariamente e involontariamente. I secondi sono ben più stabili, possiedono uno statuto d’oggetto in senso forte, che può essere ulteriormente rafforzato ricorrendo a registrazioni, documenti, archivi, tutto l’immane apparato di scartoffie in cui consiste la realtà sociale.
Come ha detto a Reset l’anno scorso, il web ha dimostrato il fallimento della profezia di Marshall Mc Luhan: non ci siamo ritrovati in una società orale di ritorno bensì, come aveva previsto Derrida, siamo coinvolti in un processo di esplosione della scrittura, di moltiplicazione di atti di iscrizione e registrazione. In che modo la rete come oggetto sociale modifica la concezione moderna di sfera pubblica e come incide sulla scomparsa di altri oggetti sociali come partiti e media tradizionali e quindi (anche) sulla nascita di nuove forme di populismo (post-moderno a parte)?
Come sempre avviene, la rete, che all’inizio si è presentata come strumento di emancipazione, diviene veicolo di populismo e di concentrazioni economiche. È sempre così, è già stato così con le cosiddette radio e televisioni “libere”, che si sono spesso risolte in grandi concentrazioni di potere politico ed economico. Ma sono convinto che a ogni passaggio tecnologico ci sia un piccolo passo in avanti: di Mussolini non si potevano vedere la faccia e le smorfie, se non raramente, mentre abbiamo assistito a tutte le metamorfosi della capigliatura di Berlusconi, alle sue gaffes registrate e ripetute. Con la rete il potere della registrazione e della diffusione diviene ancora crescente, e non credo che si assisterà alla scomparsa di partiti, giornali, media, ma piuttosto a una loro metamorfosi radicale, che del resto è già sotto i nostri occhi.
Nel Manifesto del nuovo realismo sottolinea il fatto che gli stessi Derrida e Foucault alla fine della loro vita abbiano denunciato il carattere regressivo dell’identificazione tra sapere e potere e la deriva della post-modernità: Foucault dedicò il suo ultimo corso al Collège de France a una storia della Parresia, al coraggio della verità, Derrida mise l’accento sulla “necessità di rilanciare l’idea dei Lumi, non come si è manifestata nel XVIII secolo in Europa, ma rendendola contemporanea, situandola nel progresso della ragione». A quale Illuminismo si riferiscono e come si declina oggi l’esortazione al “sapere aude” e l’uscita dallo stato di minorità?
Nelle posizioni di Derrida e Foucault, nel richiamarsi a un “abbi il coraggio di sapere”, abbiamo la ridiscussione completa delle tesi anni Settanta, che per l’appunto vedevano nel sapere un veicolo della volontà di potenza, e nella verità un inganno strutturale. Insomma, un illuminismo aggiornato, tenendo conto che “Illuminismo” non è solo un momento della storia del pensiero, ma anche una posizione ideale, contrapposta all’oscurantismo e alla superstizione, all’idea che l’uomo possa trarre maggior vantaggio dalla sottomissione alla tradizione, dalla accettazione del miracolo, del mistero e dell’autorità, che non dal sapere e dalla ragione.
Molti interventi, nel corso della discussione che si è svolta in questi mesi, hanno richiamato l’attenzione sul fatto che il grande assente, nel dibattito tra post moderno e nuovo realismo, sia il pensiero di Hegel e Marx, e con esso una concezione dialettica della storia e del rapporto tra sapere e potere. Se il post-moderno dà vita a nuova mitologia, quale concezione della storia implica il nuovo realismo?
Marx è molto presente nel nuovo realismo. E anche Hegel, l’anno prossimo il mio corso sarà sull’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Sono convinto che Hegel abbia colto perfettamente il carattere dialettico della epistemologia, come un divenire strutturalmente aperto. Sono invece convinto che l’ontologia non sia presa in questo cerchio, appunto perché ha un carattere inemendabile, negativo, che si sottrae. Se vogliamo rifarci a categorie care al dibattito del secolo scorso, l’epistemologia è la dialettica, l’ontologia la differenza, ciò che resiste.
L’uomo è un animale che promette. E’ con un atto linguistico performativo che propone di tradurre il logos nella classica definizione aristotelica. Che conseguenze ha questa traduzione sul rapporto tra filosofia e politica?
Il mondo sociale è fatto di promesse, il che significa che il mondo sociale è fatto di politica, che è la realtà ultima degli oggetti sociali. Nel momento in cui la politica ha subito un processo di degradazione che deriva dall’aver creduto che la sua essenza fosse l’illusione, e non la promessa, il realismo mi sembra un buon punto di partenza per una nuova dignità della politica.
A proposito di Del e suo sodale, Guatt, noi li abbiamo letti molto a fondo, molto attentamente e siamo su posizioni meno -pop-, meno rockeggianti, ma che dire dei marchettari della nuova sinistra filosofica, cui spesso accennava Deleuze? (parlava di marketing filosofico della nueva gauche caviar?
Guardate che razza di clownn filosofici sono alcuni di loro, in testa ovviamente la super star H.Levy, che tra una torta in faccia e un setting fotografico preparato per farsi vedere dietro le rovine fumanti del Kossovo, da stamparsi su una bella copertina di qualche amico editore, tra un buon cubano, una nuova fiamma, dopo la starlet del super glamour, e ottime coppe di Taittinger, hanno la pretesa di sostenere da filosofi, cioè produttori di nuovo pensiero filosofico, una visione del mondo.
Ecco, questo mio (nostro) scritto è l’ultimo, non vale la pena di perdere molto tempo nel leggere e scrivere su temi che non sono nemmeno proponibili da più di trent’anni. Ma poi, la caratteristica del pensiero debole, non è proprio anche questa, cioè di non infilarsi in tematiche inappropriate, retrò e troppo aspre? E da sempre, quelli ascritti alla destra filosofica, non si sono forse sempre tirati indietro dall’esporsi in contrapposizioni su temi che non trovano consistenza e radicamento anche nel biologico?
Un esempio: alcuni giorni fa, discutevo con alcuni allievi e amici, sul fatto che la nostra evoluzione è racchiusa anche nel cervello e ormai lo sappiamo bene da decenni: abbiamo un cervello uno e trino, ma naturalmente anche queste tre partizioni sono grossolane, la realtà è molto più continua come dimostrato da un grande scienziato che è stato deriso per almeno quindici anni, tale Broadman, che asseriva e pubblicava studi sulle aree cerebrali, aggiungendone ogni mese alcune (oggi siamo a 137, credo).
Veniamo al nostro discorsetto sociologico: se siamo il prodotto del nostro pensiero e la società è la risultante della nostra intelligenza, se siamo tutti convinti che il pensiero deriva dall’organo chiamato cervello, possiamo dire che la società è il prodotto dell’evoluzione biologica, come intesa e sostenuta per primo da Darwin, da cui la famigerata e vituperata teoria del Darwinismo sociale? Dico subito no, ma se stiamo al rigore assiomatico si dovrebbe dire si. A parte l’intelligenza condivisa, quella diffusa, studiate da un collega negli anni sessanta sulle formiche e riportata poi anche in altre specie sociali e ovviamente sulla nostra specie, questo attrae l’attenzione, allievi miei, su un punto: cosa determina la società in cui ci muoviamo oggi? Le invenzioni. Sono le invenzioni, il prodotto pratico, fungibile del pensiero e dell’intelligenza biologica e sociale dell’uomo e in questo senso, condivido il pensiero di chi pone la nascita della società postmoderna nella invenzione della stampa a caratteri mobili, quindi prima della scoperta dell’America. In questo senso nella sua Galassia Gutemberg, McLuhan pone la nascita della società postmoderna. Eppure all’epoca del suo saggio, già faceva cenno e come, all’elettronica e ai vari esempi di applicazioni in bit, non cartacee. Eppure, computer e televisione per alcuni autori ben piazzati da decenni, non cambiano il senso della società attuale, che vive la sua fase postmoderna con il riciclo in forme differenti, ma poi mica tanto, di quanto si è sviluppato ai tempi della prima stampa, con i cambiamenti che ha comportato. Sembra sciocco, ma i sistemi di credenze religiose occidentali sono cominciati a crollare pochi decenni dopo la stampa, fino a far dire a Nietzsche (400 anni dopo…), che Dio è morto, non solo, aggiungo io, morto e sepolto da tempo agli occhi del filosofo, forse il primo che sancisce la postmodernità in modo chiaro e definitivo.
Basta il Tablet e l’essere (forse) andati sulla Luna, per sancire la nascita della postmodernità? Per noi lo siamo già da almeno 400 anni, con buona pace di chi crede che basti un viaggetto nello spazio o pigiare qualche bottone sul telefonino, o stampare qualcosa con la stampante 3D.
Che poi ci sia tutto un filone di fighetti della nuova sinistra al caviale che ci parlano delle nostre società interconnesse, del mondialismo, della proletarizzazione a macchia di leopardo delle vecchie società occidentali, dei nuovi ricchi e nuovi poveri che avanzano e retrocedono, della caotica e contraddittoria forma delle dinamiche sociali e produttive, si tratta solo di fumo negli occhi, di confusione del moto del mare con i moti dell’aria, e insomma di un gioco di posizionamento in cui i furbetti e scaltretti della nuova gauche caviar, veicolati da certi personaggi di culto (sic!) e host televisivi (vedi lo scaltrissimo e furbetto F.Fazio, basta vedere i suoi occhietti ben desti, o la signora Gabanelli, vero cult al femminile, sorta di eroina post rinascimentale), cercano di assicurarsi le poltrone di prima fila che conducono alla pappatoia (si perché poi tutti mangiamo, chi più e chi meno).
Per capire chi era Eco, occorre tenere a mente questa sua frase estratta da
Sette anni di desiderio: (tra parentesi note mie..
-si parla (si dice, dicono, alcuni dicono…) di crisi delle ideologie. Errore. Caso mai bisognerebbe parlare di modificazione delle ideologie.
E’ caratteristico delle nuove ideologie, non essere riconoscibili come tali, così che possano essere vissute (riconosciute) come verità.-
Ecco, noi, noi altri, si noi, non aggiungiamo altro: ci beiamo di questa perla di Eco per capire come gira il mondo e la testa della sinistra al caviale o meno.
Certamente non attendiamo che a rivelarci quali sono le nuove ideologie siano proprio costoro: non ne abbiamo bisogno, anche se non ne hanno avute abbastanza di sconfitte clamorose durante tutti i decennni passati, forse continuano a ritenere di poter vincere la guerra in una mitica battaglia finale. Se si vuole poi sostenere che si prendono posizioni antagoniste per spirito dialettico e anche pratico, su questo siamo noi d’accordo: del resto, destra e sinistra sono termini creati in occasione deì posti occupati all’Assemblea nella Parigi della pallacorda. Lo vediamo tutti i giorni: grandi idee,grandi progetti sociali, politici, filosofici, per poi finire all’atto pratico per passare nell’imbuto e poi nel tritacarne del casereccio, del questo lo fo io, noni semo stati li primi, eccetera. Insomma, stesse soluzioni a stessi problemi, ma con qualche pagliuzza negli occhi differente.
Ecco spiegato ai miei allievi, cosa significa nuveau realisme, ritorno al reale. Del resto, basterebbe rileggersi un piccolo saggio di Stuart Mills di inizio anni sessanta, che poi ha ispirato tutta la campagna dei Caennedii (questa è l’origine del loro nome, mi dicono). Ogni tanto lo rileggo perché sembra scritto due giorni fa. Per dire ai miei allievi che non c’è niente di nuovo sotto le coperte, sempre la solita carne macera, e a volte sepolcrale, e classicamenter imbiancata.
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