Quello nato l’8 dicembre sarà un Nuovo Pd per una Nuova Italia? Contestare ogni possibile paragone con l’esperienza di Tony Blair è fin troppo facile. Eppure nella vittoria di Renzi si possono rintracciare almeno due circostanze simili alla svolta del New Labour. Un partito in fortissima crisi, e l’avvento di un leader che incarna una forte discontinuità generazionale e culturale.
Nella primavera scorsa nessuno avrebbe scommesso una lira sull’avvento di un Nuovo Pd. Per non parlare dell’aria che si respirava prima ancora. Forse è utile ricordare che la vittoria congressuale di Bersani (dare “un senso a questa storia”) si era tradotta tra il 2010 e il 2012 nell’archiviazione del Pd a vocazione maggioritaria, del partito pigliatutto e all’americana guidato da Veltroni. “Noi organizziamo il nostro campo, e poi ci alleeremo coi moderati”: quante volte lo abbiamo sentito ripetere in quegli anni? Peccato che i confini del nostro campo siano apparsi sempre più labili: la foto di Vasto è ingiallita dopo appena sei mesi e l’unico partner rimasto –Vendola- ci ha lasciati alla prima prova politica del dopo voto. Per non parlare delle alleanze coi moderati –rimedio ai guasti della vocazione maggioritaria, secondo i vertici del partito post 2009- che non abbiamo mai visto neppure da lontano. Quindi dopo tre anni ci siamo trovati con un Pd più schiacciato a sinistra, e più solo, che ha raccolto tre milioni di voti in meno del 2008 e della precedente somma di Ds e Margherita. Una Quercia senza Ulivo.
La marcia all’indietro del Pd non si e’ del resto manifestata solo sul piano politico e delle alleanze.
Altrettanto netta e in apparenza irreversibile e’ stata quella maturata nel tempo sul terreno della rappresentanza sociale.
Negli anni si è via via configurato un profilo del Pd che a parole mette davanti a tutto la difesa dei più deboli, ma nei fatti si comporta in tutt’altro modo, scendendo in campo quasi sempre a difesa dei settori relativamente più garantiti del mondo del lavoro. Settori ben lontani dall’essere privilegiati, naturalmente, visti salari e stipendi medi italiani, ma comunque meno esposti ai fenomeni della precarietà e della marginalità che investono circa metà del mondo del lavoro.
Come stupirsi allora di un elettorato Pd che tende a concentrarsi nelle classi medie istruite e urbanizzate, nel pubblico impiego e tra gli insegnanti, nelle persone anziane, e che è debolissimo tra i precari, le fasce più deboli ed emarginate, i giovani operai, gli artigiani i commercianti e i piccoli imprenditori esposti alla crisi? Tutte facili prede del populismo della destra?
A parte il fatto che la storia offre molti esempi di populismo anche di sinistra, il nodo è altrove: una sinistra che si ponga come obiettivo la pura e semplice conservazione del sistema del welfare costruito mezzo secolo fa finisce per perdere di vista i più deboli e, a lungo andare, la propria stessa anima. Evoca continuamente i ceti più deboli e disagiati nei propri discorsi, ma è priva di strumenti e apparati non dico per organizzarli, ma almeno per rappresentarli sul piano elettorale. E certamente non appare in grado di confrontarsi con la crisi delle organizzazioni tradizionali della rappresentanza, emersa in forme assai acute in questi mesi difficili.
L’appannamento politico e sociale si è accompagnato -e in alcune aree del Pd si accompagna tuttora- con l’affiorare di una singolare nostalgia per la Prima Repubblica e per i grandi partiti d’antan.
In tutta Europa la crisi del modello novecentesco dei partiti è conclamata, a destra come a sinistra. Il confronto è sui rimedi. Semplificando, si può tracciare una linea di demarcazione tra chi sperimenta una fuoriuscita dalla crisi dei partiti in senso populista-autoritario e chi lo fa nel senso di una democrazia più partecipata. Nessuna delle due strade può negare l’evidenza, ossia che oggi gli elettori vogliono comunque scegliere anche una persona e una storia personale. La strada indicata dal Pd col nostro atto di nascita coniuga la giusta personalizzazione della politica non con implicazioni autoritarie ma con un di più di democrazia. Di qui l’interesse francese tedesco e spagnolo per la versione europea delle primarie introdotte dal Pd in Italia.
Ma nel Pd a guida Bersani si era fatta strada una diversa ipotesi. Quel Pd ha attraversato le difficoltà tipiche del declino dei partiti di massa del Novecento, ma lo ha fatto con la testa altrove. Come il famoso pianista del saloon, continuava a suonare lo spartito della compattezza, del discutere dentro ma mostrarsi uniti fuori, dell’organizzazione che viene prima delle persone, del partito pesante che finalmente ha rimpiazzato l’insostenibile leggerezza veltroniana. E attorno a chi suonava questo vecchio spartito, tutti se le davano di santa ragione. Così Bersani si scagliava contro la personalizzazione della leadership e invocava la priorità del collettivo, ma poi (inevitabilmente) inondava le città con i suoi personalissimi manifesti prima in maniche di camicia e poi in gessato.
L’invocazione del modello di una volta non solo non ha risolto i problemi dell’organizzazione del Pd. Se possibile, li ha aggravati perché negli ultimi anni sono venute meno anche alcune delle ragioni che ne alimentavano la sopravvivenza. Ragioni legate a una “diversità” diluita dal nostro stesso atto di nascita e spazzata via dal dilagare di un partito popolato da notabili e funzionari. Non potendo incidere sulla realtà organizzativa del partito sul territorio, quell’invocazione è diventata così una sorta di collante ideologico tra ex. Lo stesso stimolante tentativo di Fabrizio Barca di sbrogliare da questo bandolo la matassa della crisi del Pd, tentativo che comunque va preso sul serio perché contiene ipotesi innovative, risente del richiamo a questa vecchia centralità.
Questa deriva apparentemente irreversibile è stata prima messa in discussione e poi addirittura scardinata dalla sfida di Matteo Renzi. Che cosa ha consentito il compimento di una tale missione impossibile?
Due circostanze concomitanti: la sconfitta elettorale del Pd e le caratteristiche della nuova leadership del sindaco di Firenze.
La sconfitta, con le sue conseguenze culminate nella crisi drammatica dei giorni dell’elezione del Presidente della Repubblica, ha smentito la linea di condotta dei vertici del Pd e in un certo senso ha privato di legittimità un intero gruppo dirigente.
La sfida di Renzi non si è proposta lungo le linee di faglia tradizionali, quelle tipiche dello scontro interno all’Ulivo e ai primi anni di vita del Pd. Renzi ha giocato tutta la sua partita non sul passato ma sul futuro. Sapendo che lo scempio delle regole e dello spirito pubblico compiuto da Silvio Berlusconi, e gli errori compiuti da noi del centrosinistra, si superano solo guardando avanti. La nostalgia per i partiti di massa non può coprire la terribile crisi della politica odierna stretta tra vincoli europei e totale mancanza di legittimazione interna. La difesa del welfare di quaranta anni fa non riesce a far fronte a diseguaglianze sociali e di reddito ormai intollerabili e alla realtà di nove milioni di lavoratori privi di protezione sociale. L’esaltazione del parlamentarismo d’antan non può essere un alibi per un conservatorismo istituzionale che tra l’altro avalla una legge elettorale che peggiora il funzionamento del parlamento di oggi. Insomma, la ricetta per superare la Seconda Repubblica non è il ritorno alla Prima.
Le caratteristiche stesse di questa sfida tolgono dal tavolo la discussione, che pure qualcuno aveva cercato di aprire nel corso delle primarie, circa una possibile separazione delle carriere tra segretario del Pd e leader di governo in pectore. E non solo perché la teorizzazione di una simile separazione sarebbe davvero una singolare anomalia nel panorama democratico contemporaneo. Ma soprattutto perché Renzi si è presentato come candidato sia alla guida del Pd che alla guida del governo senza alcuna possibilità di distinguere i due piani.
La vittoria di Renzi e già in qualche modo “storica” per il capovolgimento di linea e di gruppo dirigente che ha determinato nel Pd. Ma per completarsi ha bisogno di ottenere dal governo Letta un cambio di marcia sui tre temi indicati per l’agenda dell’attuale esecutivo (piano del lavoro, rapporti con l’Europa, legge elettorale e riforme costituzionali). E ha bisogno soprattutto di misurarsi direttamente e in tempi brevi con la sfida del Governo del Paese.
di strada ne dobbiamo fare ancora tanto. Ma soprattutto uscire dai personalismi che azzerano l’attività dei nostri gruppi e delle nostra amministrazioni. Alla regione lazio sui direttori delle asl si è operato con metodi vecchi. la stessa cosa al comune di roma, dove non abbiamo ancora cambiato i vertici delle aziende municipalizzate. Più coesione fra amministratori e partito.
Paolo