Un recente importante rapporto della Svimez consente di sfatare alcune leggende e luoghi comuni sulle vicende del tormentato rapporto tra il Mezzogiorno e il resto del paese. Anzitutto quello secondo cui il divario tra Nord e Sud fosse l’espressione di una inferiorità storica e come tale già presente al momento dell’unità. No: in quegli anni le due parti del Paese erano allo stesso livello di reddito pro capite. Il divario si manifestò e si allargò drammaticamente nel periodo che va dall’Unità d’Italia alla seconda guerra mondiale. La guerra distrusse gran parte degli impianti industriali campani con i bombardamenti alleati e con le distruzioni operate dai tedeschi in ritirata. Minori danni ha invece ricevuto l’industria del Nord, per cui anche per questa strada veniva acuito il divario tra le due parti del paese. Così verso la fine degli anni ‘40 il divario economico tra Nord e Sud misurato in termini di Pil procapite si era allargato sino a 40 punti %.
Il tremendo problema del dualismo fu affrontato in quello che possiamo considerare il periodo aureo del meridionalismo e dell’intervento straordinario: tra il 1950 e il 1975 il divario tra Nord e Sud si riduce di circa 20 punti. Durante la cosiddetta “Età dell’Oro” il Meridione mostra un’importante dinamicità nella performance economica. Per la prima volta nella storia unitaria il Mezzogiorno recupera almeno 20 punti del ritardo che aveva accumulato negli anni precedenti. Siamo nella fase dell’intervento dello Stato a supporto della realizzazione della riforma agraria e della politica di industrializzazione nei settori di base (petrolchimica, siderurgia), che permette al Mezzogiorno di dare un forte impulso alla crescita del reddito e dell’occupazione e che è funzionale anche allo sviluppo dell’industria manifatturiera del Centro-Nord. Ad esempio gli impianti siderurgici di Bagnoli e di Taranto producevano la materia grezza (acciaio) che poi veniva trasformata dalle imprese del Nord che realizzavano i prodotti in metallo (rubinetteria, posate, tondini, ecc. ) e le macchine utensili. Questo è uno degli errori della politica basata sullo sviluppo delle industrie di base: intorno ai grandi impianti non cresce quel tessuto di piccole e medie imprese operanti nella trasformazione industriale che avrebbe promosso anche uno sviluppo endogeno delle regioni meridionali.
Dalla fine degli anni ‘70 il divario è risalito sia perché sono entrati in crisi i settori su cui si era basata la crescita industriale del periodo precedente sia perché gli investimenti furono sostituiti da una politica di trasferimenti che tendeva ad alimentare i consumi finali piuttosto che a sostenere la realizzazione di infrastrutture e il rafforzamento della base industriale del Sud. Così negli ultimi 30 anni il divario del Pil procapite tra il Mezzogiorno e il resto del paese riprende ad allargarsi arrivando a toccare un valore intorno al 40% nel 2009.
Altra bugia dell’antimeridionalismo di marca leghista: il peso enorme dei trasferimenti dal Nord al Sud del paese. Cinque sono le regioni che registrano un deflusso netto di risorse. E solo in parte dal Nord al Sud. Piemonte, Lombardia e Veneto registrano un reflusso ridotto di oltre 50 miliardi di euro (rispettivamente 1,2 miliardi in Piemonte, oltre 4,2 in Lombardia e quasi 7 in Veneto). Ma a garantire la “solidarietà” sono anche l’Emilia Romagna per 5,5 miliardi e il Lazio per 8,7: queste cifre, messe assieme, portano il deflusso totale verso il Sud a 65 miliardi. Sfatato quindi il mito leghista della “Roma ladrona” che succhia risorse dando poco o niente, va in crisi anche la generalizzazione di un Nord sempre pronto ad aprire il portafoglio. Se poi si guarda alle regioni a Statuto speciale come il Trentino, il Friuli e la Val d’Aosta la proporzione si inverte.
Altra leggenda: se il Nord fosse liberato dal peso del Sud la sua economia ne trarrebbe vantaggio, Non è vero. Nel periodo durante il quale l’afflusso esterno di risorse nel Sud si è ridotto anche il Nord ha segnato un declino. Infine: la quota di risorse che affluisce al Sud non è affatto superiore alla sua incidenza in termini di popolazione. Al contrario, la spesa pubblica erogata al Nord costituisce il 70 per cento della spesa nazionale, la popolazione il 60 per cento.
Insomma, la critica della Svimez alla campagna secessionista-leghista è più che giusta. Le proposte che essa formula tuttavia non sono pienamente convincenti. Non certo prive di importanza ma troppo vaghe per offrire una valida base alla riscossa di un nuovo meridionalismo. C’è poi una considerazione di carattere generale. Il problema del Mezzogiorno resta sì un problema di risorse da mobilitare e trasferire. Ed è giusto in proposito contestare le accuse di trasferimenti totali eccessivi.
Ratti, zoccole e pantegane
Ma il problema non si riduce alle risorse finanziarie. Sono convinto che il più grave problema, ingigantito negli ultimi venti anni, non stia tanto nelle risorse economiche da mobilitare quanto nella degradazione delle risorse politiche. Voglio dire nella degenerazione della classe politica meridionale: nella terrificante diffusione della economia sommersa e dell’economia criminale e mafiosa. Nonché, soprattutto, nella contaminazione tra questi due malanni.
Richiamo qui il severo sarcastico monito di Luciano Cafagna: “Non è possibile accettare che il foraggio destinato all’allevamento di cavalli di razza venga versato direttamente a ratti, zoccole e pantegane che si mangiano poi anche i cavalli”. Non sono certo il solo a pensare che i più gravi ostacoli che sbarrano al Mezzogiorno la via dello sviluppo siano lo scadimento della sua classe politica e la sua contaminazione criminosa.
Quando si parla del ben diverso esito delle politiche di sviluppo nella Germania dell’Est e nell’Italia meridionale non si può trascurare la diversa qualità delle due realtà culturali e sociali. Non voglio assolutamente – l’ho detto prima – sottovalutare l’importanza del problema quantitativo: della insufficienza delle risorse destinate al Mezzogiorno. Voglio drammatizzare il problema dell’uso, si deve dire dell’abuso che se ne fa. Che si può compendiare nelle dimensioni dell’economia sommersa “legale”, nelle dimensioni dell’economia criminosa, nella tracimazione di quest’ultima dal Sud al Nord; nelle sue diramazioni mondiali. Poche cifre. Il Fondo Monetario Internazionale ha analizzato per gli anni 1999-2001 l’incidenza del sommerso sul PIL in 24 paesi. Tra i paesi dell’Ocse l’Italia occupa il secondo posto con un’incidenza del 27 per cento, dopo la Grecia. Non si danno valutazioni precise sull’entità del fenomeno nelle due parti d’Italia. Si può comunque tranquillamente affermare che il fenomeno assume nel Sud dimensioni di gran lunga superiori a quelle del Nord.
Quanto all’economia criminale, il Sud vanta un primato indiscusso rispetto ai 180 miliardi valutati per l’Italia: la mafia spa italiana è la prima impresa italiana per fatturato e utile netto (il fatturato della Fiat è di circa 60 miliardi). Negli ultimi anni la tracimazione delle organizzazioni mafiose del Sud nel Nord ha assunto dimensioni impressionanti. A Modena il procuratore della Repubblica ha dichiarato che se per magia avesse il potere di sradicare il crimine dalla città “mi caccereste perché vi avrei rovinato”. In una mappa pubblicata dal Corriere della Sera Milano appare circondata dalle cosche della ’n drangheta. Una volta Giuseppe Mazzini disse: l’Italia sarà ciò che il Mezzogiorno sarà”. Il vaticinio minaccia di realizzarsi nel modo più devastante.
La tracimazione delle mafie meridionali non si arresta all’Italia. Il PIL mondiale della criminalità organizzata ha toccato all’inizio del terzo millennio i mille miliardi di dollari, cifra superore ai bilanci nazionali di 150 paesi membri dell’Onu. Ebbene: nel 2008 George Bush ha inserito la ’n drangheta nella lista delle massime organizzazioni mondiali canaglia. Obama vi ha aggiunto la Camorra. Ci si può legittimamente chiedere: qual è il più grave deterrente dell’afflusso di imprese straniere nel nostro paese, l’assenza di sufficienti incentivi finanziari o la presenza di una diffusa e potente criminalità? E qual è il freno più potente alla ripresa della competitività italiana nel mondo? Senza dubbio per quanto riguarda il Mezzogiorno, la contaminazione tra la classe dirigente politica e le organizzazioni mafiose.
Negli anni più recenti si è fatto un gran parlare di federalismo. A dire la verità, più parole che fatti.
Ora, ciò che conta nella secondo me giusta istanza federalista è la sua ispirazione di fondo: unitaria o separatista. Fino a che punto il regionalismo italiano partecipa dell’una o dell’altra? L’esperienza regionalistica ha avuto esiti assai diversi nelle due parti del paese: sostanzialmente positivi al Nord, nettamente negativi al Sud. Ciò è dovuto alla profonda diversità della storia delle due parti d’Italia. Purtroppo un federalismo inteso soprattutto in senso fiscale ha favorito le istanze separatiste nel Nord, quelle clientelari e assistenzialistiche nel Sud.
L’istanza federalista, parte integrante dell’originale ispirazione risorgimentale, non era intesa come semplice autonomismo amministrativo e fiscale, ma come un patto storico tra il Nord e il Sud che saldasse le diversità del paese in una autentica unità nazionale. Tale era l’ispirazione meridionalistica di Dorso e di Salvemini: non la rivendicazione di una gelosa solitudine ma lo slancio di un abbraccio. Non a caso l’autonomia rivendicata da Salvemini era intesa per l’intero Mezzogiorno, non per le singole sue regioni. Non a caso Dorso, rispondendo a quanti temevano l’autonomismo nella sua integrità per le sue tentazioni separatiste, affermava che proprio “la mancanza dell’autonomismo riconduce allo schema della carità dello Stato e minaccia di sbalzarci nel separatismo reazionario”. Come dice Valentino Parlato, nella logica dello spezzatino. E’ richiamandomi a questi passati moniti che ho formulato l’idea provocatoria dell’istituzione di due macro regioni, e di un patto federale tra le due, sottoposto ovviamente al controllo del governo e del Parlamento nazionale; e della formazione di un piano fondato sul risanamento dello sviluppo urbano, che è la condizione fondamentale per sradicare dal Mezzogiorno l’escrescenza tumorale della mafia.
Bisogna guardarsi dalla tentazione delle analogie storiche ingannevoli. Pure, talvolta, la storia del passato suscita qualche stimolante idea del futuro, Non resisto al pensiero di che cosa avrebbe significato per l’Italia e per l’Europa un patto tra la possente monarchia svevo normanna e le fiorenti città italiane. Forse l’Italia non avrebbe patito la servitù secolare che ha corrotto il nostro carattere, e di sicuro il mio amico Sabino Cassese non avrebbe potuto scrivere il suo bel libro Una nazione senza Stato. Ed il grande Federico si sarebbe riconosciuto nel vaticinio mazziniano: l’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà.