Sebbene ancora oggi autorevoli studiosi continuano a sottolineare la distanza tra lo storicismo crociano e il neo-empirismo o il pragmatismo deweyano, nondimeno occorre anche rimarcare alcune affinità tra i due pensatori, non prescindendo, certo, dal loro comune impegno in ambito etico-politico come paladini del liberalismo, e vieppiù del pensiero libero, in una tragica stagione caratterizzata dal proliferare di totalitarismi, ma facendo anche attenzione alla comune vocazione delle loro filosofie, così aliene da ogni conato metafisico o teologizzante, così attente ai «fatti particolari», per quanto costruite in ambiti teoretici a prima vista discordi o contrastanti.
Certo non è un caso che oggi si torna a parlare con insistenza tanto di Croce quanto di Dewey. Per quanto riguarda il filosofo italiano, si tratta anzitutto di intendersi sul Croce che torna tra noi dopo una lunga parentesi di disattenzione e di oblio. In realtà, nell’ultimo decennio, non c’è stata, né poteva esserci, una «moda» crociana, sebbene alcune imprese editoriali, che hanno riproposto opere ormai reperibili solo sul mercato antiquario, abbiano avuto un discreto successo. Come ha osservato Paolo Bonetti nella sua Introduzione a Croce, per i tipi della Laterza, «Croce è un pensatore moralmente troppo severo per diventare oggetto di moda… Ma è proprio questa “severità” (che non ha nulla a che vedere con il moralismo dei retori, da lui sempre detestato) a rendere paradossalmente possibile una nuova presenza di Croce, per tutti coloro, almeno, che si ostinano, in ogni campo del sapere, a pensare i problemi nella loro specificità e determinatezza storica».
Dunque, Croce come «maestro di vita morale»; e qui si può essere perfettamente d’accordo con Norberto Bobbio che l’etica di Croce è un’etica dell’opera. Più precisamente, è un’etica dell’opera impersonale, non della persona attraverso le sue opere. Di fronte all’ideale di felicità costante e di beatitudine affermato dalle religioni, che hanno trasferito tale ideale al di là della vita terrena, occorre piuttosto affermare un’ideale che non sia quello chimerico dell’assoluta felicità: e questo ideale è proprio degli uomini che «sentono moralmente»..
Da questa concezione del rapporto tra l’individuo e la sua opera nascono alcuni precetti fondamentali della morale crociana: la devozione al proprio compito, la fedeltà alla vocazione, l’amore delle cose, contrapposto all’amore proprio, e anche «l’orrore del perdere tempo», il prendere le cose sul serio.
Oggi, vi è più di una ragione per il ritorno di Croce nella cultura italiana: lo storicismo crociano, radicalmente immanentistico e spogliato di ogni filosofia della storia, merita di essere ripensato senza pregiudizi. Così come lo merita la sua etica e anche la sua estetica che ha aperto in modo inedito la stagione filosofica novecentesca.
D’altra parte, merita oggi una particolare attenzione anche Dewey, col quale Croce ha intessuto a distanza un dialogo fatto di stima, nel riconoscimento di un comune sentire riguardo ad alcuni temi, ma anche di reciproche incomprensioni. Vale dunque la pena richiamare, sia pure sinteticamente, le ragioni del loro dissenso, evidenti soprattutto nel campo della teoria estetica.
Nel 1934, nel volume Arte come esperienza, John Dewey prendeva apertamente le distanze dall’estetica crociana, in particolare riguardo al ruolo dell’intuizione e all’identificazione di questa con l’espressione tout court. L’intuizione, egli osservava, «non è né un atto di puro intelletto nell’apprendere una verità razionale; né, come vuole Croce, una presa di possesso ad opera dello spirito delle sue stesse immagini e condizioni». Dewey osservava che l’estetica crociana offre «un eccellente esempio di ciò che accade quando il teorico sovrappone preconcetti filosofici a un’esperienza estetica che viene arrestata». Se si parte dal presupposto che la sola «reale esistenza sia l’intelletto» e dunque dalla irrealtà “idealistica” dell’oggetto, allora bisogna concludere che la «conoscenza degli oggetti artistici e della bellezza naturale non è un fatto della percezione, ma di un’intuizione che conosce gli oggetti, come, essi stessi, momenti dell’intelletto».
Nella recensione ad Arte come esperienza, che ora si può leggere nel secondo volume di Discorsi di varia filosofia, Croce rilevava che altro apparivano le dichiarazioni di principio del filosofo statunitense, cioè la professata fedeltà al pragmatismo, altro era la concreta portata delle sue dottrine estetiche. Non mancava, perciò, di sottolineare, al di là delle divergenze, il ripensamento deweyano di momenti e problemi, peraltro in chiave assai originale, delle acquisizioni dell’estetica italiana del primo Novecento e, dunque, il fondamentale accordo tra la propria estetica e quella di John Dewey. Tra i punti a favore di una comune consonanza, Croce notava come anche in Arte come esperienza fosse presente il convincimento «che la commozione o sentimento di un’opera d’arte non è semplicemente qualcosa di personalmente provato, ma ha carattere universale; che l’atto dell’espressione non sopravviene a una ispirazione già bella e compiuta, ma va insieme con essa», «che son da rigettare tutte le teorie dei formalisti dell’arte, i quali fanno consistere la bellezza in linee, colori, luci ed ombre e simili, distaccandola dal contenuto e significato psichico», «che non vi sono contenuti estetici e contenuti non estetici; che in ogni arte sono tutte le altre arti; che le cosiddette “modificazioni del bello”, quali il sublime, il grottesco, il tragico, il comico, ecc., hanno un uso pratico, ma non già concettuale e dialettico», «che al giudizio sull’arte è indispensabile la conoscenza della storia».
Riguardo alle critiche mosse dal Dewey sulla portata conoscitiva dell’intuizione e sull’irrealtà idealistica degli oggetti, tanto che «l’intuizione conosce per oggetti solo gli oggetti in quanto essi stessi sono stati d’animo», Croce rispondeva di sostenere, sì, «che la poesia e le altre arti hanno per materia non “le cose esterne”, ma i “sentimenti” o l’umana passione» e che nulla «può esistere separato dal conoscere», ma che Dewey, influenzato dal pragmatismo, non confutava questa o quella dottrina, stimando di aver già «confutato il loro fondamento stesso, che è il pensare filosofico».
Nella risposta alla recensione crociana («A Comment on the Foregoing Criticisms»), dapprima apparsa nel «Journal of Aesthetics and Art Criticism» e ora compresa nel volume 15^ delle «Later Works», Dewey tornava a ribadire il suo sostanziale dissenso dall’estetica idealistica. Egli ammirava, sì, l’opera del pensatore italiano, che aveva opposto un’eroica resistenza «to the wave of Fascism», ma osservava di non trovare un terreno comune («a common ground») per la discussione; e notava che quelli che sembravano «luoghi in comune» tra lui e il filosofo italiano, erano, in realtà, le acquisizioni proprie dell’estetica contemporanea; che la sua estetica non era affatto «fondata» su un sistema filosofico «preconfezionato», come quello crociano («I did not write Art as Experience as an appendix to or application of my pragmatism […] or in subjection to any sistem of philosophy»); che, infine, il suo postulato gnoseologico era la conoscenza dell’essere umano come «essere vivente» («human being as living being»).
Negli anni della tarda maturità, Croce si occupava, ancora una volta, dell’estetica di Dewey, in occasione del novantesimo compleanno del suo leale avversario. Nel libro del 1952, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici,Croce salutava il filosofo statunitense come l’«uomo che ha difeso […] le fondamentali verità della vita umana, intellettuale, morale e politica, la libertà in tutte le sue forme», dichiarando altresì che non era la prima volta che si sentiva «in più intima e sostanziale e viva unione con alcuno che discorda da me in filosofia (il Dewey empirista e prammatista; io, speculativo e storicista), che non con altri che concordano». Nel ribadire ulteriormente che il volume deweyano del 1934 «giungeva circa l’arte, quasi in ogni punto, alle medesime conclusioni alle quali era giunta l’estetica italiana nei trent’anni precedenti», sottolineava la contraddizione, a suo parere evidente, tra le dottrine estetiche sviluppate in Arte come esperienza e il metodo pragmatista professato e, viceversa, la corrispondenza di esse proprio con il metodo condannato.
Croce ritornava ora con simpatia e ormai con senile distacco alla polemica che si era svolta circa vent’anni prima. E, ancora una volta, annotava che i pretesi «luoghi in comune» o «luoghi comuni», cui si faceva riferimento nella polemica, in realtà «hanno vinto solo dopo lotte e dispute spesso secolari, le quali ancor oggi di volta in volta si riaccendono»; mentre all’obiezione deweyana che non vi era terreno comune per la discussione, egli rispondeva che si potevano trovare due vie di uscita dal contrasto: «la prima, che uno degli avversari confuti totalmente la tesi dell’altro e così la sostituisca con la sua; e la seconda che, nel corso della disputa, ciascuno reciprocamente riconosca la parte di verità e la parte di errore che è nell’altro, ed elidendo le due parti inferme, si ritrovino nella salute del vero, a questo modo da entrambi attestato». E poiché era naturale che ognuno di loro non abbandonasse le proprie posizioni teoriche, non restava al Croce «che dimostrare con qualche esempio» che «il metodo empirico e il pragmatismo» impedivano a Dewey «di fondare e dimostrare veramente le sue luminose affermazioni». Nondimeno, il filosofo italiano ritornava, al di là delle divergenze, sulle possibili affinità. Così, se la teoria storiografica di Dewey si fondava sul presupposto che «il vero punto di partenza della storia è sempre una certa situazione presente, coi suoi problemi individualizzati», Croce osservava che si trattava della stessa teoria che egli aveva enunciato nella memoria del 1912, Storia, cronache e false storie, nella quale sosteneva che ogni vera e viva storia è storia non del passato, ma contemporanea.
A prescindere, però, da questo o da altri aspetti particolari, restava comunque insoluto nella filosofia deweyana, a suo parere, un vizio di fondo, cioè l’impossibilità di «vincere il dualismo di natura e spirito». E perché mai, egli si chiedeva, «nella sua Estetica, il Dewey fa cattivo viso alla mia affermazione dell’unità dell’intuire e dell’esprimere», «se non perché egli serba il dualismo, e perciò non gli riesce di pensare l’intuizione come nell’atto stesso espressione, la volontà come azione, l’anima come nell’atto stesso corpo vivente? Nello stesso proposito dice nella sua Estetica e ripete nelle postille alla mia recenzione, che io voglio “subordinare la creazione dell’arte e il godimento estetico a un preconcepito sistema di filosofia”». In realtà, concludeva Croce, empirismo e pragmatismo non gli sarebbero stati buoni consiglieri, «come si può vedere, tra l’altro, dalla sua stessa deduzione che la filosofia idealistica ed organica abbia per riflesso politico conservatorismo e autoritarismo e quella empirica, invece, libertà e progresso».
Dopo le discordanti interpretazioni di chi, come Ludovico Geymonat o Mario Dal Pra, ha esaltato John Dewey come il difensore della libertà e della democrazia, o di chi, come Gyorgy Lukács o Adam Schaff, ha visto in lui, ingenerosamente, il portavoce del capitalismo nordamericano, o di chi ha colto nel pensiero deweyano un atteggiamento fondamentalmente «esistenzialistico», o, ancora, di chi, come Pietro Rossi, ha sottolineato la dimensione storicistica del pensatore statunitense, è senza dubbio opportuno riaccendere il dibattito su una figura così complessa e indomita ad ogni tentativo di schematizzazione.