L’articolo riproduce l’intervento tenuto dall’autrice il 9 dicembre 2011 all’incontro “Background of Xenophobia” organizzato dall’associazione ResetDoc presso l’Institute for Public Knowledge della New York University.
Tendiamo a confondere la xenofobia di oggi con qualcosa che riguarda il passato. Negli Stati Uniti, il nativismo si associa storicamente a prese di posizione e resistenze contro la forza lavoro cinese e determina diversi gradi di rischio, oltre a inficiare l’accesso alla cittadinanza per determinati gruppi.
Il nativismo americano vecchio stile era legato alla competizione per il lavoro e le case popolari, era una risposta per contrastare la competizione rappresentata dagli stranieri nelle fasi di recessione economica. Quel che contraddistingue la xenofobia in Europa oggi è che quando il mercato del lavoro è in crisi, il razzismo cresce, ma il razzismo cresce anche quando l’economia e il lavoro sono in una fase attiva. In altre parole, il vecchio legame competizione economica e resistenza contro gli immigrati non appartiene alla xenofobia europea attuale.
Mutuando un concetto di Ernest Galler, sostengo che la xenofobia non è altro che un progetto di restaurazione nazionalista; è un programma di falsificazione basato sull’amnesia che rimuove le tue origini e crea un mito. Il nazionalismo è quel che otteniamo quando non ci sono più nazioni in senso organico; qualsiasi teoria xenofobia sul danese o l’olandese “puri” e l’idea culturalista di una nazione vanno chiaramente contro la realtà, per usare un eufemismo. È una concezione romantica, una fallacia, un passato che non è mai stato; è un programma di purificazione che entra in vigore quando è già troppo tardi.
Il dato interessante sulla xenofobia e il suo funzionamento politico è che negli anni Settanta eravamo abituati ad avere partiti di destra in Europa che erano contro le tasse e contro lo Stato sociale, mentre oggi il welfare e le politiche economiche fanno parte dell’area del consenso.
Dopo quadi venticinque anni, nessun partito di estrema destra è riuscito a ottenere voti se non integrando e affidandosi a sentimenti ostili agli immigrati, tagliando del tutto fuori lo scenario politico. Nella maggior parte dei paesi europei (non in Francia e nel Regno Unito dove il sistema elettorale è diverso) è il piccolo elettore a determinare il risultato, nel contesto attuale sono le frange a esercitare pressione sul centro, al punto tale che questo si è svuotato.
A mio avviso la colpa del fallimento della leadership va rintracciata in due variabili. La prima è che non esiste alcuna competizione tra la destra e la sinistra per quanto riguarda il progetto europeo e la politica economica, così lo scontro e la differenza si legano soprattutto a questioni nazionali. La seconda ragione è che gli elettori sono sempre più disaffezionati ai partiti del passato, il che significa che a ciascuna elezione ti ritrovi a fare campagna su quello che resta a disposizione, come il risentimento contro gli immigrati.
È vero che la xenofobia ricicla tanti luoghi comuni del passato. Sicuramente nell’Europa protestante del Nord molto di ciò che viene detto a proposito dei musulmani ricorda da vicino quello che si diceva dei cattolici: che sono sleali, che non riescono a mettere da parte il sacro rispetto al secolare, che sono la “quinta colonna” perché rispondono ai dettami del Corano o del Papa. Si tratta, come sostiene Buruma, di sentimenti che dormono ma non scompaiono. Quel che inquieta molto di noi è sapere fino a che punto tali sentimenti verranno resuscitati. Dieci anni fa ho deciso di scrivere un libro per via di Samuel Huntington; non riuscivo ad affrontare il tema dell’estrema destra così ho intervistato leader musulmani su quel che ritenevano fossero i problemi delle comunità nell’Occidente.
Uno dei dati più interessanti emersi da quelle conversazioni con amministratori e parlamentari musulmani nelle principali città d’Europa, è che replicavano quello che più o meno dicevano tutti: che i musulmani dovevano integrarsi, imparare la lingua e cambiare le loro abitudini religiose, obbedire alle leggi e alle norme del paesi in cui avevano scelto di vivere, che dovevano trovarsi un lavoro e smettere di soggiogare le donne. Alcuni mi hanno confessato di essere a favore di un inasprimento delle politiche di ricongiungimento familiare– all’epoca in via di discussione– poiché credevano che uno degli ostacoli più grandi all’integrazione musulmana fossero i matrimoni combinati tra cugini e le mogli in arrivo dal paese di origine, dato che in casa si sarebbe parlato soprattutto in arabo. In pratica, era un ostacolo al processo educativo; si trattava di temi che erano sulla bocca di tutti e c’era largo consenso su ciò che doveva essere fatto.
Mettere un freno all’immigrazione non dev’essere letto sempre e comunque in termini di xenofobia, quel che contesto è la denigrazione delle persone e la creazione di stereotipi. Alla fine la decisione di mettere delle restrizioni al flusso immigratorio si è tradotto nel linciaggio dei musulmani; se vuoi limitare l’immigrazione devi far capire alle persone che sono in partenza che non sono le benvenute. E come lo fai? Rendendo la vita difficile a chi nel paese c’è già, come è successo in Danimarca e in Olanda. In quel periodo le due nazioni erano quasi in competizione tra loro per stabilire chi riusciva ad andare oltre il limite, in attesa che le corti di giustizia si pronunciassero. Cosa avrebbe detto la Corte Europea dei Diritti Umani? Cosa avrebbero detto l’Onu e l’Unione Europea?
Quelle politiche restrittive hanno creato una situazione totalmente in perdita per i musulmani, a prescindere dalle loro azioni. Se ti integravi, andavi a scuola ed uscivi dalla restrizione dell’ambiente casalingo, se decidevi di scegliere a cosa appartenere e iniziavi a raccogliere fondi per costruire una moschea con i soldi della comunità e non con dei fondi dall’Arabia Saudita, andavi comunque incontro a delle resistenze. Dall’altro lato, se restavi nella comunità ristretta o a casa non ti integravi affatto: in pratica era una situazione senza via di uscita. Le politiche che limitavano l’immigrazione hanno stimolato la xenofobia invece di attenuarla.
In ogni caso, quel che nessuno si aspettava è che le cose sarebbero andate diversamente. Quest’anno per la prima volta gli Olandesi hanno deciso che il futuro in ambito di integrazione e tolleranza sembra roseo; il 54% della popolazione crede ancora che la nazione stia perdendo la propria identità ma attribuisce la colpa all’Unione Europea e in particolare alla moneta unica, e il 56% crede che ci sia troppa negatività attorno agli immigrati. I danesi invece (parlo di queste due popolazioni perché sono state all’avanguardia dei movimenti xenofobi) hanno fatto salti da gigante.
Nel 1990 il 53% della popolazione sosteneva di preferire i danesi agli stranieri, mentre oggi lo dichiara solo il 25%. Quest’anno per la prima volta il Danish People Party ha perso un’elezione. Ora, immaginate un partito politico in un sistema in cui il 2 o il 3% dei voti è sufficiente a determinare chi controllerà il governo, come accade frequentemente nei paesi europei in cui vige il sistema della rappresentanza proporzionale, e immaginate un piccolo partito che elezione dopo elezione si trova al vertice. Questo è sufficiente a trasmettere un messaggio molto potente al resto del sistema, ed è proprio quello che è accaduto: il Danish People Party è diventata la terza forza del paese e per tre tornate elettorali ha sostenuto politiche severissime in materia di immigrazione; il governo di fatto è stato alla sua mercé. Anche se all’epoca non controllava più del 13-14% dell’elettorato, esercitava un’influenza grandissima sulle politiche pubbliche. Oggi è chiaro che ci sono dei limiti ad azioni di questo tipo, e che non si può stringere il bullone oltre un determinato punto. Le persone non ritengono che siano necessarie politiche più aspre in materia di immigrazione perché queste lo sono già abbastanza, e non ritengono che gli immigrati debbano lasciare il paese perché intanto è avvenuta l’integrazione.
Siamo al punto di svolta, si tratta di capire quali sono i pericoli più consistenti per il progetto liberale e la tolleranza. A mio avviso ce ne sono due.
A causa della legge delle conseguenze involontarie, negli ultimi venti anni– per via di politiche d’immigrazione a volte davvero stupide e altre che non lo erano– la situazione è nettamente migliorata. L’integrazione è possibile; è un processo intergenerazionale. Non importa quel che sostengono i politici, l’Europa da questo punto di vista è tutto sommato un successo. Molti giovani di origine straniera sono iscritti nel sistema scolastico e trovano lavoro, i matrimoni interrazziali sono in crescita, le persone adottano la lingua nazionale. Nei media ci sono persone visibilmente appartenenti a comunità diverse, e nel frattempo siamo passati da uno scenario in cui i cittadini erano nettamente ostili agli stranieri– che erano attorno al 2% della popolazione– a delle società in cui la presenza di immigrati è nettamente maggiore, tra il 5 e il 10% nella gran parte dei paesi europei.
È cambiato anche il significato dell’essere straniero, con i matrimoni misti come si fa a stabilire chi è l’estraneo? Ci sono sempre più persone che ottengono il diritto di cittadinanza e non vengono considerate tali, quindi come fai a contarli? In pratica gli stranieri sono le persone che non hanno un passaporto nazionale, ma le leggi sono cambiate e fanno sì che l’accesso ai documenti si stia allargando. L’integrazione è un processo che richiede due decenni; i politici e i dibattiti sull’immigrazione raramente tengono conto dei progressi fatti. Il problema vero è che stando alle stime della Gallup Poll, 700 milioni di persone al mondo dichiarano di voler emigrare da un’altra parte. Soprattutto in Africa, nel Sub-Sahara e in Asia ci sono cittadini che vivono in contesti di privazione economica e bassi livelli di istruzione e vorrebbero andarsene, ma sono proprio le persone che l’Occidente fa più fatica a integrare perché le loro capacità mal si adattano ai requisiti del mercato del lavoro nell’epoca digitale. Queste persone hanno pochi elementi che lasciano pensare a un’assimilazione di successo; nonostante i progressi fatti siamo ancora scoperti rispetti al futuro.
Il secondo problema è che ci troviamo ad affrontare anche la sfida delle reti globali contro-egemoniche, alcune delle quali sono benigne mentre altre no: qui ovviamente mi riferisco al terrorismo jihadista e alle aspirazioni islamiste estreme, che oggi dovrebbe preoccuparci molto di più di quanto non facciano gli sviluppi della Primavera Araba. Il problema è che quando si tratta di terrorismo, poche persone riescono a ottenere un impatto psicologico che invece è di proporzione devastante. Negli ultimi tempi mi sono dedicata all’argomento e sono rimasta impressionata dal numero di occidentali (con questo intendo persone con cittadinanza e residenza occidentale) entrati nelle file di Al-Qaeda dal 1998 in poi e dal numero di persone che potremmo considerare “sospette” a causa del loro sostegno all’organizzazione di Bin Laden. Bene, si tratta solo di 12,000-15,000 cittadini; sono riuscita a identificare 3000 persone– tutte riconducibili all’Occidente– che sono state arrestate, condannate e recluse e sono morte a causa dei legami con Al-Qaeda.
Da punto di vista della guerra americana al terrorismo globale ciò significa che si sono spesi 40 milioni di dollari per identificare, imprigionare o uccidere persone 3000 legate all’organizzazione nei paesi occidentali (non tengo conto dei non occidentali). Il rapporto è chiaramente sbilanciato. A Londra la scorsa settimana c’è stato un arresto di massa davanti all’Ambasciata Americana, dove 22 persone appartenenti a un’associazione proibita chiamata Muslims Against Crusades sono state recluse (trattasi di un’organizzazione jihadista). Dopo il divieto di associazione, si sono ricostituiti immediatamente sotto il nome di United Ummah e il governo inglese li sta attualmente accusando di illegale. Non sappiamo se il governo riuscirà nel suo intento, ma è da queste dinamiche che provengono i rischi principali per il progetto liberale e la democrazia: le frange più infinitesimali ci costringeranno ad adottare misure sproporzionate e tutte le conquiste ottenute in vent’anni per migliorare la coesione sociale rischiano di andare perse. Ci troviamo davanti a decisioni molto difficili da prendere in termini di costi-benefici, perché siamo sicuramente tutti d’accordo che non vale la pena restringere le nostre libertà democratiche per avere più sicurezza. Ma la domanda è: qual è il prezzo da pagare? Di quanto dovremmo ridurre le nostre libertà attuali, libertà che hanno determinato una società aperta e questa forma globalizzazione e di cui tutti abbiamo tratto enormi vantaggi?
(Traduzione di Claudia Durastanti)