“Cambiare il Pd per cambiare il paese” è lo slogan che riassume il compito, in verità assai arduo, che si è dato Matteo Renzi. Un compito unico e doppio al tempo stesso, che spiega la ragione della sua scelta di candidarsi alla segreteria del partito e, per questa via, alla guida del governo del paese. Perché non si può pensare di governare, tanto meno di governare da riformisti, cioè governare per cambiare, senza avere alle proprie spalle un partito grande e forte, strutturato e radicato nella società. E viceversa, non si può pensare di portare il Partito democratico alla vittoria e al governo, senza cambiarlo in profondità: nella sua forma organizzativa, nella sua cultura politica, nella sue proposte programmatiche, nella stessa composizione sociale del suo elettorato.
Così com’è oggi, ha detto qualche giorno fa Matteo Renzi, l’Italia non crescerà più. Si potrebbe aggiungere, specularmente: così com’è oggi, il Pd non vincerà più, tanto meno potrà governare e cambiare il paese.
Dunque la questione del partito non è “altra” rispetto al governo, e viceversa. E questa è già una bella discriminante nel dibattito interno al Pd. Perché quanti si oppongono a Renzi, a cominciare da Cuperlo (e D’Alema), la pensano in modo uguale e contrario: pensano che si possa, e anzi si debba, tenere separata la questione del partito da quella del paese. Non è una differenza da poco. È una differenza fondamentale, nel senso letterale del termine: è una differenza che ha a che fare con i fondamenti, con l’idea di sistema politico (e di modello di democrazia), che si vuole proporre e promuovere: se un’idea competitiva, bipolare, maggioritaria, o invece un’idea pattizia, multipolare, proporzionalista. Su questa differenza, in definitiva, il centrosinistra si scontra al suo interno da anni. Ed è su questa differenza che sono stati chiamati a pronunciarsi gli iscritti e saranno chiamati a farlo, l’8 dicembre prossimo, gli elettori del Pd.
La visione di Cuperlo, sconfitta tra gli iscritti, stando ai pronostici (dei quali però è bene diffidare), dovrebbe a maggior ragione perdere la corsa delle primarie, dunque la competizione nell’elettorato. Ma sarebbe un errore sottovalutare la sua capacità di “resilienza”, che potrebbe diventare formidabile, qualora dall’attuale, pericolosissimo stallo sulla riforma elettorale e costituzionale, si dovesse uscire con una proposta di segno neo-proporzionale, quale quella che scaturirebbe da una sentenza della Corte costituzionale che cassasse il premio di maggioranza. Forti sono del resto i consensi di cui gode, nel vasto “establishment” del paese (intendendo con questa espressione sia il ceto politico-sindacale che quello burocratico, come pure quella parte del capitalismo industriale e finanziario che vive in simbiosi con la spesa pubblica), l’ipotesi di fare delle “larghe intese” non una formula eccezionale e transitoria, ma la modalità ordinaria, l’unica realisticamente possibile, di governo del paese.
La strategia difensiva di quel formidabile blocco di interessi che è alla base del conservatorismo politico-istituzionale ed economico-sociale italiano (non sto parlando di un “partito”, se con questo termine si intende l’organizzazione di una intenzionalità esplicita, ma di un insieme di forze inerziali diffuse e ramificate, nella società italiana più che in ogni altra in Europa) punta a trasformare Renzi in un piccolo Napoleone in Russia: la sua avanzata trionfale verrà arrestata e rovesciata, non da uno scontro in campo aperto, ma dal logoramento prodotto dal “generale inverno”.
La possibile, e perfino probabile, vittoria di Renzi potrebbe dunque rivelarsi effimera, data la forza del fronte che le si oppone, se non dovesse riuscire a tradursi, in tempi rapidi, in una strategia unitaria di cambiamento del partito e del paese. Se vuole sconfiggere i tanti Kutuzov che scommettono sul suo fallimento, Renzi deve lanciare al paese, in queste settimane decisive per la mobilitazione alle primarie dell’8 dicembre, tre messaggi chiari, di forte innovazione.
Il primo, il più importante: dobbiamo fare della spesa pubblica, che ha raggiunto il livello scandinavo del 50 per cento del Pil, un volano anziché un freno allo sviluppo. Possiamo farlo solo attraverso un nuovo patto tra i produttori da una parte (operai, artigiani, commercianti, imprenditori) e i lavoratori pubblici. Un patto per la produttività della spesa pubblica: ai produttori un costo più basso della funzione pubblica, quindi meno tasse, ma pagate davvero da tutti, in cambio di servizi migliori, di livello europeo; ai dipendenti pubblici, una prospettiva di crescita professionale e anche salariale, in cambio della disponibilità a muoversi, a cambiare, a innovare, a farsi valutare.
Secondo messaggio: la politica comincia da se stessa, abbattendo il suo costo e innalzando la sua resa in termini di qualità democratica. Via il Senato e le province, quindi dimezzamento dei parlamentari e degli amministratori, accorpamento dei comuni, snellimento delle regioni. Al contempo, elezione diretta del vertice dello Stato (semi-presidenzialismo, comunicativamente e sostanzialmente molto più forte, perché l’inquilino del Quirinale è oggi di fatto il vertice politico e come tale è avvertito dai cittadini), o in subordine un’elezione di fatto del premier, corredata da un rafforzamento dei suoi poteri. Perché abbiamo bisogno di una democrazia capace di decidere, dunque di riformare, se vogliamo uscire dall’alternativa letale tra conservatorismo e populismo.
Terzo messaggio: un’Italia che ha imboccato con decisione la via della sua autoriforma, è in grado anche di imprimere una svolta all’Unione. Non si tratta di pietire deroghe, peraltro impossibili, ad esempio al patto di stabilità, ma di aprire una strada nuova, utilizzando fino in fondo la leva dell’euro, come strumento non solo di stabilità monetaria (un bene di valore inestimabile che la moneta unica ha garantito e garantisce egregiamente), ma anche di crescita, di attrazione di investimenti attorno a progetti di grandi infrastrutture, materiali e immateriali, in grado di fare davvero dell’Europa un’area competitiva con l’America, l’Asia, un domani la stessa Africa.
Si chiama “capacità fiscale” dell’Eurozona, con tanto di emissione di Project-Bond, non per mettere in comune i debiti storici (hanno ragione i tedeschi: ognuno si paghi i suoi), ma per finanziare investimenti produttivi. Ne hanno parlato (e scritto nel comunicato finale dell’incontro, molto importante, assolutamente sottostimato) Letta e Hollande. Può diventare il vero nocciolo duro dell’Unione europea. Un messaggio all’attacco, per il futuro dell’Europa, non ripiegato in difesa, sotto i colpi dei populismi.
La leadership di Renzi deve presentarsi con una piattaforma del genere, esplicita e perfino polemica nella sua chiarezza, per selezionare attorno ad essa consensi larghi nel paese. Dirò di più: per farne la leva di un riallineamento della struttura dell’elettorato italiano. Non fa niente se perderemo un po’ di voti a sinistra (anche se non credo proprio che avverrà, come dimostrò Veltroni nel 2008), l’importante è rimescolare, per cambiare in modo strutturale i rapporti di forza nel paese. L’essenziale è che Renzi riesca a reclutare le forze vive del paese, quelle che possono mobilitarsi per il cambiamento, nella triplice dimensione proposta.
Per questo diventa decisivo cambiare il partito. Perché “ingegnerizzando” lo splendido modello, oggi ancora allo stadio “concept” del partito aperto, a vocazione maggioritaria e capace di esprimere una leadership per il paese, bisogna riuscire a fare del Pd, non solo la casa accogliente, ma lo strumento di lavoro di una nuova classe dirigente diffusa: riformista, democratica.
“È stato presidente della Federazione Universitaria Cattolica Italiana dal 1979 al 1983 e membro della Presidenza e del Consiglio nazionale dell’Azione cattolica fino al 1989. ” Penso possa bastare per capire poi cosa è successo al PD. Che non era proprio la DC. Ma un difficile equilibrio, o un ircocervo, tra ex DC e ex PCI ( Berlingueriano). Ma Tonini non “sembra” essersene accorto.