Se l’esistenza della mafia è stata negata a lungo, la seconda guerra di mafia – ovvero l’ascesa dei Corleonesi a capo di Cosa nostra – e lo scatenarsi della violenza mafiosa contro rappresentanti delle forze dell’ordine e della magistratura – che avviene in modo contemporaneo – hanno reso nota l’antimafia, guidata da alcuni poliziotti e magistrati coraggiosi che, con il loro lavoro, hanno imposto l’argomento nel dibattito pubblico.
A metà degli anni ’80, grazie al successo del maxiprocesso, Giovanni Falcone diventa, nell’immaginario collettivo, il simbolo che ha posto fine ad oltre un secolo d’impunità della mafia. Dopo l’attentato di Capaci, viene addirittura sublimato dalla morte violenta e spettacolare. Se consideriamo la memoria in quanto costruzione sociale attiva, occorre capire quale ruolo svolgano certi imprenditori di memoria come gli uomini politici, i giornalisti, i cittadini o gli attori del movimento antimafia.
Siccome la memoria collettiva è la somma delle memorie individuali e istituzionali ed è condizionata dalle rappresentazioni, è necessario studiare diverse fonti per far emergere le fasi della costruzione memoriale della figura di Falcone. La mancanza di fonti scientifiche implica un lavoro di decostruzione delle rappresentazioni a partire dallo studio dei vari vettori della costruzione memoriale (discorsi politici, articoli di stampa, fiction e opere memoriali nonché pratiche commemorative). La nostra analisi fa emergere varie fasi che possono sembrare contraddittorie: la memoria di Giovanni Falcone sembra costruirsi in una tensione paradossale tra eroicizzazione, umanizzazione e sacralizzazione.
Dopo la strage di Capaci, nella stampa Falcone viene eroicizzato e descritto come un simbolo federatore che evoca non solo l’impegno incondizionato nella lotta alla mafia ma soprattutto un’immagine positiva dello Stato: una specie di Stato ideale.
Diventa così un referente morale, nel momento in cui mancano figure esemplari a livello nazionale poiché il crollo del sistema politico fa scomparire i punti di riferimento che hanno strutturato la società per mezzo secolo. Ma le opere e le fiction memoriali provano a sfumare quest’immagine di eroe, umanizzandola, per veicolare quella di un uomo normale, che diventa così un esempio da imitare.
Con questo tentativo di umanizzazione, viene attenuata la figura dell’eroe creata subito dopo la morte. Grazie all’emergere della sfera privata, abbiamo una figura a scala umana ma anche l’immagine di un uomo tradito dallo Stato per il quale ha sacrificato la vita. Però la figura di Falcone recupera una dimensione eroica appunto perché è riuscito a resistere, continuando a fare il proprio lavoro con determinazione. L’idea di una morte ineluttabile aggiunge una dimensione tragica che ricorda il destino degli eroi dell’Antichità. Nonostante il desiderio di umanizzarlo, queste opere danno vita ad una lettura agiografica, facendo di Falcone una figura eccezionale, un martire della lotta alla mafia già sacralizzato attraverso un vero culto memoriale attorno all’albero Falcone, diventato – per usare la terminologia inaugurata da Umberto Santino – un vero «altare laico».
La memoria di Giovanni Falcone si costruisce dunque in due fasi. Innanzitutto le caratteristiche che emergono dalla stampa e da certi discorsi politici eroicizzano il magistrato. Però, poi quest’immagine di eroe eccezionale viene umanizzata per rendere Falcone accessibile e favorire l’immedesimazione dei cittadini con lui.
Eppure, il culto civile che si è creato attorno a lui, fin dall’inizio, lo colloca in una dimensione sacra che tende ad estendersi per comprendere tutte le vittime di mafia, uccise per il loro impegno. Ma Falcone, per l’impatto nazionale del suo assassinio e per il ruolo svolto nella lotta alla mafia, rimane comunque una figura di spicco ed appare come un martire.
Se Brecht diceva «sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi», bisogna pur constatare che, per dare corpo al movimento antimafia, parte dei palermitani ha sentito il bisogno di crearne uno.