Il rapporto tra cibo e religione, tra nutrimento e valorizzazione di questo atto alimentare compiuto da parte delle religioni, è un tema complesso e che presenta non poche difficoltà di ordine metodologico. Conviene soffermarsi in particolare su due. La prima è legata al problema stesso della comparazione: che cosa comparare, nella selva infinita di queste valorizzazioni? Come comparare le diverse pratiche e ideologie alimentari che ogni tradizione è costretta ad elaborare? E soprattutto, a quale scopo, con quale fine, ponendo quali domande che permettano di selezionare in modo fruttuoso, all’interno di una sterminata massa documentaria, evidentemente incontrollabile da un singolo specialista, alcune questioni di fondo che consentano poi di ritornare a guardare in modo produttivo alle pratiche e alle condotte alimentari di specifiche tradizioni religiose? Per i nostri scopi basterà limitarsi ad osservare che un argomento come il nostro non può essere affrontato né in una prospettiva di tipo fenomenologico né diffusionista né di una comparazione areale o sociostrutturale. Quel che qui si propone è piuttosto una tipologia che individui alcune modalità ricorrenti di comportamento e di valorizzazione del rapporto tra religione e cibo. Forma transculturale di comportamento e di credenza, la religione, in quanto rapporto di un gruppo sociale con una dimensione che lo trascende, viene modellata dalle differenti culture con linguaggi diversi che presentano, però, alcune caratteristiche ricorrenti. La prima parte della relazione cercherà, dunque, di proporre una tipologia che metta in luce alcune, per così dire, note elementari tipiche di questo rapporto tra religione e cibo.
La seconda difficoltà riguarda la relazione tra cultura e religione. Chi scorra la bibliografia relativa al nostro tema è subito colpito dalla relativa assenza di studi storico-religiosi di tipo comparativo – diversa naturalmente è la situazione per quanto concerne l’ambito delle specifiche tradizioni religiose. Il compito di studiare in prospettiva comparata pratiche e abitudini alimentari è stato assolto per lo più dagli antropologi che, con studiosi come Claude Lévi-Strauss, Mary Douglas, Marvin Harris, Jack Goodiei [1] – per limitarmi ai nomi più noti e ai contributi più significativi – hanno recato in questo campo prospettive nuove e alimentato numerose piste di ricerche, aiutandoci a comprendere meglio il valore simbolico e culturale dell’atto fisiologico del nutrirsi.
Riletto in questa prospettiva, il nutrimento fa parte dell’insieme dei simboli che costituiscono il sistema culturale proprio di un gruppo. Ogni cultura stabilisce un codice di condotta alimentare che privilegia certi elementi, vietandone altri, distinguendo tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, tra ciò che è puro e ciò che è impuro. Regole e pratiche alimentari riguardanti il cibo costituiscono un linguaggio che esprime i valori che una cultura insegna riguardo la natura, le fonti dell’autorità sociale, gli scopi della vita. I codici alimentari servono, dunque, all’autodefinizione di un gruppo, contribuendo a stabilire il modo in cui un gruppo è percepito all’esterno; in questo senso, servono a definire i confini della sua etnicità e a costruire la sua identità.
L’insieme delle regole che compongono questo codice può essere determinato da fattori di ordine diverso (geografico, economico, igienico, nutritivo), ma anche religioso. La seconda sfida metodologica consiste nel cercare di mettere in luce il ruolo che la religione può rivestire nella formazione di questo codice simbolico e il modo in cui essa interagisce con le altre dimensioni che contribuiscono a costruire i codici alimentari simbolici di una cultura. Per rispondere a questa seconda sfida, nella seconda parte del mio intervento proporrò dunque una tipologia del rapporto tra religioni e cibo che tenga conto della dimensione specifica del fatto religioso.
Il rapporto tra religione e cibo
Secondo un’espressione diventata celebre di Ludwig Feuerbach, l’uomo è ciò che mangia. Come ricorda, però, il titolo completo di questo suo scritto del 1862, Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia, una recensione critica di un’opera del materialista Jacob Moleschott, a suo avviso l’alimentazione, la base che rende possibile il costituirsi e perfezionarsi della cultura umana (secondo Feuerbach, data l’unità inscindibile fra psiche e corpo, per pensare meglio dobbiamo alimentarci meglio) per millenni ha intrecciato i suoi destini con le pratiche delle più diverse religioni e in particolare con la più importante: il sacrificio, il pasto con gli dèi e degli dèi. Feuerbach aveva, da questo punto, di vista ragione: le religioni non soltanto hanno valorizzato culturalmente l’alimentazione ma l’hanno sacralizzata nei modi più diversi, regolamentando l’uso del cibo attraverso diete e tabù alimentari, variegati quanto l’umanità stessa, normando ciò che i loro membri possono o non possono mangiare e specificando, spesso in modo minuzioso, le circostanze nelle quali certi tipi di cibo possono essere consumati o possono essere usati nei rituali religiosi come nella vita di ogni giorno.
Ma che cosa significa esattamente questo processo di sacralizzazione? Dal punto di vista antropologico e di storia sociale, il sacro è un valore culturale cui le differenti società fanno ricorso per organizzare meglio i rapporti sociali. Il sacro, in altri termini, è un valore identitario: alla lettera, è ciò che separa dal profano. Per questo, gli stessi cibi, come il riso, il grano, l’olio, non valgono in sé, ma assumono valori diversi a seconda dei contesti: possono significare morte o rinascita, dare nutrimento agli dèi o canalizzare il loro potere sui fedeli. In certi casi, un particolare elemento può anche assurgere a simbolo dell’identità di un popolo. I miti degli Hopi, ad esempio, una popolazione indigena degli Stati Uniti d’America, raccontano che il primo atto da essi compiuto quando vennero al mondo fu di scegliere la spiga di grano che esprime la durezza, ma anche la continuità della loro vita. Poiché lo scopo dei rituali che queste popolazioni praticavano era di dare continuità a un ciclo vitale in cui si riteneva che antenati chiamati katsinas discendessero dalle montagne per garantire le raccolte di grano, talvolta essi affermavano di essere “grano”: a tal punto si poteva spingere l’identificazione con l’alimento ritenuto la base del loro ciclo vitale [2]. Queste identificazioni tra un popolo e un cibo non appartengono soltanto ai popoli indigeni del Nord America. Ogni anno in Giappone l’imperatore – ritenuto l’incarnazione vivente del dio del riso maturo – è fotografato ad uso dei vari media nel momento in cui compie l’atto simbolico di piantare del riso. Quando nel 1993 un cattivo raccolto ed altri motivi economici costrinsero il governo ad abbassare le barriere doganali che proteggevano la produzione locale di riso dalla concorrenza straniera, si assistette a una vera levata di scudi che aveva una causa spirituale, oltre che puramente economica: e ancor oggi il riso importato è da molti considerato inferiore ed impuro [3].
In genere, questo processo di sacralizzazione del cibo svolge due funzioni: favorire la comunicazione tra gli uomini e i rispettivi dèi, per esempio sotto la forma del pasto sacro caro agli antichi; e favorire la comunicazione tra gli stessi uomini, per rafforzare e cementare l’identità della comunità religiosa di appartenenza. Secondo l’antropologo Emiko Ohnuki – Tierney, il nutrimento funziona come una metafora del Sé, che necessita di due dimensioni interagenti. Il cibo è incorporato mediante il suo consumo. In questo modo si opera una metonimia: il cibo diventa parte di sé. Il cibo è poi consumato da individui che fanno parte di una comunità o di un gruppo sociale in cui l’atto del mangiare si riferisce a un codice di prescrizioni e regole condivise. In questo modo, l’atto del mangiare contribuisce simbolicamente alla formazione dell’identità del gruppo: una spiegazione che si iscrive in una corrente interpretativa che si potrebbe far risalire a Durkheim e, prima ancora, al celebre pasto totemico analizzato da W. Robertson Smith in un suo noto libro sulla religione dei semiti.
A questi percorsi sociali si aggiungono poi le valorizzazioni che singoli individui, alla ricerca della perfezione, dai mistici agli asceti, possono compiere nei confronti del nutrimento sia sotto forma di rinuncia a particolari cibi o in genere al cibo per determinati periodi (digiuni e astinenze, un fenomeno sul quale ritornerò) sia sotto forma di valorizzazione simbolica di cibi particolari. In questo modo, l’analisi dei differenti criteri con cui una tradizione religiosa si accosta al cibo e ne regolamenta l’uso diviene una via importante per conoscerla meglio.
Ho ricordato alcune note elementari che orchestrano il rapporto tra cibo sacro e religioni. Esse possono essere ricondotte fondamentalmente a quattro grandi temi: la sacralità del cibo, con i tabù alimentari che ne conseguono; il modo in cui i sistemi simbolici delle differenti tradizioni religiose (miti e teologie) si rappresentano l’uso del cibo sacro come forma di mediazione col divino; il ruolo del cibo nelle pratiche e nei rituali; infine, il nutrimento come via di perfezione e di salvezza attraverso forme regolative (digiuni, astinenze, vegetarianismo).
È inutile aggiungere che queste note elementari hanno dato luogo, nella storia millenaria delle religioni, a una serie impressionante di variazioni di cui naturalmente è impossibile dar conto nel tempo a disposizione. Ho dunque deciso di concentrarmi in questa prima parte su due aspetti: le pratiche alimentari e il cibo come via di perfezione, oggi al centro dell’attenzione della nostra società per vari motivi. La globalizzazione, infatti, con i processi migratori e con la rottura di confini tradizionali, sta cambiando profondamente sia il modo tradizionale in cui le religioni si rapportano al cibo sia il modo in cui la società secolare e capitalista cerca di affrontare questo aspetto problematico del pluralismo religioso. Poiché, d’altro canto, per quanto riguarda le grandi religioni, il ciclo prevede una serie di seminari ad esse dedicate, mi limiterò ad alcune considerazioni generali utili in prospettiva comparata.
I tabù alimentari
I tabù alimentari sono presenti preso la maggior parte delle popolazioni, a cominciare dai popoli indigeni. Essi possono essere di durata limitata o durare tutta la vita, essere limitati a certi cibi o implicare un digiuno radicale. Importanti occasioni per attivare i divieti temporanei possono essere situazioni particolari come le feste, i riti di iniziazione, quelli di sepoltura, altre situazioni liminali come la gravidanza. In genere, nelle religioni indigene i divieti non sono duraturi, come avviene invece nelle religioni monoteistiche in conseguenza di comandamenti di origine divina che non sono sottomessi per la loro natura alla contingenza del tempo. Inoltre, presso i gruppi etnici possono dipendere dal rapporto col proprio totem, che funge da discriminante per distinguere il cibo permesso da quello vietato, in genere coincidente con l’animale del proprio totem, dal momento che cibarsene sarebbe considerato un atto di cannibalismo: un primo esempio del ruolo sociale e definitorio, approfondito da Mary Douglas, delle categorie di puro e impuro. D’altro canto, l’assenza presso questo tipo di religioni etniche, di una legge sacra capace di normare in modo cogente la vita di una popolazione impedisce di affermare che esistano tabù alimentari universalmente diffusi. Anche il cannibalismo, il candidato più evidente a questo ruolo, può in casi determinati essere permesso o incoraggiato, come avveniva ad esempio tra gli Hua della Nuova Guinea, per i quali in occasione della morte del genitore dello stesso sesso ai figli era concesso di nutrirsi del suo corpo allo scopo di riciclare la quantità limitata di forza vitale che alimentava il gruppo.
Per quanto concerne le religioni storiche di struttura politeistica, possiamo limitarci a qualche considerazione sul mondo greco dove centrale era il tema del pasto sacro come forma di comunicazione con gli dèi. La mensa si imbandiva per coloro con i quali si sentiva un vincolo sacro di amicizia, con cui si condividevano comuni ideali politici: non era lecito mangiare con i nemici e l’ospitalità era, al contempo, un diritto e un dovere. Il pasto costituiva, in origine, un atto religioso: conservavano questo carattere i banchetti rituali delle divinità, dei morti, delle cerimonie pubbliche, ma anche i banchetti privati cui assistevano, onnipresenti, gli dèi. Come è noto, una prima parte del banchetto era dedicata al pranzo, la seconda parte, il simposio, che avveniva dopo che i convitati avevano versato libagioni e cantato un inno, era dedicata al piacere del bere il vino. In tutto ciò, non vi erano specifiche proibizioni alimentari comuni, che invece troviamo in alcuni gruppi filosofico-religiosi. Forse il più celebre divieto è quello che avevano i pitagorici in relazione alle fave. Anche se recentemente un medico americano, studioso del mondo antico, ha ipotizzato che i pitagorici potessero avere già scoperto il favismo, probabilmente la motivazione più convincente è che i pitagorici fossero convinti che nelle fave albergassero le anime dei propri avi defunti.
Il caso greco rientra, dal punto di vista comparativo, in un tipo religioso più generale: quello delle religioni politeiste in cui esiste, certo, l’idea di legge, nomos, che però concerne, soprattutto nella riflessione filosofica, la legge divina che regola la vita della natura e non si occupa affatto di regolare le abitudini alimentari degli uomini. Queste ultime potrebbero essere affidate alle leggi sacre che costituiscono la base della vita delle poleis greche: ma in genere queste leggi non si occupano che di regolamentare il centro della vita religiosa, il sacrificio pubblico. Per trovare delle prescrizioni alimentari occorre, come insegna appunto il caso del pitagorismo, guardare a tradizioni religiose informali come l’orfismo e cioè a culti e pratiche marginali rispetto alla religione delle poleis e critiche nei confronti del sacrificio cruento, portate di conseguenza a favorire forme di vegetarianismo.
La situazione cambia con le religioni monoteistiche come l’ebraismo e l’islam, caratterizzate dalla presenza di una Legge divina rivelata e consegnata nelle scritture sacre, la Torah per gli ebrei e il Corano per i musulmani, che contengono norme e prescrizioni vincolanti che regolano i più diversi aspetti della vita dei fedeli, compresa naturalmente l’alimentazione. Rispettare queste norme è, per il fedele, un vincolo, perché esse traducono la volontà di Dio: si può dire, forzando un po’ le cose, che la libertà del singolo coincide con la messa in atto di queste prescrizioni.
Limitiamoci a qualche considerazione sull’ebraismo sia perché il cristianesimo si è costruito, a partire da Gesù e poi da Paolo, in opposizione e superamento delle norme alimentari contenute nella Torah – tema troppo noto per insistervi – sia perché l’islam in parte si inserisce in questa prospettiva.
A mia conoscenza, nessuna religione ha un sistema di norme e di divieti alimentari così sistematico e complesso come il giudaismo. Per un pio ebreo, le prescrizioni alimentari appartengono alla Legge sacra che Dio ha rivelato a Mosè sul Sinai, norme che, in seguito al formarsi del giudaismo rabbinico, si sono estese in un numero molto ampio di precetti, mitzvot. Il mondo dell’Eden era un mondo vegetariano, che non contemplava l’uccidere e il cibarsi della carne degli animali. Col patto tra Dio e Noè di Genesi 9, ciò fu possibile, ma con la proibizione di mangiare il sangue, sacro perché sede della vita. Col tempo, venne formandosi una normativa più complessa, presente in vari testi ma soprattutto nel Levitico, che contiene una serie famosa di divieti alimentari. Un altro divieto fondamentale discende da un passo dell’Esodo, che impone di non mescolare il latte e i suoi prodotti con la carne: «un piccolo non deve cuocere nel latte della madre» (Esodo 23,19). Altri divieti discendono dal vincolo della memoria, tipico dell’ebraismo: così, il pane deve essere azzimo, cioè non lievitato, in ricordo della fuga dall’Egitto, quando non ci fu il tempo di farlo lievitare. L’insieme di queste regole, denominato Kasherut, è estremamente complesso: basti pensare al modo di macellare la carne lecita: gli animali devono essere macellati secondo determinate regole che impongono il taglio completo di esofago e trachea per mezzo di un coltello affilatissimo in modo che sia versata, in breve tempo, la maggior parte possibile del sangue.
Come ogni legislazione di origine divina fissata in un testo scritto, anche quella ebraica è stata sottomessa al suo interno a esegesi e interpretazioni diverse, per esempio razionalistiche a proposito del divieto di mangiare il maiale (ragioni di carattere igienico), o legate ai diversi tipi di ebraismo che si sono formati; o, in epoca moderna, a interpretazioni psicoanalitiche o antropologiche. Ma tutto ciò non deve far dimenticare che, per un pio ebreo, esse vanno osservate perché sono di origine divina. Nel tempo, queste norme sono state adattate ai contesti più diversi e interpretate dai rabbini in modi più o meno rigidi. Oggi esse devono confrontarsi con le sfide poste dalla tecnologia: ad esempio, è legittimo l’uso del forno a microonde? come si fa a stabilire la purità di un alimento in cui sono presenti conservanti di ogni tipo? In sintesi, la kasherut è un vero e proprio sistema di vita, che ha contribuito fortemente, pur con tutti gli adattamenti del caso, a conservare nei secoli e nelle tante, spesso drammatiche vicende della diaspora, l’identità religiosa dell’ebraismo.
Che cosa succede invece nel caso di religioni non monoteistiche come l’induismo e il buddhismo? Limitandoci a qualche considerazione sul primo, si può dire che anche qui siamo in presenza di un vero e proprio sistema di pratiche e tabù alimentari, che riflette la storia complessa di questa tradizione religiosa, caratterizzata, com’è noto, dal sistema castale. Nell’induismo le prescrizioni alimentari dipendono dalla casta di appartenenza dell’individuo: i brahmani sono tradizionalmente vegetariani, perché non possono nutrirsi di ciò che ha avuto vita animale, essendo i cadaveri contaminanti. Sono dunque esclusi dalla loro dieta la carne, il pesce, le uova fecondate, aglio, cipolla, nonché le bevande inebrianti. Le caste più basse, invece, possono nutrirsi di carne di pollo, di capra e di montone, mentre i paria possono mangiare qualunque tipo di carne purché l’animale sia morto di vecchiaia o malattia, perché essi sono impuri, devono nutrirsi di cose contaminate e rimanere in basso nel posto loro assegnato nel sistema castale. In sintesi, i cibi si distinguono in tamasici, cioè adatti alle popolazioni assoggettate dagli Ariani; rajasici, per le persone che conducono attività produttive, commerciali e di difesa dello stato; sattvici, per i puri, i sacerdoti.
Questo principio fondamentale è stato continuamente reinterpretato, anche se determinate prescrizioni, come il rispetto assoluto per la vacca, si sono conservate fino ad oggi. Interessante è la lettura che ne hanno dato le tradizioni yogiche, una rilettura tipicamente energetica: mangiare correttamente è un modo di sintonizzarsi ma anche di appropriarsi delle energie nascoste del cosmo. In questa prospettiva, l’alimento non è considerato un semplice agglomerato di materia, ma è soprattutto un veicolo di ‘informazioni sottili’ che, entrando nel ‘sistema uomo’, lo modificano. Per questo, oltre alla scelta degli alimenti, è molto importante valutare anche chi li cucina e qual è il suo stato d’animo mentre compie questa azione. Per esempio, lo yogin che fa voto di castità, oltre ad evitare i cibi rajasici per non eccitare troppo i propri sensi e a nutrirsi in un ambiente calmo perché il suo animo non venga turbato dalle emozioni, deve evitare che i propri cibi (seppur sattvici) siano cucinati da una persona che sia dominata da una forte carica sessuale e da troppa negatività, perché le trasferirebbe inevitabilmente agli alimenti e questi a loro volta li cederebbero allo yogin.
Queste energie sono una manifestazione di quella vibrazione energetica particolare chiamata Prana, che viene recepita dagli esseri viventi e trasformata. In particolare, l’uomo la può assorbire dalla pelle, attraverso la respirazione e per mezzo dell’alimentazione. Nutrendoci, dunque, ‘estraiamo’ dal cibo il Prana in esso contenuto e lo introduciamo nel corpo per trasformarlo e trarne energia. In particolare, il Prana agisce a livello dei sakra che, a loro volta, presiedono a varie funzioni ed organi. Secondo gli yogin, è molto importante che durante i pasti si dedichi un tempo adeguato alla masticazione, poiché in questo modo l’energia sottile può essere correttamente assorbita. Poiché il Prana è particolarmente legato al gusto, o meglio, il gusto dell’alimento è un indicatore della presenza di Prana, per questo motivo il cibo deve essere masticato fino a quando diventa insipido.
Forme di astinenza alimentare
Quest’ultimo cenno, abbandonando il grande tema dei tabù e delle prescrizioni alimentari, può servirci da introduzione al secondo tema che ho scelto di trattare. Un grande sociologo, Norbert Elias, nella sua opera più importante, Il processo di civilizzazione, ha sottolineato il ruolo decisivo che “le buone maniere a tavola” hanno avuto nella formazione della moderna civiltà europea. Anche le grandi tradizioni religiose, seppur ovviamente per i loro peculiari scopi salvifici, dedicano un’attenzione particolare non solo a che cosa mangiare o non mangiare, ma anche a come nutrirsi.
L’islam, ad esempio, sottolinea la virtù della moderazione e in certe tradizioni, come il sufismo, fa del modo di comportarsi a tavola una tappa del cammino di perfezione. Un testo interessante al proposito è quello del sufi Yusuf Gada, che si basa su di un principio fondamentale: adab, la giusta attitudine interiore che consente un giusto comportamento anche all’esterno [4]. Si tratta di un principio di moderazione, di discernimento, fondamentale che, con le variazioni e gli adattamenti del caso, si ritrova anche in altre tradizioni religiose.
In queste regole comportamentali rientrano anche le pratiche di astinenza e di digiuno, che possono essere articolate, motivate e presentate in modi diversissimi, ma rispondono in genere a una tipica logica sacrificale, oltre che di preparazione ascetica. Si digiuna in tempi e modi ritualmente e normativamente determinati perché in questo modo il credente dimostra di saper rinunciare a uno dei beni maggiori che Dio o il dio gli ha donato. Si digiuna individualmente, ma anche collettivamente, come insegna il caso del Ramadan islamico.
Accanto a queste forme collettive di astinenza esiste poi, nelle più diverse tradizioni religiose, il digiuno come via di perfezione. Il cristianesimo è ricchissimo di esempi da questo punto di vista. Pur non essendo a rigore un asceta come il Battista, l’ebreo Gesù si prepara all’annuncio del Regno con un digiuno di 40 giorni nel deserto. Egli fornisce così un modello che sarà seguito dai Padri del deserto e da innumerevoli schiere di asceti. L’idea soggiacente non è soltanto quella della rinuncia come sacrificio, ma anche come esercizio ascetico, allenamento della propria volontà. Lo dice bene Paolo in un passo della I Corinzi: «Tutto mi è lecito. Ma non tutto mi giova. Tutto mi è lecito. Ma io non mi lascerò dominare da nulla» ( I Cor 6,12). Dietro vi è anche un’idea di ritorno a una condizione edenica: lo esprime bene in uno dei suoi sermoni verso la fine del IV sec. il vescovo Massimo di Torino: «Quello che il primo uomo perse mangiando, il secondo (Cristo) recuperò digiunando; e osservava nel deserto la legge dell’astinenza imposta nel paradiso».
Il cibo come via di perfezione
Ma anche Paolo, al pari di Gesù, non è stato, per quel che ne sappiamo, un asceta in senso stretto. L’importante non è rinunciare al cibo, ma controllare i propri istinti e soprattutto usare il cibo, che è un dono di Dio, per glorificarlo: «Anche il mangiare e il bere sono per la gloria di Dio» (I Cor 1, 31). Si tratta di un tema che ritorna anche in altre tradizioni religiose e risponde all’idea che, mangiando nel modo corretto i cibi giusti, si rispetta la volontà del Dio e si avanza verso la perfezione.
Questo ideale ha retto la vita delle comunità monastiche, cristiane come buddhiste. Ed è con qualche esempio relativo alle comunità monastiche che mi avvio alla conclusione. Il caso del cibo monastico è infatti utile, in prospettiva comparata, per mettere meglio a fuoco il modo in cui una tradizione religiosa può contribuire in modo determinante, e non solo in funzione delle regole generali della cultura di appartenenza, a creare un proprio sistema alimentare comandato da uno specifico simbolismo.
In ordine cronologico, un primo esempio interessante è offerto dalle comunità manichee. Queste comunità, che presentano dal punto di vista sociologico una serie di tratti in comune con le successive comunità pacomiane, erano rette da rigide regole alimentari ispirate dallo specifico dualismo manicheo. In questo caso, le regole di purità avevano una evidente ricaduta sociologica, dal momento che servivano a fondare la chiesa manichea, separando gli eletti dagli uditori. Dal momento che la complessa macchina mitologica manichea era guidata dal principio di favorire la separazione e la raccolta delle particelle di luce cadute prigioniere delle tenebre in seguito a una lotta primordiale, i pasti manichei e le regole alimentari che li regolavano rispondevano a questa fondamentale esigenza salvifica. Al centro della vita comunitaria, infatti, vi era il pasto comune degli Eletti, la ‘tavola’, che veniva consumato una volta al giorno ed era particolarmente sacro perché serviva per purificare le particelle di luce. Questo pasto era composto da piante particolari ricche di Luce, come meloni e cetrioli, pane di frumento, acqua o succhi di frutta. Gli Uditori preparavano la tavola secondo un preciso cerimoniale e per questa loro “elemosina” ricevevano la remissione dei peccati commessi per preparare e procurare il cibo. Consumando questi elementi, la parte di luce in essi contenuta, l’anima che secondo il mito manicheo era stata macellata, maltrattata, macellata, assassinata, veniva definitivamente liberata dalla mescolanza con le Tenebre, depurata, purificata e concentrata così nell’Eletto, che fungeva come un distillatore.
Anche il primo monachesimo cenobitico, quello pacomiano del deserto egiziano del IV secolo, ha visto nel controllo della produzione del cibo, in particolare il pane, e nel suo consumo regolato, non solo un modo concreto di applicare le regole e i precetti della vita cenobitica, ma anche uno dei modi di controllare più efficacemente i conflitti sempre all’angolo nella vita comune. Il luogo di produzione del pane, la cucina, diventa, paradossalmente, il luogo più sacro del monastero: un luogo dunque pericoloso, se non si rispettano le rigide regole che presidiano alla produzione e distribuzione del cibo. Non a caso, gli Apoftegmi dei Padri del deserto riportano molti episodi in merito alla pericolosità di questo luogo. Ai forni i fratelli si riuniscono – ed è sempre un rischio stare insieme – per cuocere il pane, risorsa vitale della comunità, ma ivi essi combattono anche la quotidiana battaglia contro la tentazione della gola, rinnovando la rinuncia al senso del possesso, esercitando la pazienza contro l’insorgere di inevitabili conflitti e, viceversa, mantenendo il necessario distacco – l’estraneità tipica di questo monachesimo – contro l’eccessiva confidenza reciproca.
La stessa forma di attenzione e lo stesso controllo e uso simbolico delle fasi principali del processo nutritivo (produzione, distribuzione, consumo) è possibile ritrovarla in tradizioni monastiche buddistiche giapponesi tendai e soto, alcune delle quali presenti anche in monasteri zen italiani. In questo tipo di monachesimo esiste una figura importante, il tenzo, che si occupa della preparazione dei cibi per i monaci. Questa figura, che non è a rigore un cuoco ma un maestro pieno di discernimento, deve aiutare, attraverso la preparazione del cibo, a cercare la Via e cioè il cammino di perfezione. Per questo deve servire con cura cibi diversi appropriati a ogni occasione, permettendo a ciascun monaco di praticare la sua via senza impedimenti. A questo scopo, egli deve – come da noi i grandi cuochi – cominciare dal giorno prima, procurando ogni giorno i cibi adatti (riso, vegetali, altri cibi). Li deve poi preparare trattandoli come la pupilla dei propri occhi, come se li dovesse portare all’imperatore. Mentre un tempo si occupava da solo di tutte le fasi, oggi esistono anche figure di assistenti, che lo aiutano in questo compito che è alimentare ma anche o soprattutto spirituale. La stessa affettuosa dedizione va dimostrata anche da chi riceve il pasto. Non bisogna dare troppa importanza né agli ingredienti né alla bravura del cuoco. L’importante è provare gratitudine verso tutti i legami impliciti in un pasto. Il Verso delle cinque contemplazioni (Gokannoge), recitato prima di consumare un pasto, afferma:
«Riflettiamo sugli sforzi grazie ai quali questo cibo è giunto a noi e sulla sua origine. Se pensiamo a chi ha coltivato gli ortaggi, a chi li ha raccolti e distribuiti sul mercato e al tenzo che li ha cucinati con grande dedizione, anche un semplice piatto di verdure bollite offrirà appieno il sapore del Dharma che non conosce limiti.»
Cibo, religione e giustizia sociale
Vorrei concludere toccando un tema che ci riporta all’oggi e che mi sembra di grande attualità: il rapporto tra cibo, religione e giustizia sociale. Vi sono infatti comunità religiose che hanno fatto della mensa un possibile luogo di giustizia sociale, certo temporanea – la durata di un pasto – ma che, per le sue forti implicazioni simboliche, finisce per orientare anche le condotte normali dei fedeli. Mi limiterò ad un esempio, che riguarda una tipica religione di immigrati, oggi sempre più presente anche in Italia: i Sikh.
In seguito a una storia complessa, nel corso del Novecento i Sikh, che sono una ventina di milioni e vivono soprattutto nel Punjab, nel nord dell’India, hanno conosciuto una notevole emigrazione. Oggi sono presenti anche in Italia, in un numero oscillante tra 30 e 60.000, soprattutto nel centro nord, con una quarantina di templi, i Gurdwara. Le due caratteristiche di un Gurdwara sono la congregazione ‘Sangat’ e il ‘Langar’ o cucina della comunità, fatta secondo i dettami alimentari tradizionali di un certo induismo: ai sikh, infatti, è proibito ogni tipo di dipendenza da sostanze come alcol, tabacco e altro; inoltre essi non possono mangiare qualsiasi tipo di carne, pesce e uova. Questa cucina comunitaria è creata per dare cibo a tutti i credenti, ai pellegrini ma anche ai visitatori. È un simbolo di uguaglianza e fraternità. Essa è luogo in cui persone di estrazione alta e bassa, ricchi e poveri, istruiti e ignoranti, si dividono lo stesso cibo, sedendo insieme in un’unica fila. Questa cucina viene sovvenzionata con i contributi di tutti i Sikh.
L’ideale sikh di una mensa comune che affratelli i credenti, ma anche credenti e non credenti, è un nobile ideale che, ricordandoci un tema più prosaico in cui oggi le religioni dimostrano l’importanza della loro presenza pubblica, quello delle mense scolastiche e della necessità di tener conto delle prescrizioni alimentari di bambini appartenenti a tradizioni religiose differenti, ci aiuta a capire il contributo che le religioni possono portare ad una società, come la nostra, in profonda trasformazione, così divisa frammentata conflittuale, preda di pericolose derive di ogni tipo. Una prospettiva utopica, certo, quella della mensa sacra come luogo di possibile superamento delle divisioni: ma pur sempre un luogo della mente e del corpo cui tendere nella speranza che il confronto e il dialogo tra le diverse religioni e le loro tradizioni, anche quelle legate al nutrimento, possano costituire motivo di speranza e non di conflitto.
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Note
[1] C. Lévi-Strauss, L’origine des manières de table, Paris 1968; M. Douglas, Antropologia e simbolismo. Religione, cibo e denaro nella vita sociale, Il Mulino, Bologna 1985; J. Goody, Cooking, Cuisine, and Class. A Study in Comparative Sociology, 1982; M. Harris, Good to Eat: Riddles of Food and Culture, London, Allen&Unwin, 1986 (tr. it., Buono da mangiare, Einaudi, Torino 1990).
[2] Cfr. James E. Latham – Peter Gardella, art. Food, in «Encyclopedia of Religions», vol. 5, pp. 3167-3174.
[3] E. Ohnuki-Tierney, Rice as Self. Japanese Identities through time, Princeton University Press, Princeton, New Jersey 2003.
[4] «Quando mangi cibo, mangialo una volta al giorno e una volta alla notte, quello sarà nutrimento sufficiente, qualcosa di più causa malattia e mal di testa. Quando sei affamato e mangi, sappi che il cibo non ha effetti negativi; se tu mangi quando sei sazio, quel cibo mangia il tuo cuore e fegato. Mangia il cibo nel tuo posto, non stendere la tua mano di fronte agli altri; prendi un boccone piccolo e umido, masticalo bene. Quando vuoi mangiare, prima lava le tue mani, quando hai mangiato, lavale, perché questo viene dalla tradizione del Profeta. Mangia il cibo con riverenza, pronunzia il nome di Dio sopra ogni boccone. Non mangiare scomposto sul letto o con un cuscino dietro di te. Se cade una briciola di pane sul pavimento, prendilo pezzetto per pezzetto. Metti sale all’inizio e alla fine; tieni i tuoi occhi sul boccone. Non criticare il cibo di qualcuno; mangia ciò che ti viene offerto; non dire che è amaro o insipido o cose del genere. Se desideri diventare ricco e trovare salute senza fine pulisci i tuoi denti quando hai mangiato cibo, figlio mio».
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Cibo e religione: diritto e diritti, a cura di Antonio G. Chizzoniti e Mariachiara Tallacchini, Università Cattolica del sacro Cuore – Sede di Piacenza – Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche, Quaderno 1, 2010, Libellula Edizioni, Trecase (Lecce)
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Una buona alimentazione prelude ad un buon stato di salute, sia in termini di elaborazione concettuale che di efficienza fisica.
Molto interessante.
Jenny Barbieri
Consigliere Associazione Nestore