Ha ancora senso parlare di “maschilismo”, quel soggetto irritante, ma capitale, per usare le parole di Simone de Beauvoir, su cui si fonda l’ordine del mondo nei suoi rapporti simbolici di potere?
La risposta è sì, secondo Chiara Volpato, che nel volume Psicosociologia del maschilismo (Laterza 2013) capovolge il paradigma con cui tradizionalmente si affrontano gli studi di genere, quello relativo alla questione femminile, per affrontare invece una mistica della mascolinità, o meglio, delle mascolinità varie, che si sviluppano sul mutamento dei tradizionali ruoli di genere e che, tuttavia, consentono ancora all’ordine sociale di funzionare come una enorme macchina simbolica tendente a ratificare il dominio maschile su cui esso si fonda.
Il punto di partenza è evidentemente quel “paradosso della doxa” illustrato da Bourdieu, che consente alla visione androcentrica di imporsi in quanto neutra (“naturale”), senza “bisogno di enunciarsi in discorsi miranti a legittimarla” (e dopotutto, vien da pensare, non è su tale idea di ordine naturale che si fonda ogni forma di egemonia culturale nella storia?).
Mistica delle mascolinità, si diceva. Perché il monolitismo dell’immagine virile, come nota l’autrice, si è incrinato ed è stato affiancato da nuove rappresentazioni di derivazione mediale. In questo modo, a quel Great man iper-mascolino che trova il proprio pilastro ideologico nella contraddittorietà di una tradizione politica che combina individualismo liberale e patriarcalismo, si affiancano nuovi modelli mascolini.
Si parte così dal metrosexual, Narciso dei tempi moderni, giovane, single, con un’elevata propensione al consumo, (e che trova la propria versione più raffinata nell’Ubersexual), per giungere al più volgare Laddist, che respinge le responsabilità tradizionali indulgendo in interessi stereotipici (gli piacciono i videogiochi, le auto, e il calcio) e che è profondamente sessista nei rapporti di genere.
Modelli di tendenza, gettonati target pubblicitari ed editoriali, che però sembrano avere un ruolo marginale rispetto al modello di mascolinità egemone, che è tradizionalmente associato a modelli di potere. Non a caso, prosegue Volpato, “la definizione egemonica di mascolinità è un uomo nel potere, con il potere, di potere”.
Per questo l’autrice si spinge più in profondità, fino all’analisi dei meccanismi psicologici e sociali di costruzione delle identità di genere e degli stereotipi con cui, tradizionalmente, a determinate categorie sociali (in questo caso uomini e donne) vengono associati specifici attributi. Emerge così un vero e proprio fardello della mascolinità, fondato su una serie di indicazioni di virilità, alla cui formazione e trasmissione contribuiscono in maniera determinante i prodotti della cultura popolare.
Dall’assunzione della “normalità” sessuale, basata su prescrizioni di eterosessualità e omofobia, all’adozione di uno standard sessuale differenziato in base al genere, fino alla marginalizzazione delle mascolinità devianti.
Ma attenzione, viene da aggiungere. Perché questo modello di egemonia maschile, su cui si costruiscono forme di sessismo dichiaratamente ostile, non è altro che la forma più manifesta, (e paradossalmente più facile da individuare e combattere), di discriminazione con cui le donne devono fare i conti.
È quel sessismo (a voler cercare degli esempi concreti) che si palesa quotidianamente in espressioni ingiuriose nei confronti di donne che osano tentare l’ascesa in campi tradizionalmente maschili: è da questo modello, per intenderci, che partono gli insulti quotidiani nei confronti delle politiche Boldrini e Kyenge, è su questo sessismo che si fonda il celodurismo della Lega Nord o gli epiteti di Grillo a Laura Boldrini (“Sei un oggetto di arredamento del potere”). È il sessismo da bar dello sport del “Lei è più bella che intelligente” rivolto a Rosy Bindi e del “Quante volte viene signorina?” di berlusconiana memoria (E in fondo la signorina ha riso, hanno obiettato i compagni di boutade, si sono offese solo le bigotte femministe).
C’è però un altro sessismo, più insidioso e di più ardua definizione: è quel sessismo moderno, o neosessismo, che ampio spazio sembra avere nell’opinione pubblica del nostro Paese. Il neosessismo, continua Volpato, “si esprime nella credenza che la parità tra uomo e donna sia stata ormai raggiunta e che quindi le misure di contrasto alla discriminazione siano inopportune, anzi rischino di introdurre un pregiudizio contro gli uomini”.
In tale ottica, tutte le azioni positive per il riequilibrio della diseguaglianza di genere sono deprecabili e la stessa disparità viene considerata un residuo del passato, destinato a estinguersi in breve tempo.
Il sessismo moderno fa in realtà perno sull’antico pregiudizio paternalistico, in base a cui le donne sono considerate, tradizionalmente, individui sensibili ma meno competenti; nei loro confronti si attivano meccanismi di vicinanza, che combinano dominio e affetto, mantenendo inalterata la distanza di ruolo.
In questo frangente non si può non riconoscere come una diretta responsabilità sia da attribuire alle donne, che contribuiscono alla costruzione e alla legittimazione di una segregazione di genere fondata su questo essenzialismo biologico.
Continua infatti l’autrice: “dati sperimentali mostrano che l’esposizione al sessismo benevolo aumenta nelle donne l’adesione all’idea che le società sia nel complesso giusta, giustificando le disparità sociali”. È in questo modo, che si attivano, da parte delle stesse donne, quei processi di autostereotipizzazione e di manifestazione di quelle “disposizioni sottomesse” (Bourdieu, ancora una volta), che consistono nell’interiorizzazione di modelli mentali e comportamentali funzionali al potere maschile (e qui ci ritorna in mente la famosa signorina che ride al “Lei quante volte viene?” di cui sopra).
È a questo che si riferiva Betty Friedan nel lontano 1963 quando, nella Mistica della femminilità, parlava del “comodo campo di concentramento” che rinchiude tante donne nell’adesione a modelli, restrizioni e privilegi che incanalano l’esistenza femminile entro pareti sicure e asfittiche.
Ci si potrebbe interrogare, per collegare la teoria del libro sulle vicende più attuali, su quanto queste forme di sessismo benevolo influenzino gli stessi media nelle strategie di framing delle questioni di genere. Non è un caso che, negli ultimi mesi, la tematizzazione di genere abbia riguardato, in maniera quasi esclusiva, il tema del femminicidio e della tutela delle donne contro la violenza.
Il rischio intrinseco, nel promuovere un’immagine femminile limitata a quella di un essere da proteggere e aiutare, risiede nell’interiorizzazione di un’idea di sé debole, che trasmette dubbi su competenze e capacità e porta il più delle volte a realizzare performance inferiori alle possibilità. Siamo, per tornare ancora una volta al contemporaneo, al modello “famiglia del Mulino Bianco”, la cui denuncia ha valso a Laura Boldrini un rigurgito di insulti maschilisti nelle scorse settimane; ma la questione riguarda anche l’utilizzo della donna token, il feticcio illusorio di una parità sociale, che tanto piace a certa politica e a certo giornalismo italiano (basti guardare la composizione della platea degli ospiti dei più comuni talk show, o i criteri di selezione dei candidati nelle tornate elettorali più esposte mediaticamente).
Il sessismo benevolo, mette in guardia Volpato, “induce infatti l’idea che il sistema nel quale si è inseriti sia legittimo, mentre la percezione dell’ineguaglianza sociale esercita un effetto negativo sul benessere delle persone”.
In altre parole, la riduzione delle tematiche di genere alla questione della protezione dalla violenza fisica finisce per legittimare una concezione asimmetrica dei rapporti di potere, in base a cui una donna e un uomo differiscono “biologicamente” in capacità e competenze.
È su questo che si basano i processi di segregazione di genere nel mondo del lavoro. Ed è lo stesso meccanismo che, da anni, relega le politiche donne a occuparsi prevalentemente di materie tradizionalmente femminili, legate alle attività di cura e assistenza, costringendole ai margini della horse race per le posizioni di leadership.
Per questo il sessismo benevolo descritto da Volpato è altrettanto pericoloso di quello manifestamente ostile che fa dell’oggettivazione, per usare la definizione di Nussbaum, il proprio parametro di relazione con l’universo femminile. Un Paese di utilizzatori finali, in altre parole, si fonda su decenni di normalizzazione delle questioni femministe (e a tal proposito, persino l’aggettivo femminista in Italia è diventato un insulto!) e di volontaria adesione a dinamiche di potere intrinsecamente mascoline. La sfida ancora aperta, per usare le parole di Volpato, è quella, più complessa, a “un’egemonia culturale che produce e rafforza la disparità di genere nascondendola sotto il mantra della libera scelta.”