Giulio Giorello e Corrado Ocone discutono del filosofo napoletano e della sua idea di scienza. È vero che Croce riteneva la conoscenza scientifica un sapere di seconda classe? È colpa di Croce se la cultura italiana è scientificamente arretrata? Un dialogo appassionato che fa luce su due impostazioni alternative della filosofia in Italia.
Giorello: L’Italia sarebbe scientificamente arretrata per colpa di Benedetto Croce: questo è un mito storiografico che perfino un anticrociano come Geymonat ha più volte contestato e che è stato fatto oggetto nel numero 4/2012 de Il Mulino da un intervento di Alessandra Tarquini. L’arretratezza dell’Italia in campo scientifico è il risultato di cattive scelte dei politici da una parte e di resistenze culturali e di incapacità degli scienziati stessi a comunicare dall’altra e che quindi risultano indipendenti dall’idealismo crociano. A livello culturale, casomai, esistono altre forze che potrebbero essere imputate del ritardo scientifico, si veda per esempio la nefasta influenza della Chiesa in merito ad alcuni aspetti delle ricerche bioetiche.
La mia perplessità nei confronti di Croce non riguarda le pretese conseguenze della sua filosofia sullo sviluppo tecnico-scientifico del nostro Paese. Mi sembra che sia una polemica datata e ormai superata. Non credo che dalle posizioni antiscientifiche di Croce derivi un ritardo della società italiana nei confronti della scienza. Su questo, infatti, sono abbastanza d’accordo con Alessandra Tarquini, quando dice che non è colpa degli idealisti se l’Italia è arretrata. Un esempio è quello dell’Olivetti e della Montecatini, che si erano distinte per la ricerca industriale rispettivamente sui calcolatori elettronici e sulle materie plastiche, in cui si operarono profonde ristrutturazioni tagliando alcuni settori innovativi per rafforzare quelli più sicuri, portando lo Stato a investire sempre meno nei campi che avrebbero potuto promuovere nuova ricerca innovativa. Questo giudizio è ben argomentato anche da Marco Pivato nel suo “Il miracolo scippato” edito da Donzelli, nel quale è chiaro che il ritardo italiano non è certo imputabile a Benedetto Croce, ma è relativo alla maturità democratica e di sviluppo economico del Paese.
Io credo però che il pensiero di Benedetto Croce sia in se stesso viziato da una cattiva lettura dell’impresa scientifica, da una conoscenza in campo scientifico modesta e disinformata. Non basta, infatti, citare – talvolta fuori luogo – Mach o i pensatori convenzionalisti per dire che la scienza non arriva alla verità. Quella di Croce è una filosofia interessante sotto altri profili, ma poco interessante, quando si parla di scienza e quindi è deficitaria sotto il profilo di una seria trattazione del problema della conoscenza.
Ocone: Ti Concedo anche io qualcosa e ti dico che il termine “pseudoconcetto” usato da Croce è infelice. Ed anche errato rispetto allo spirito ultimo e alla lettera della sua opera. Io faccio riferimento in primis alla Logica che è del 1909. La prima cosa che ci dovrebbe far riflettere è che Croce nella prefazione alla terza edizione del 1915 dice suppergiù così: “questa opera fin da quando è apparsa è stata accusata di aver svalutato le scienze, invece è una accorata difesa delle scienze stesse”. Croce quindi sottolinea questo aspetto. Croce non avrebbe mai sottoscritto una affermazione come quella di Heidegger sulle scienze che non pensano. Egli è anzi uno dei pochi filosofi del Novecento a non aver compiuto un’opera di svalutazione delle scienze. E ciò indipendentemente dal fatto che lui avesse cognizione o meno della scienza stessa. Sicuramente non era un esperto, come non lo era della musica. Ma se quest’ultimo fatto non ha impedito che ci siano stati musicologi di ispirazione crociana molto importanti, come ad esempio Massimo Mila, ugualmente può accadere in ambito scientifico. Il discorso di Croce si tiene infatti ad un livello categoriale: porge attenzione ai metodi della scienza più che ai risultati specifici. E per fare ciò non occorre conoscere tutti i progressi della scienza particolari, il che sarebbe fra l’altro umanamente impossibile.
Croce nella Logica distingue due tipi di concetto di cui uno è suddiviso a sua volta in due sottotipi: quello che lui chiama “concetto puro”, quello della logica e della conoscenza “vera e propria”, e gli “pseudoconcetti”. Questi ultimi si distinguono a loro volta in empirici e astratti( i primi propri delle scienze naturali e umane, i secondi quelli delle matematiche formulati indipendentemente dai riferimenti al mondo reale). Il “concetto puro” è la sintesi a priori kantiano-hegeliana: Ma pseudoconcetto, dicevo, è termine infelice che cozza con lo spirito e la lettera del pensiero crociano: le attività umane hanno per il filosofo napoletano tutte pari dignità, e quindi anche la pratica a cui afferirebbe secondo alcuni lo “pseudoncetto”. E’ un’idea che Croce trova nell’epistemologia a lui contemporanea, in quell’empiriocroiticismo allora dominante. Croce è uno dei pochi filosofi che non ha gerarchizzato le attività umane: per lui la conoscenza come la pratica, la morale come l’economica, sono tutte attività egualmente degne che generano valori. Anche l’attività economica lo è, tanto che ascriveva a sé il merito di aver individuato la positività dell’Utile. Di fatto le scienze non possono essere considerate né superiori né inferiori alla filosofia. Ma detto questo, bisogna andare ancora più nel profondo, ammettendo che per Croce la distinzione tra i diversi tipi di conoscenza non è di carattere disciplinare. Per il filosofo napoletano le scienze fanno ampio uso del “concetto puro”. E, viceversa, la filosofia fa uso degli “pseudoconcetti”. In più la distinzione di Croce regge ad un livello empirico, in qualche modo, ma solo se si fa riferimento alla scienza moderna di impianto newtoniano. Gli sviluppi scientifici e l’epistemologia contemporanee che non sono più legate al meccanicismo di Newton dimostrano infatti che l’importanza fondamentale di concetti diversi da quelli classici anche nell’ambito delle cosiddette scienze. Le quali, in qualche modo, si convertono in vera e pura filosofia.
Giorello: Ti prendo un passo del 1938, da “La storia come pensiero e come azione”, dove Croce dice che la scienza svolge il suo “ufficio utile” non certo quando “compie astrazioni, costruisce classi, stabilisce rapporti tra le classi che chiama leggi, formula matematica e simili. Tutti codesti sono lavori di approccio indirizzati a salvare le conoscenze acquistate e a procacciarne di nuove, ma non sono l’atto del conoscere”. Io vorrei sapere che cos’è mai per l’erudito di Pescasseroli tale atto del conoscere! Nel 1938 siamo ormai lontani da Newton; nel 1900 Planck ha introdotto la prima ipotesi dei quanti, nel 1905 Einstein ha ripreso la teoria quantistica, ha riplasmato la meccanica statistica e gettato le basi della relatività; nel 1915-16 è nata la relatività generale; la fisica quantistica è andata avanti con Bohr e il suo modello dell’atomo fino alle formulazioni di quella che sarà chiamata meccanica quantistica in senso stretto. La scienza è questa: calcolo, topologia generale, topologia algebrica, analisi funzionale, geometria differenziale, eccetera. Dov’è l’atto del conoscere se non nella matematica? E’ significativo che proprio all’inizio degli anni ’30 Paul Dirac insistesse che la matematica sopravanza l’informazione empirica del mondo e definisce i nuovi oggetti che saranno poi esplorati e controllati in laboratorio. Questo ruolo euristico e creativo della matematica è pensiero per eccellenza. Resta il fatto che la svalutazione dell’apporto euristico della matematica è il vizio peggiore della lettura crociana. Quando torniamo indietro alla “Logica” dove Croce dice che la matematizzazione mutila la “vivente realtà del mondo”, onde le cose vengono contrassegnate “per ritrovarle e servirsene dopo, non già per intenderle”, l’autore dimostra di non aver capito niente neanche della stessa fisica newtoniana e di non aver presente l’importanza che ha avuto la matematizzazione nell’aprire nuovi settori alla ricerca fisica nell’Ottocento – prendiamo le posizioni pertinenti alla termodinamica o all’elettromagnetismo. Né possono essere trascurate disavventure come l’attacco a Bertrand Russell e più in generale alla logica matematica, che dimostra una non comprensione strutturale. Questo non vuol dire che bisogna accettare il programma fondazionalista di Russell, io darei ragione alla critica di Poincaré contro il programma russelliano; ma il fatto che talvolta Croce prenda spunto da Poincaré non cambia le cose per un pensiero che è insensibile agli sviluppi conoscitivi interni all’impresa scientifica.
Ciò che Croce scrive a proposito del darwinismo – e di questo ne ha parlato anche Piergiorgio Odifreddi – è inaccettabile. Sono d’accordo con te su una cosa interessante: Alessandra Tarquini dice che Croce insisteva sulla distinzione tra scienza e filosofia, perché la scienza è altro dalla filosofia, conosce in modo diverso, è controvertibile. Non mi sembra, però, che la filosofia sia incontrovertibile, infatti la storia della filosofia è piena di controversie, di dispute, di abbandoni di programmi molto di più di quanto non lo sia la storia della scienza. Basterebbe poi leggere alcune osservazioni di Croce che indicano una saggia resipiscenza, quando per esempio dice che ogni sistema filosofico non ingabbia mai totalmente la realtà, non è mai definitivo perché la vita stessa non è mai definitiva: infatti, un sistema filosofico risolve un gruppo di problemi dati e prepara le condizioni per la soluzione di altri problemi, cioè di nuovi sistemi. Se sostituissimo la parola sistemi con la parola teorie, le stesse cose si potrebbero dire della sfera scientifica. Non si capisce quindi l’idea di una filosofia incontrovertibile. Forse la capiranno i pallidi epigoni heideggeriani, mentre a Heidegger va dato almeno atto di non dire le stupidaggini che dicono oggi i suoi seguaci di destra e soprattutto di sinistra, oggi orfani di una versione idealistica del marxismo e che adesso si sono convertiti alle varie forme di pensiero debole. Ne scaturisce un sistematico fraintendimento del contenuto conoscitivo delle scienze, dimenticando che i problemi ontologici della filosofia sono affrontati oggi dall’impresa scientifica a partire dal molto grande, come la storia dell’universo, fino ad arrivare al molto piccolo – la teoria delle particelle elementari. Per non dire della costellazione che va dalla chimica alla biologia. Spesso queste discipline introducono la storicità come qualcosa di intrinseco alla formulazione delle loro concezioni di fondo. Croce, quindi, non solo non ha capito Newton; ma non ha capito neanche Darwin, non ha capito il modo di pensare della biologia e delle più grandi rivoluzioni scientifiche del Novecento. Lo stesso vale per il settore dell’economia con la grande ricchezza ricavata dalla matematizzazione al suo interno, pensiamo alla teoria dei giochi e del comportamento economico da von Neumann in poi. Per cui, la matematica non è solo formazione di classi e posizione di relazioni tra le classi, un serbatoio morto nel quale comprimere la conoscenza, ma è proprio l’atto concreto del conoscere – come ha scritto negli anni ’80 Ludovico Geymonat. Ciò non vuol dire che Croce sia responsabile del ritardo italiano; ma significa che Croce aveva una concezione dei problemi filosofici e della conoscenza in generale che ha un doppio vizio: vede una conoscenza che non esiste, visto che la conoscenza è quella della scienza e della tecnica – piaccia o meno ai signori filosofi –; e inoltre va contro alcuni degli spunti più interessanti della stessa filosofia crociana. Quando Croce insiste sull’importanza delle espressioni filosofiche, per cui non bastano la riflessione interiore e la meditazione ma occorre che ci sia una trasformazione linguistica di tutto ciò, nell’arte, nella letteratura, nella poesia, non si capisce perché questo nesso tra espressione e linguaggio non possa essere applicato alle scienze, dove, tra l’altro, la riflessione va sempre oltre un io solitario per arrivare a un noi in piena libertà scientifica. Questo è proprio uno dei grandi insegnamenti della scienza e della filosofia della scienza, nella modernità. Basterebbe rileggerè John Stuart Mill. E’ curioso che oggi si ritorni a guardare a Croce come a un pensatore chiave del liberalismo quando un pensiero liberale che non fa i conti con l’impresa scientifica è un pensiero disarmato nei confronti dell’attività di trasformazione più importanti del mondo e della società. Preferisco John Stuart Mill, Bruno de Finetti, Russell, Popper. Quest’ultimo, secondo me, con tutti i suoi limiti è stato il filosofo del Novecento ha meglio fatto capire l’importanza dell’impresa scientifica come modello di una più generale dialettica sociale entro una società libera.
Ocone: Sono d’accordo con la sostanza delle tue idee, ma non vedo perché devi imputare il contrario a Croce. Nel passo che hai letto all’inizio viene detto che la matematica o il pensiero scientifico non fanno conoscenza nel momento in cui, ecc. ecc. Ciò significa però che c’è un momento in cui lo fanno. Croce avrebbe potuto dire lo stesso della filosofia, che fa anch’essa ampio uso di “pseudoconcetti”. E e non potrebbe fare altrimenti.
Giorello: Come la mettiamo con il fatto che Croce esclude l’atto conoscitivo della matematica e riduce l’importanza della logica? E come consideriamo l’ostilità ostinata al darwinismo? E che dire dell’incapacità crociana di fare i conti con la percezione dei cambiamenti che l’uomo ha del proprio posto nel mondo? Non si capisce come l’espressione, il linguaggio, la definizione di nuovi enti – termini cari a Croce – vengano tagliati fuori non ammettendo che il pensiero matematico inaugura ontologie e porta ad accrescere la stessa conoscenza del mondo fisico in senso lato. Tra Croce e Paul Dirac continuo a preferire il secondo.
Ocone: Croce aveva un’idea precisa di conoscenza. La filosofia per lui è era immanentistica: il pensiero svincolato dal reale è inconcepibile; la logica è sempre una logica del finito. Ciò significa che per conoscenza egli intende semplicemente la storiografia, il narrare una storia. La filosofia, avendo sconfitto la metafisica, non è un ragionamento astratto sul concetto, ma si dà nel momento in cui il concetto si lega al particolare intuitivo. Quindi solo la storia narrata è la vera filosofia. La forma della filosoia è il giudizio, che è sempre storico: nel doppio senso che nasce da una situazione specifica, è contestuale, e è “superato” da altri giudizi che nascono da situazioni nuove e diverse.
Giorello: Ma se c’è piacere nel narrare storie, non è bello narrare storie sull’origine del nostro universo? O sulla nostra intelligenza e su quella delle macchine? L’interesse profondo che troviamo nella storicità del mondo ci fa capire quanto la storicità secondo Croce sia arretrata rispetto a questi punti e quanto sia nociva a Croce stesso, offuscando quello che c’è di stimolante e coraggioso nel suo pensiero.
Ocone: Croce ha una particolare idea di conoscenza, ma nella sua concezione integralmente immanentistica e secolarizzata l’uomo non è solo conoscenza né il pensiero può accampare pretese di superiorità rispetto al mondo delle passioni, degli interessi, dei sentimenti. Ripeto: i concetti e gli “pseudoconcetti” hanno pari dignità e sono entrambi imprescindibili forme della vita: pertengono alla dialettica della realtà. Tu hai parlato delle ontologie a cui apre la scienza: Croce ti avrebbe risposto che si tratta di ontologie materiali e non dell’unica ontologia formale che si dà nel pensiero come Io penso o appercezione trascendentale, per usare i termini di Kant. Il conoscere puro ha una particolarità rispetto agli altri tipi di conoscenza: non parte da presupposti e postulati, cosa che invece non può essere detta per le altre discipline. La filosofia deve quindi fare a meno del presupposto oggettivante: non esiste una realtà al di fuori di me così come non esisto io al di fuori della realtà. Questo è un punto che, ripeto, dopo Kant sta a cuore a tutti i filosofi. Quando Heidegger parla ad esempio dell’esserci, e non di individuo, allude a qualcosa del genere. Non esiste la realtà in sé presa senza la mediazione dell’io. Ma non dell’io empirico bensì dell’Io puro. E quest’ultimo si potrebbe ugualmente chiamare, volendo, Noi.
Giorello: A mio avviso vedere tutto basato sull’ Io penso e basta significa applicare un modo semplicistico di leggere Kant, “un vuoto succhiar se stesso”.
Ocone: Kant è un crocevia importante nella storia della filosofia perché in lui sono presenti tutti e due i tipi di idealismo: quello materiale e quello formale. Egli è il padre sia di Nicolai Hartman sia di Heidegger, cioè di coloro che hanno elaborate le due più ambiziose ontologie novecentesche: ontologia materiale quella del primo, formale l’altra. Croce si muove nell’ambito dell’ontologia formale perché è in fin dei conti un hegeliano.
Giorello: All’idealismo preferisco i pensatori dell’empirismo. Come de Finetti che spiegava negli anni Settanta che gli piacevano Locke, Mill è i pragmatisti, mentre non gli andavano a genio Kant, Hegel e lo stesso Marx. Qui esiste, evidentemente, un’idea differente di indagine filosofica, che per me è attenta ricerca della conoscenza che si cela nelle pieghe della scienza. Con questa idea, a mio avviso, dovrebbe fare i conti un pensiero politico aperto, come dimostra l’atteggiamento di Einaudi nel libro con Dario Antiseri di cui mi hai chiesto di scrivere la prefazione. Tutto il resto mi sembra appunto un girare a vuoto, una battaglia filosofica sbagliata. Croce riuscì a mettere all’angolo personalità di grande respiro come Federigo Enriques finendo adesso all’angolo lui stesso. Una certa simpatia, quindi, me la suscita – perché anche Croce è un perdente – anche se preferisco leggere il Croce della Napoli barocca, quello che parla del suo Vico e che spiega la forza delle modalitá espressive. Non credo sia altrettanto interessante leggere i suoi scritti sulla logica, sulla matematica e neanche sull’estetica in cui distingue con il misurino la poesia e la non poesia di Dante e di Leopardi fraintendendo spesso poeti che a mio avviso sono tra i più grandi pensatori della cultura italiana e non solo. Anche perché a Leopardi la scienza piaceva, nella convinzione che l’uomo che vuol capire la propria natura deve anche guardare fuori di sé.
Ocone: Per quanto riguarda Einstein, Croce ha trascorso un intero pomeriggio nel settembre del 1931 con lui a Berlino, dove non hanno parlato solo della crisi della civiltà europea ma anche delle loro teorie. E Croce ha poi detto di aver trovato con lui un “comune sentire”. Per quanto riguarda Popper, credo che il suo impianto liberale e epistemologico sia molto vicino a quello di Croce, come tra l’altro ha argomentato con dovizia di particolari Girolamo Cotroneo. Al di là del linguaggio diverso (ad esempio il significato opposto che i due danno al termine “storicismo”), c’è in loro la stessa idea dell’impresa conoscitiva fatta per tentativi ed errori. Detto altrimenti, Croce e Popper hanno in comune la convinzione che non si possa predeterminare il percorso storico e che bisogna affidarsi alle imprevedibili vie che prenderà la libertà umana.
Giorello: Su questi punti di convergenza al di là delle differenze di superficie non ho nulla da obiettare. È neppure sul fatto che Croce avesse delle perplessità nei confronti delle filosofie della storia analoghe a quelle espresse da Popper in “Miseria dello storicismo” – un testo che fu liquidato con grande superbia da molti crociani. Resta il fatto che Croce non funziona, è un tipo di filosofia irrilevante se si vuole ripensare un liberalismo nel senso ampio del termine, come invece si può fare con Popper. Se poi si sostiene che è bene rileggere alcune pagine di Croce, in cui si riscontra una vicinanza con Popper o che per alcuni punti del suo pensiero rientra tra coloro che difendono il concetto di società aperta, va benissimo. Io continuo ad avere la mia ammirazione per il Croce del discorso sul concordato, anche se la sua battuta “Non possiamo non dirci cristiani” mi lascia perplesso, essendo noi in un paese libero che dovrebbe sempre più avere il coraggio di sperimentare la libertá filosofica.
Da non crociano sento comunque il desiderio di sottolineare che, diversamente da quanto vuole certa critica e certa “apologetica storicistica” -nonché la storiografia più accreditata e sclerotizzata-, nelle pieghe della filosofia dello Spirito di Croce vi è lato sensu un respiro “naturalstico” che non va trascurato. Di certo la dimensione dell’utile (caratterizzante, come è noto, il pragmatismo di Peirce e James) e quella storica -come ha, a più riprese, sottolineato Ocone- riveste nel pensatore di Pescasseroli un ruolo non trascurabile.
Forse Croce andrebbe riletto un po’ di più e più attentamente.
Per favore uno certamente può dissentire dalle tesi crociane ma il fatto che egli definisca pseudoconcetti gli enunciati della scienza non significa che essi, a differenza dei pseudoconcetti del positivismo (metafisica), debbano essere cestinati, vuol dire solo che appartengono alla categoria dell’utile (come) e non del vero (perché). La legge di gravità ci dice come le masse si attraggano, non il perché (hypotesis non fingo.
> La verità è che Croce non odiava né le «scienze», né gli scienziati.
Mi pare un po’ difficile da sostenere. I giudizi che Croce scrisse intorno alle scienze, alla logica formale e alla matematica sono espressi con parole davvero chiarissime e inequivocabili.
Croce era un grande maestro di critica letteraria e di storiografia, ma come filosofo era mediocre e soprattutto fuori del suo tempo.
Non mi pare che si parli di lui in nessuna storia del pensiero contemporaneo scritta fuori dall’Italia.
Croce era noto nel mondo anglosassone, dove ebbe amici e seguaci. A Oxford gli fu conferita la laurea honoris causa. Idem all’Università «Goethe» di Francoforte sul Meno. Quando Croce morì, Horkheimer scrisse una lunga lettera alla vedova. Anni fa, comperai a Helsinki una storia della filosofia del Novecento, scritta in svedese: Croce è tra i filosofi a cui sono dedicate più pagine. E si potrebbe continuare.
Arnaldo Di Benedetto
Questo antico e -diciamo la verità- ormai STANTIO dibattito sul presunto odio di Croce per le scienze, il fatto stesso che il buon Ocone si impegni a difendere Croce dalle inclinazioni di Giorello che «preferisce» de Finetti (?) a Hegel, la dicono lunga sulla situazione italiana. A parte il fatto che neanche un bestione vichiano intervistato da Costanzo avrebbe mai confessato in pubblico un simile impudico gusto, devo dire che ammiro l’eroica pazienza di Ocone.
La verità è che Croce non odiava né le «scienze», né gli scienziati. Le sue idiosincrasie si limitavano a una certa antipatia nei riguardi della confusione e dei confusi confusionari: sentimento assai diffuso. a quanto ne so, tra coloro che tentano di pensare. Per questo, egli ha combattuto quei filosofi e quelle filosofie che, invece di pensare il vero, come è loro specifico compito, «preferivano» andare a elemosinare una qualche verità d’accatto «nelle pieghe della scienza». Croce non ha mai attaccato gli scienziati e la loro opera, ma ha confutato logicamente per sempre i filosofi SCIENTISTI, questa sorta di scansafatiche, sanguisughe del lavoro altrui, parassiti delle scienze naturali, delle scienze esatte e della filosofia, gente a tre o quattro teste che trova bello un teorema, vero un poema, buona una macchina e utile una predicozza politicamente corretta.
Capisco che molta gente ha creato le proprie fortune accademiche sul pensiero di Croce e che per questo motivo tenda a minimizzare se non a rielaborare il pensiero del proprio beniamino.
Benedetto Croce affermò che matematica e scienza non accrescono il nostro sapere perchè conducono solo a formare pseudoconcetti e non costituiscono una realtà razionalizzabile, ma solo utile a fini pratici. “Le finzioni delle scienze naturali e matematiche postulano di necessità l’idea di un’idea che non sia finta. La logica, come scienza del conoscere, non può essere nel suo oggetto proprio, scienza di finzioni e di nomi, ma scienza della scienza vera e perciò del concetto filosofico e quindi filosofia della filosofia.” – frase roboante, ma priva di significato. Un aneddoto: il figlio di Giovanni Gentile (l’altro filosofo idealista – quello fascista) era un buon fisico teorico. Una volta il padre presentò Giovanni Gentile jr. a Croce il quale chiese:
“Di che si occupa il giovanotto?”
Il padre rispose: “È fisico teorico.”
E Croce commentò: “Ah, un tecnico, dunque. Bene, bene.” – dimostrando così di non conoscere nemmeno la differenza fra scienza e tecnica.
Il semplice fatto di riportare citazioni altrui senza neanche la bontà di nominare l’autore – che nella fattispecie della pubblicazione dell’aneddoto è Roberto Vacca, il quale a sua volta si guarda bene dal citare la fonte -, la dice lunga sul fondamento del (presunto) aneddoto, e della conseguenziale critica.