Il dossier pubblicato su questa rivista a settembre con interventi di Martha Nussbaum, Silvio Ferrari, Roberta Aluffi Beck Peccoz, Alessandro Ferrari e Letizia Mancini e intitolato “Burqa, un fantasma si aggira per l’Europa” ci ha fatto confrontare con la sfide che il ritorno del velo in “Oriente” e la sua attuale affermazione anche in “Occidente” ci pongono da un punto di vista religioso, giuridico, sociale e politico. La questione del velo è una questione complessa che affonda le sue radici nel XIX secolo. Sin d’allora il dibattito su quest’indumento è stato uno dei principali terreni di scontro nella battaglia ideologica tra forze “tradizionaliste” e “moderniste” del mondo musulmano, assumendo un carattere centrale nel confronto/scontro tra colonizzati e colonizzatori.
Nei primi decenni del ’900, in ragione della sua caduta in disuso, il velo sembrava star uscendo definitivamente di scena. Ma con la rinascita dell’islam come forza politica e spirituale negli anni settanta del novecento, e sempre più negli ultimi decenni, il suo uso si è largamente esteso sia nei paesi a maggioranza musulmana che in quelli della diaspora, facendolo ritornare al centro delle controversie. I movimenti dell’islam politico, così come i fautori del revival religioso islamico, hanno fatto dell’hijab (il velo che copre la testa, lasciando il volto scoperto) il simbolo dell’identità musulmana e una prova dell’autenticità religiosa. Molte femministe e movimenti cosiddetti progressisti, dall’altro lato, lo considerano un simbolo di oppressione, un’imposizione patriarcale, un ritorno al passato che nega alle donne il diritto di decidere del proprio corpo. Oggi lo scontro ideologico attorno al velo si fa sempre più duro, mentre cresce il numero di donne che lo indossano per libera scelta, condizionamenti sociali, legge come nel caso di Iran e Arabia Saudita.
Malgrado questa crescita il numero delle musulmane non velate continua ad essere alto, ma queste ultime sembrano essere uscite dal nostro immaginario. Quando i mass media occidentali parlano di islam, l’immagine che infatti più spesso utilizzano, anche se non necessariamente pertinente, è quella di una donna velata, e spesso velata nelle forme più radicali e meno diffuse quelle del niqab (il velo che copre anche il volto lasciando scoperti solo gli occhi, originario dei paesi del Golfo) e del burqa (ampio telo che copre completamente la figura umana nascondendo anche gli occhi dietro una griglia, usato in alcune zone dell’Afghanistan e del Pakistan). Agli occhi di molti il velo è diventato il simbolo per eccellenza per descrivere milioni di musulmani in diverse parti del mondo.
Quest’assoluta predominanza di immagini di donne velate nella rappresentazione dell’islam e delle donne musulmane fornita dai mass media occidentali cancella le donne non velate, nascondendo allo stesso tempo le ragioni del ritorno del velo. Paradossalmente, in un’Europa in cui l’uso del velo è ostacolato da leggi e ordinanze amministrative (come ben raccontano gli articoli nel dossier già citato), le donne musulmane che non lo indossano sono ignorate dai mass media, che, sebbene spesso siano critici con la pratica del velarsi, preferiscono – come sostiene l’antropologa Ruba Salih – “l’esotico, il palesemente diverso”, l’altro. A ben vedere, l’invisibilità delle donne musulmane non velate rischia di rafforzare un pericoloso meccanismo, secondo cui l’autenticità di una donna musulmana passa attraverso l’esternazione della sua identità religiosa e quindi attraverso il velo.
La studiosa belga di origini marocchine Nadia Fadil sostiene che quest’ossessione per le donne velate non rappresenta altro che il perpetuarsi in epoca contemporanea di quello sguardo orientalista che ha caratterizzato da sempre il rapporto dell’occidente con l’islam.
La donna musulmana nascosta dietro ai veli è sin dal Settecento emblema di una cultura che opprime le donne e di un mondo minaccioso e arretrato, che necessita di essere svelato e salvato. La continua riproduzione della donna velata per rappresentare l’islam contribuisce anche a rappresentare i musulmani come un gruppo omogeneo, monolitico e fermo nel tempo, in cui tutti pensano e agiscono allo stesso modo. Viene in tal modo negata la pluralità di voci che invece caratterizza il mondo musulmano: accanto a chi sostiene e indossa il velo, c’è infatti chi contesta che il suo uso sia una prescrizione coranica.
Inoltre non bisogna dimenticare che oggi le donne che non indossano il velo, si ritrovano spesso a vivere una situazione complessa: da un lato, vengono ignorate da un immaginario mass-mediatico che le fa scomparire dalla rappresentazione dell’islam, e dall’altro si sentono giudicate negativamente, se non contestate, da singoli individui e da gruppi che le considerano delle cattive musulmane perché non si attengono al principio della copertura della testa. Eppure non indossare il velo per molte donne non significa affatto non essere credenti o praticanti, in quanto l’hijab, ai loro occhi, non è necessariamente simbolo di maggiore religiosità.
Basti pensare ad esempio che molte femministe islamiche – attiviste per i diritti delle donne da una prospettiva religiosa -, come la malesiana Zainah Anwar, l’iraniana residente in Gran Bretagna Ziba Mir Hosseini e la pakistana residente negli Stati Uniti Asma Barlas, non indossano il velo, sebbene inscrivano la loro vita e le loro battaglie per l’uguaglianza di genere all’interno di un percorso di fede. Nel romanzo di Leila Djitli Lettera a mia figlia che vuole portare il velo, la madre franco-algerina dice alla figlia diciassettenne che ha deciso di velarsi: “Ti ho allevata nella religione, non nel segno. Anche coloro che non praticano possono essere credenti sinceri. La fede non si misura con la pratica, la fede non è la consuetudine, il rituale. E, al contrario, il rito non fa il credente. Si può vivere intensamente la propria fede senza ostentare segni tanto costrittivi ed essere perfettamente ipocriti. Prendendo il velo, riprendi pratiche abbandonate da due o tre generazioni”.
Non solo indossare o meno il velo non è, secondo diverse donne musulmane, una questione di maggiore o di minore religiosità, ma non è neanche una questione di moralità. La palestinese Salwa Salem, all’inizio degli anni novanta scriveva: “Da noi esiste un’espressione particolare per indicare le ragazze troppo libere: ala hall shàriha che significa “con i capelli sciolti”. Ho sempre trovato molto singolare che un’immagine così bella, l’immagine di una ragazza con i capelli al vento, fosse un’espressione offensiva. […] Non sono mai stata una ragazza leggera, non sono mai andata, come temeva mio padre, ala hall shari ma sono sempre riuscita a ottenere ciò che volevo, a fare cose un po’ spericolate e godermi sempre il vento nei capelli” (Salem, 1993, pp. 40-41).
La questione del velo non è quindi una faccenda che vede un’opposizione netta tra islam e occidente o tra musulmani e non musulmani. Le posizioni sono varie e basate su diversi punti di vista anche all’interno dello stesso mondo musulmano, e, oggi, come dice la protagonista del già citato romanzo di Djitili: “La questione non è dunque essere favorevole o contraria al velo. La vera questione è perché vuoi portarlo, tu, oggi, qui?”.
È a questa domanda che è sempre più urgente rispondere, senza però dimenticare che i problemi posti dalle donne musulmane, oggi vanno ben oltre il velo.
Qui in Italia le musulmane, sia velate che non, ci ricordano infatti che i loro principali problemi sono legati alla mancanza di pieni diritti di cittadinanza, questione sentita in maniera particolarmente forte, soprattutto dalle giovani donne e ragazze di seconda generazione che ogni giorno devono lottare con una burocrazia che le fa sentire cittadine di serie b, che rende difficili i loro percorsi di studio, di lavoro, di affermazione nella scena pubblica, quando non anche la loro stessa presenza sul territorio italiano. È tempo quindi di capire le ragioni del ritorno del velo, ma anche di andare oltre il velo.
Renata Pepicelli, università di Bologna, autrice di Il velo nell’islam. Storia, politica, estetica, Carocci, 2012 e Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme, Carocci, 2010.