Da Reset Dialogues on Civilizations
Tehran 6 maggio: alcune attiviste per i diritti delle donne si ritrovano presso un’associazione culturale nel cuore della città. L’occasione è speciale, si incrociano tre generazioni di femministe, parla una rappresentante per ognuna delle tre generazioni: una giornalista, un’editrice, una dottoranda emozionata e riconoscente verso le donne che l’hanno preceduta negli anni per aver tenuto duro e insegnato alle più giovani la strada dell’attivismo. Fuori programma, s’inseriscono altri due interventi, sollecitati dalle astanti, uno a cura di Minou Mortazi, una delle “femministe islamiche” locali più attive, l’altro di Fatima Siddiqi. Quest’ultima, contrariamente a quanto accade in Iran, non usa il cognome da nubile, sicuramente perché carico di significati negativi non solo per le donne, ma per la società in generale: la storica ed attivista, infatti, è figlia di Sadeq Khalkhali, un giudice appartenente al “clero” sciita tristemente famoso per aver condannato a morte decine e decine di oppositori durante il periodo dell’instaurazione della Repubblica Islamica. Certo Fatima non condivide l’opera paterna, ma la sua presenza, la sicurezza con cui esprime le sue posizioni sicuramente femministe e l’attenzione con cui le partecipanti la ascoltano sono un ulteriore indice del fatto che, nell’Iran contemporaneo, le strategie del movimento femminile sono cambiate e nel suo seno operano donne di provenienza, convinzioni e metodi assai differenti tra di loro, tutte unite da un solo obiettivo comune: consentire alla iraniane di godere della piena cittadinanza. Anzi, sarebbe più corretto parlare di “movimenti” vista la pluralità delle loro componenti, ferma restando la loro collaborazione mobile e cangiante a seconda dell’obiettivo in palio.
La riunione si svolge alle spalle dell’elezione presidenziale e il tema cardine della riunione è la partecipazione delle donne negli organi amministrativi del Paese. Anche quest’anno, nonostante fossero state virtualmente ammesse alla lizza per la Presidenza della Repubblica, le donne sono state poi escluse dal complesso meccanismo che regge il potere e che filtra i candidati politici. La protesta femminile per accedere alla carica presidenziale risale almeno al 1997, quando un’altra “femminista islamica” e figlia d’arte, Azam Taleqani (il padre era il famoso teologo riformatore) aveva riletto in chiave progressista l’articolo della Costituzione che regola la prestigiosa candidatura, interpretando la parola usata per definire la figura ideale per ricoprire l’incarico di Presidente della Repubblica come “persona” e non come “uomo”, incoraggiando le donne a candidarsi.
Unico spazio concesso alla componente femminile è quello delle municipalità: le candidate hanno usato in questi giorni tutti i mezzi disponibili per pubblicizzarsi, dai tradizionali manifesti affissi sui muri ai messaggi video diffusi attraverso i social. Già, apparentemente alcuni social sono interdetti, ma in realtà tutti li usano previa installazione nel computer/cellulare di un’applicazione che scavalca il filtro della censura. Ma non tutte sono rappresentate nelle liste dei riformatori, molte sono da sempre i pilastri su cui appoggia il potere conservatore che arrivò a controllare lo stato oramai 38 anni fa grazie anche al supporto femminile. L’aspetto più eclatante dell’Iran odierno è proprio questa compresenza di anime spesso antitetiche tra loro, dove non è possibile operare quel gioco di bianco e nero che tanto piace alla maggioranza degli osservatori e commentatori dell’Iran. Non esiste solo una società civile fatta di “donne e giovani vittime e progressisti”, ci sono donne e giovani che lottano quotidianamente per migliorare il loro Paese e le condizioni di vita, ma anche donne e giovani espressione dell’establishment. Basti ricordare, per portare un paio di esempi, quelle che fungono da controllori della morale delle loro consorelle – delle quali censurano e denunciano, ad esempio, il codice vestiario usato nella sfera pubblica – e quelle entrate nel corpo dei basij, un corpo paramilitare i cui componenti, perlopiù giovani, spesso sono intervenuti, tra l’altro, contro i loro connazionali che manifestavano pacificamente per le libertà civili e politiche.
I quasi 80 milioni di cittadini dell’Iran di oggi costituiscono una società composita e mobile; una parte è intenta a fare affari ed arricchirsi, esasperando un consumismo che la Rivoluzione aveva tentato di eliminare e che invece è risorto prepotente. Sono loro che spingono i consumi, allargando altresì la forbice tra ricchi e poveri, quest’ultimi spesso impiegati statali e piccoli negozianti che non reggono il passo con questa “borghesia” affluente. Per imitarla, molti comperano, ad esempio, l’ultimo modello di cellulare pagandolo con costose rate, pur di esibire uno status symbol necessario per figurare in determinati ambienti.
Una parte cospicua della popolazione è attiva nelle arti, dal cinema alla letteratura, campi dove uomini e donne ormai si contendono primati di presenza e premi nazionali e internazionali. Molti coltivano ancora mestieri tradizionali, dalla calligrafia alla costruzione di muri in paglia e fango; altri hanno inventato, nel corso di questi decenni, nuove professioni, come i venditori di dvd stranieri piratati che esibiscono la merce per strada o la vendono porta a porta; o gli ambulanti – uomini, donne, ragazzini – che affollano la metropolitana vendendo di tutto. Ma ci sono pure consulenti che costruiscono l’immagine di uomini e donne attivi in politica e che proprio in questa tornata elettorale, una delle più partecipate dall’incipit della Rivoluzione, hanno giocato con il ricorso tanto a tecniche visive d’avanguardia quanto alla tradizionale offerta di sorbetti e dolci porti ai passanti davanti ai quartier generali dei candidati.
L’Iran è paese straordinario e ordinario quindi; soprattutto, è un paese di gente orgogliosa che da millenni riesce ad adattarsi ad ogni situazione senza mai cedere.
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