Porca miseria? Beh, mica tanto. Infatti il divampare della crisi, i momenti difficili, la penuria collettiva sono da sempre un formidabile stimolo per cineasti e letterati. L’arte è “povera” per eccellenza. Tanto per cambiare, l’America fa testo sul grande schermo: da Charlie Chaplin disoccupato e vagabondo in Vita da cani (1918) ai documentari rooseveltiani dei vari Hurwitz, Strand, Lorentz, Zinnemann, fino alle incursioni di Michael Moore nelle città fantasma del post fordismo Detroit, Flint, Cleveland (Roger and Me o Capitalism: A Love Story) e a Charles Ferguson, Oscar 2010 per il migliore doc a Inside Job sulle cause del depauperamento che tutt’oggi ci attanaglia. In mezzo, c’è un’impressionante filmografia sul tema, manifesta o di straforo. Furore di John Ford (1940), tratto dal romanzo The Grapes of Wrath di John Steinbeck, narra l’odissea di Tom Joad (Henry Fonda) e della sua famiglia contadina negli anni della Grande Depressione, che, rovinati dalla siccità e dalla rapacità delle banche, tentano la carta dell’emigrazione verso Ovest.
Ma la crisi del capitale industriale fa capolino e ammicca, sorride, seduce persino là dove meno te l’aspetti. In Pretty woman (1990) la prostituta-cenerentola Julia Roberts stempera la crudeltà finanziaria di Richard Gere, affarista senza scrupoli che acquista società in fallimento e le rivende dopo il classico “spezzatino”. E vedendo Flashdance, trent’anni fa, tutti avremmo voluto indossare la tuta blu per scambiare almeno due chiacchiere con l’operaia-ballerina Jennifer Beals.
E in Italia? Forse è vero che abbiamo avuto il cinema migliore nei “decenni pari” delle grandi trasformazioni (gli anni 1940-’60-’80 e 2000), come una volta azzardò argutamente Gianni Amelio. Sono i decenni più tormentati o vertiginosi. In sequenza, ecco le stagioni neorealistiche della guerra e del residuo spirito resistenziale; il miracolo economico che già mostra il declino nella filigrana della commedia all’italiana; la fine delle ideologie; e, poco fa, il ripensamento su una società ormai grottesca o spaurita, languida sotto il giogo incrociato di politica, tv e crimine (Il divo di Sorrentino e Gomorra di Garrone da Saviano). Metti per esempio il 1963. E’ l’annus mirabilis del cinema nostrano. Trionfiamo nel festival di Berlino (Orso d’oro a Il demonio di Brunello Rondi), sulla Croisette di Cannes (Palma d’oro a Il gattopardo di Luchino Visconti) e a Venezia (Leone d’oro a Le mani sulla città di Francesco Rosi), mentre esce 8 ½ di Federico Fellini che avrebbe vinto due premi Oscar nel ’64, per il miglior film straniero e i costumi di Gherardi.
Ma il 1963 è anche l’anno in cui Vittorio De Sica – che al cinema dei “panni sporchi” rimbrottati dal giovane Andreotti aveva offerto il capolavoro Ladri di biciclette (1948) – gira Il boom tratto da un racconto di Cesare Zavattini. Il protagonista Alberto Sordi è pronto a vendersi un occhio pur di far fronte ai debiti aggravati dalla vanità della moglie Gianna Maria Canale. Qualche tempo prima in Il vedovo di Dino Risi (1959), lo stesso Sordi – industriale “cretinetti” in ambasce – preferisce architettare l’omicidio della ricchissima consorte, una Franca Valeri di sublime petulanza, restando però vittima dell’“incidente” (un recente remake, Aspirante vedovo, ha visto all’opera la coppia De Luigi-Littizzetto). D’altronde, Albertone con Risi ha sempre avuto Una vita difficile, titolo della magnifica tragicommedia del 1961 in cui un ex partigiano comunista, ormai arresosi alla realtà, sputa infine contro le auto che sfrecciano sul lungomare di Viareggio.
Ma cos’è questa crisi?, cantava Rodolfo De Angelis e si chiede l’italianista Dario Tomasello in una ricognizione da poco edita dal Mulino su “letteratura e cinema nell’Italia del malessere”. Tutto cambia rapidamente nel Belpaese dei Sessanta. La crisi investe sia le classi popolari sia i ceti intellettuali, persino i più snob, come mostra La notte di Antonioni, uscito in contemporanea con La dolce vita di Fellini nel 1960, il titolo più equivocato della storia del cinema. Stesso protagonista, Marcello Mastroianni, stavolta nei panni di uno scrittore affermato, emotivamente lontano dalla moglie Jeanne Moreau. Difficoltà nelle relazioni uomo-donna, incomunicabilità, sofferenza, conti da chiudere con la storia e un po’ di sesso per ingannare l’angoscia. In generale, nella luce dei film che vanno per la maggiore sul farsi dei Sessanta, l’Italia appare già dimentica o stanca di volare nel blu dipinto di blu sospinta dalle braccia spalancate di Domenico Modugno a Sanremo 1958: “Penso che un sogno così non ritorni mai più…”.
Su e giù, euforia e depressione, allegria rituale e tristezza sostanziale. L’avventura di Antonioni ruota intorno alla sparizione senza motivo dell’enigmatica Lea Massari. La grande guerra di Monicelli riserva il riscatto di Gassman e Sordi, campioni della viltà nostrana che diventano eroi straccioni dinanzi al plotone di esecuzione austriaco. Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi di Mario Mattoli inscena un’esilarante querelle tra consuoceri, mentre il grande comico napoletano sta già girando Totò, Peppino e la Dolce vita.
Lontani sono i toni rosa della Lollo Bersagliera rigogliosa e del maresciallo De Sica che in Pane, amore e fantasia (1953) sbancarono il botteghino, inaugurarono un genere e costarono allo stesso De Sica e al regista Luigi Comencini roventi accuse di alto tradimento del neorealismo di Rossellini e Visconti, dell’impegno a favore del popolo, con la consueta lungimiranza della sinistra occhiuta. Invero, è quanto da sempre ci riesce meglio: raccontare miserie e aspirazioni alla “nobiltà”, la ricorrente vocazione provinciale alla Bella vita, per dirla con il felice esordio di Paolo Virzì (1994) centrato sulla prorompente Ferilli in fuga dal marito operaio. Insomma, sappiamo sorridere amaro sull’Italia in bolletta e che sogna ad occhi aperti.
Propensione “berlusconiana” ante litteram? Carattere carsico del Paese? Basti pensare a Lo sceicco bianco di Fellini (1952), dove la sposina Wanda (Brunella Bovo), a Roma per l’anno santo, si lascia irrorare dallo sguardo liquido e birbante del “solito” Sordi: “La felicità” – la imbonisce lui a bordo dell’improbabile caicco a vela prima di buscarsi la randa sulla capoccia – “proviene dal ricordo di una vita posteriore… anteriore… Ma de che?”. Tuttavia la gita in barca non basterà a farle mollare il corso matrimoniale. Dice Wanda al telefono: “La vera vita è quella del sogno. Ma a volte il sogno è un baratro fatale”. E il portiere d’albergo infingardo le risponde: “Baratro?… B come Bologna? Vuole ripetere?”.
«Ogni cor si rallegra, in ogni lato». Alla maniera del poetare di Leopardi, periodicamente festeggiamo: passata è la tempesta, odo checchi far festa. Da ultimo sugli schermi s’è levato il Sole a catinelle, come se piovesse. Un fenomeno al botteghino con incassi record intorno ai 55 milioni di euro. Checco Zalone, all’anagrafe Luca Medici, è una macchietta esilarante, incarna d’istinto un principio della comicità studiato da Bergson: l’inadeguatezza rispetto al mondo, ovvero l’essere disadattato ed eversivo in un contesto sociale. L’ultimo film, al pari dei precedenti diretto da Gennaro Nunziante, è una commedia sulla crisi, nell’Italia dei ricchi troppo ricchi (ovvero, “i comunisti”) e dei poveri sempre più poveri. Il riscatto? Più che in una impossibile ascesa sociale, è riposto nella famiglia ritrovata e naturalmente nella risata catartica. Nel Belpaese accade che una parente molisana preferisca star male piuttosto che spendere i soldi della bolletta elettrica. Checco ha la soluzione, staccare la spina o, almeno, minacciare una salubre “eutana-zia”. Metafora? Metafora.
Bando agli equivoci pauperistici, non foss’altro per evitare il linciaggio a botte di popcorn e sberleffi da parte delle truppe azzalonate. Il responso del mercato è sempre rilevante e talora i successi clamorosi rivelano un che dello spirito dei tempi (intanto tempi televisivi, del cabaret catodico donde Checco proviene). Non altrettanto pacifico è concordare con la “beatificazione” del fenomeno che sconfina nella liturgia del ridicolo. Davvero la pugliesità di Zalone è sovversiva? Perché mette in parodia i radical chic milionari con la maglietta di Che Guevara? Mah. In Sole a catinelle echeggiano stralci di un’altra Italia, di stagioni superate e sottilmente rimpiante. Checco è un emulo di Totò fuori tempo massimo, corrisponde al diffuso “Berlusconi” (tra virgolette) che da vent’anni esprime una struggente nostalgia canaglia per la gioventù del Belpaese invecchiato male. Una Dolce Vita ormai perduta, speculare all’archetipo dei Poveri ma belli e dei Soliti ignoti (no, non s’è detto “idioti”). Il primo Benigni e Troisi, mancato vent’anni fa, sono stati fra gli ultimi a rimescolare le carte. Ricordate Ricomincio da tre? “Perché, u’ napoletano po’ solo emigra’, nun po’ viaggià?”. Dopodiché, sotto sotto, in ogni comico cerchiamo la faccia nascosta del Gabibbo.