Reset ha pensato di chiedere ad alcuni esponenti politici, professori, intellettuali di area democratica alcune opinioni per mettere a punto un piccolo “dossier sul Pd”, suggerendo loro una traccia di ragionamento, a partire da un canovaccio di domande. Alcuni di loro hanno scelto di rispondere direttamente ai singoli quesiti posti come se si trattasse di un’intervista scritta, altri li hanno usati invece come spunto o guida per un loro ragionamento compiuto.
Oggi risponde il professor Salvatore Vassallo, docente di Scienza Politica e Politica comparata all’Università di Bologna.
Renziani, bersaniani o cos’altro? Nel Pd le prime due cordate appaiono gli estremi di molte altre anime e anche umori. Ma è l’eterna querelle tra i due poli che rischia di mettere al centro ancora una volta le divergenze facendo perdere di vista la priorità: che è l’allargamento del consenso. Cioè la necessità di andare oltre il proprio confine di appartenenza: ovvero, conquistare anche parte del consenso che ci potrebbe essere nel campo avverso oppure rimestare sempre nello stesso spazio, “a sinistra”, che più di tanto non offre.
Le ultime elezioni sembrano aver dimostrato che, elettoralmente parlando, non c’è domanda e mercato di “più sinistra”. Da Ingroia a Vendola, il successo non c’è stato. Però ogni volta che ci si pone l’obiettivo di allargare il consenso – non necessariamente sul fronte “di sinistra” – il Pd entra in fibrillazione.
Allora la domanda è: un Pd capace di conquistare lo spazio politico probabilmente vincente, andando oltre se stesso, uscendo dai propri confini, è comunque destinato a spaccarsi? A non tenere più insieme le sue anime e componenti?
La cattiva sorte elettorale toccata, appunto, a Vendola, Ingroia, ma anche a Monti, nonostante il grande ruolo che aveva giocato nei mesi precedenti, dice che lo spazio per ulteriori partiti è quasi inesistente. Molti italiani sono estenuati da una politica che biasimano e pronti perciò a disertare le urne o a votare per Grillo. Ma quelli che non decidono di chiamarsi “fuori dal sistema”, votano con l’obiettivo di scegliere il governo. Sperando che i partiti per cui votano siano in grado di mettere insieme un governo decente di legislatura. Sono tutti, gli uni e gli altri, sempre meno “identitari”. Il Pd può perdere disastrosamente come è capitato quando si è affidato a Bersani. O può vincere, adottando una linea e una leadership più adeguata. Ma ormai tutte le sue componenti interne sono ben consapevoli che non può rinunciare al ruolo di partito «a vocazione maggioritaria». Ovviamente questo non vuol dire che ci si può aspettare una generale smobilitazione delle correnti e una totale condivisione.
E come si può ovviare a questo continuo rischio di scissione? Che finisce anche per diventare la classica spada di Damocle che paralizza il partito, la sua dialettica interna e delle idee, la sua azione politica e programmatica?
Per le ragioni dette prima, non credo che il Pd corra effettivamente un rischio di scissione. Le componenti meno strutturare, ma con idee più forti, sanno che solo rimanendo dentro possono coltivare realisticamente l’ambizione di portare quelle idee al governo. Valeva per il Veltroni del Lingotto come vale per Renzi. La componente più strutturata ha oggi idee invecchiate e confuse, come ha dimostrato la segreteria Bersani. Difficile immaginare che possa costituire una propria ditta. Le correnti personali prive di una visione che si sono dimostrate abilissime di volta in volta a ricollocarsi, ottenendo sempre più in termini di incarichi di quanto hanno portato in termini di idee e consenso, fuori dal PD non avrebbero alcun peso. Più che un rischio di scissione vedo quindi il rischio di un perenne ciclo autodistruttivo. Per il quale la “macchina delle correnti”, di fronte al pericolo di una cocente sconfitta elettorale (come nel 2007) o a ridosso di un plateale fallimento (come oggi), si predispone ad accettare un leader popolare, dotato di un progetto convincente, facendo apparentemente un passo indietro. Salvo poi rimettersi in moto per riconquistare le posizioni perdute, senza avere un disegno alternativo.
E davvero un partito non carismatico, non leaderistico, acefalo e scialbo è meglio di un partito con un leader forte e caratterizzato? Di cosa ha paura il Pd? In fondo il modello del “partito cum leader” non deve essere necessariamente quello berlusconiano che tanto sembra spaventare Bersani, ad esempio.
Che il Pd, come ogni grande partito democratico, abbia bisogno di comunicare ai cittadini una visione chiara attraverso un leader forte non c’è dubbio. D’altro canto la retorica contro la personalizzazione e il leaderismo è spesso contraddittoria. A volte è combinata con la nostalgia per il modello organizzativo del Pci, un partito nel quale i leader erano tutto fuorché deboli e addirittura circondati da un’aura sacrale. E lo stesso Bersani, che si è rappresentato come l’antitesi del “modello leaderistico” ha investito parecchi soldi in campagne di comunicazione centrate sulla sua faccia, ed ha gestito diverse delicate fasi della sua strategia politica decidendole insieme ad un piccolo gruppo di fiduciari. La differenza tra il Pd e il Pdl, anche da questo punto di vista, non è piccola. Il Pd è stato pensato come un partito con leadership forti e contendibili. Il suo Statuto è stato costruito per dare corpo a questo principio. Il Pd non sarà mai “il partito di Renzi”, così come non è stato “il partito di Veltroni” o “il partito di Bersani”. Ma lo Statuto è stato pensato anche perché il Pd non sia “il partito dei soliti noti”, dei capicorrente che si riciclano e si ricombinano all’infinito.
Nella generale disgregazione dei partiti e della forma-partito per come l’abbiamo conosciuta nel Novecento, esiste ancora la speranza che possano formarsi due poli, distinti e contrapposti, che competano alla pari per conquistare il consenso degli elettori e, dunque, anche la guida del governo? Questo Paese non avrà mai una Destra e di una Sinistra normali che si alternino al paese sulla base del mercato dei consensi o dovranno coesistere insieme – e per quanto? – sulla base dell’interesse supremo del Paese?
Dipende dalla qualità degli attori e dall’adeguatezza delle regole istituzionali. Due cose legate perché la “qualità degli attori politici”, il loro modo di porsi, dipende anche dalla struttura della competizione elettorale: se sono indotti ad adottare tattiche “centrifughe”, che estremizzano le posizioni, oppure tattiche “centripete”, che portano a mostrarsi pragmatici e a moderare i toni. Nel breve queste due condizioni potrebbero migliorare se il PD, con Renzi candidato, dimostrasse che il tempo politico di Berlusconi è scaduto, che l’elettorato è mobile e che il centrodestra potrà tornare a competere solo dandosi una leadership ugualmente capace di attrarre elettori “mediani”. Se poi Renzi avesse una agenda istituzionale coerente, di impianto squisitamente maggioritario, a cui il centrodestra non possa dire di no, almeno in pubblico, sarebbe più facile chiudere il cerchio con regole che stabilizzino quella dinamica.
Perché questa normalità stenta ad essere raggiunta? È il passato che non passa perché è più forte e radicato di qualsivoglia possibilità di cambiamento? Ma radicato in chi, poi?
È sicuramente radicato nelle convenienze di una buona parte del ceto politico ancor oggi attivo. In alcuni, soprattutto a sinistra, perché abituati dai tempi della Prima Repubblica a manutenere un elettorato di nicchia, più o meno grande, piuttosto che a conquistare nuovi consensi sulla base di un programma di riforme. In altri, a destra, perché condannati dal codice genetico del PdL a difendere gli interessi extra-politici del leader.