Al di là delle caratteristiche personali i tre candidati giunti al voto degli elettori l’8 dicembre esprimevano tre posizioni molto chiare sul ruolo della politica nella società, sul modello di organizzazione del partito e sulla sua funzione nel sistema politico. Gianni Cuperlo, come dimostra anche lo scarto molto rilevante nei consensi nel passaggio tra iscritti ed elettori, rappresentava, con grande spessore personale, la linea del partito introverso, di sinistra tradizionale, di orgoglio dell’appartenenza socialdemocratica di matrice Pci, con un legame di ferro coi sindacati, in questa fase storica a cinghia di trasmissione capovolta a favore del sindacato.
Un partito per sua natura adatto a un sistema proporzionale (come nella retorica del partito-società di Barca) o, comunque, nel caso migliore alla ricerca di alleati centristi pre o post-voto in grado di condurlo al Governo per non correre il rischio di vegetare all’opposizione stile Old Labour. Uno schema già sperimentato con la diarchia D’Alema-Prodi e rivelatosi generatore di un equilibrio necessariamente instabile e di politiche tutt’altro che di cambiamento.
Giuseppe Civati rappresentava un’uscita per così dire ‘movimentista’ dalla crisi della sinistra di matrice Pci, prima descritta. Per il Pci la sicurezza dell’obiettivo finale (la ‘società socialista’) come ben fa capire l’ultimo libro di Macaluso, favoriva una notevole moderazione nei mezzi e nei tempi (se l’obiettivo finale è certo le forzature sono controproducenti). Venuta meno la certezza dell’esito o si riformula l’identità in termini post-ideologici ma sempre con cultura di governo, e quindi la moderazione si può legare alla nuova comprensione della società complessa non fatta più di rigidi blocchi sociali, come accaduto per l’elettorato delle regioni rosse spostatosi in massa su Renzi, oppure ci si libera della moderazione andando verso il movimentismo, come nel caso di Civati. Una variante anch’essa minoritaria, anche se apprezzata da minoranze intense, specie giovanili. In ogni caso minoranze di nicchia.
Mentre la linea Cuperlo era quella della minoranza identitaria e sindacalizzata, quella di Civati era la minoranza effervescente di molti esclusi dalla politica tradizionale. Due linee di fuga del tutto diverse e che sono comunque presenti nei partiti del centrosinistra europeo. Contribuiscono ai loro successi se restano però rigorosamente minoritarie e sono messe nelle condizioni di non esercitare alcune potere di veto.
Matteo Renzi ha impersonato, il futuro ci dirà esattamente con quale spessore, il rilancio della linea del partito a vocazione maggioritaria, linea che non presenta un volto diverso tra dentro e fuori, rassicurante per i militanti e mobilitante per gli incerti (come nel ricordato dualismo D’Alema-Prodi), ma che segna la vittoria della linea estroversa. Infatti era l’unico candidato che, in coerenza con lo Statuto, credibilmente puntava anche alla premiership. Le primarie sono aperte e sono un nome non abusivo perché il segretario, dentro una logica di democrazia governante, è l’unico credibile candidato Premier, altrimenti l’apertura non avrebbe senso e così pure il nome.
Come nella svolta post-conciliare la Messa è ora in italiano e il celebrante si rivolge in faccia agli elettori anziché verso l’altare, i collateralismi rigidi sono recisi e la proposta non si limita alle nuove minoranze escluse. Il partito è ‘piglia-tutti’ nella sua accezione migliore, collegata al consenso sulle priorità programmatiche e sulla leadership che indissolubilmente le incarna. Senza leader non c’è partito di governo. Senza partito non c’è maggioranza di governo.
Ovviamente questo modello di partito vive e prospera in una democrazia competitiva come lo sono le principali democrazie parlamentari, in cui di norma il rapporto fiduciario parte dal voto degli elettori, il mandato elettorale, il voto il cui carattere decisivo è favorito da alcuni incentivi elettorali e istituzionali. Di per sé il fatto che le formule di governo rispecchino uno schema bipolare, non bipartitico ma comunque duale, nulla tolgono al fatto che nei partiti a vocazione maggioritaria (quelli che strutturano intorno a loro i due poli) la leadership interna e quella esterna coincidano. Altrimenti verrebbe vanificata la connessione stringente che deve esservi tra consenso, potere e responsabilità. Non siamo più, per fortuna, in una democrazia bloccata, dove la guida del Governo doveva ruotare tra i capicorrente del partito di maggioranza relativa e i segretari dei partiti minori. Anche le decisive riunioni del Consiglio europeo devono vedere la presenza del Presidente del Consiglio italiano con standard di durata comparabili agli altri Paesi di uguale dimensione, cioè ad legislaturam. Da qui la priorità assoluta della riforma elettorale e costituzionale nel senso della democrazia governante.
In questa cornice sembra avere poco senso anche la querelle sull’adesione a un partito il Pse, che in termini reali è una confederazione molto debole tra partiti nazionali e la cui vita effettiva è concentrata nel lavoro parlamentare comune a Strasburgo e Bruxelles. Avendo il Pd già deciso di fare gruppo coi socialisti, come era inevitabile (i popolari europei sono rigorosamente a destra del centro, i liberali sono eterogenei sull’asse destra-sinistra) il Pd è già inserito in quella dinamica. Fare il passo avanti dell’adesione al partito non modifica in nulla le questioni sostanziali: il Pd è un partito di centrosinistra che per ragioni storiche italiane non usa l’aggettivo socialista, come accade del resto alle principali forze del centrosinistra mondiale. Sta già dove deve stare ed è più avanti di altri. Saranno i partiti socialisti a dover camminare sulla via del cambiamento.