Le elezioni europee hanno consegnato alla politica un problema per certi versi inatteso, ma di cruciale importanza per il futuro della democrazia in Europa. Si tratta della scelta del nuovo presidente della Commissione europea. La posta in gioco è molto più alta del destino delle persone in lizza, perché riguarda la ridefinizione degli equilibri di potere tra il Parlamento europeo e il cosiddetto Consiglio europeo (Eurosummit), ossia l’informale consesso dei capi di stato e di governo dell’Unione. E tocca assetti istituzionali molto delicati su cui poggia buona parte del potere di Angela Merkel.
Nell’ultimo decennio, soprattutto nella fase più recente segnata dalla crisi finanziaria e del debito, i summit dei capi di stato e di governo hanno acquisito un potere politico pressoché esclusivo e ormai ufficializzato con la formula del cosiddetto metodo intergovernativo. Ciò significa che i capi di governo riuniti nel Consiglio europeo sono diventati di fatto il vero potere esecutivo dell’Europa, ai danni del legittimo organo esecutivo: la Commissione europea. Questo metodo ha inoltre ridimensionato il ruolo e la credibilità del Parlamento europeo perché ha anteposto sistematicamente gli interessi nazionali a quelli dell’Europa nel suo complesso.
Con le elezioni appena svoltesi il pendolo potrebbe spostarsi nuovamente a favore del Parlamento. Il trattato di Lisbona del 2009 prevede infatti che il presidente della Commissione europea non sia più scelto solo dal Consiglio europeo. La norma, che si applica in questi giorni per la prima volta, assegna ai capi di governo il potere di proporre un candidato alla presidenza della Commissione alla luce dei risultati elettorali, e riserva poi al Parlamento il compito di eleggerlo (o respingerlo).
Probabilmente questa nuova procedura, da sola, non sarebbe bastata a imprimere una svolta alla politica di Bruxelles se i partiti socialisti europei, con una geniale intuizione politica, non avessero deciso di eleggere un proprio comune candidato alla guida della Commissione, coll’impegno esplicito a votarlo in caso di vittoria. In questo modo i risultati elettorali, di cui i capi di governo devono tener conto, non comprendono più solo le percentuali ottenute dai singoli partiti, ma anche il nome del candidato vincente nella corsa alla presidenza della Commissione. Questa mossa imprevista dei socialisti ha innestato nelle altre famiglie politiche europee una reazione a catena difficilmente controllabile. In primo luogo nessun gruppo si è potuto rifiutare di seguire l’esempio socialista. La prossimità delle elezioni e il timore di una bassa affluenza al voto hanno indotto quasi tutti i politici (eccetto i britannici, gli ungheresi e pochi altri) ad accettare la nuova formula che, di fatto, attribuisce agli elettori il potere di scegliere, con il proprio voto, il presidente della Commissione europea. Inoltre la scelta dei socialisti e dei liberali di nominare candidati di alto profilo politico (Martin Schulz e Guy Verhofstadt) ha impedito ai popolari di persistere nella consueta prassi di affidare le cariche europee a personaggi di scarso rilievo. Angela Merkel non ha rinunciato, nei mesi scorsi, al tentativo di imporre al partito popolare un candidato facilmente controllabile (il lettone Dombrovskis). Ma alla fine, anche in questa famiglia politica, ha prevalso una candidatura forte come quella di Jean Claude Juncker. Il risultato è che oggi tutti i candidati delle tre maggiori formazioni politiche europee sono politici di rango e convinti federalisti.
Da qui le resistenze di questi giorni espresse da Angela Merkel e dagli altri difensori del metodo intergovernativo. Sull’europeismo di Merkel è inutile farsi illusioni. La sua politica non ha nulla a che vedere con gli ideali che avevano ispirato l’azione di Adenauer, Schmidt o Kohl. Mentre questi vedevano nell’Europa un grande progetto solidale da costruire in comune, per Merkel l’Europa è una realtà da gestire. Il suo ruolo è quello di una semplice lobbista degli interessi del proprio paese, e in ciò essa interpreta ed alimenta il riemergere di una coscienza nazionale tedesca che dalla fine della guerra sembrava definitivamente sepolta. La profonda crisi che attraversa l’Europa ha favorito anche in altri paesi la nascita di tendenze regressive, spesso cavalcate da movimenti populisti. Se la Germania è meno afflitta da formazioni populiste è perché in un certo senso non ne ha bisogno. Nei suoi modi gentili e misurati, nel linguaggio così semplice che sembra rivolto a dei bambini, Angela Merkel esprime il populismo sublimato dei vincenti dell’Europa neoliberale: inclusivo e solidale verso i propri elettori ma inflessibile e divisivo verso gli europei che non possono sanzionarne l’operato col voto. Un europeismo dell’industria e della grande finanza tedesca, legittimato con inspiegabile successo da una grottesca narrazione della crisi che trasforma i paesi dell’Unione in macro-soggetti morali da premiare o punire.
Con l’imminente elezione della nuova Commissione europea lo strumento egemonico dell’europeismo intergovernativo potrebbe incepparsi. Il motivo è semplice. La Commissione detiene quel potere di iniziativa nel processo legislativo che manca ancora al Parlamento. Una sintonia politica tra queste due istituzioni, accompagnata da un presidente autorevole, potrebbe restituire agli europeisti quell’iniziativa politica che negli ultimi anni è stata loro sottratta dal metodo intergovernativo.
È difficile prevedere l’esito di questa battaglia. In Germania, che a causa delle esitazioni di Merkel si trova al centro del ciclone, la sfera pubblica si è mobilitata con un’ondata di indignazione. Il telegiornale del primo canale (ARD) ha accusato apertamente Merkel di truffa ai danni degli elettori, il settimanale Spiegel le rimprovera di incarnare un pericoloso ritorno al nazionalismo, e il filosofo Jürgen Habermas sostiene che ignorare il mandato degli elettori significa colpire al cuore la già fragile democrazia europea. Sull’altro versante il Financial Times, non senza una dose di involontaria comicità, parla di un colpo di mano del Parlamento contro i capi di governo, mentre la Frankfurter Allgemeine e la Zeit rivendicano il diritto dei premier di governare l’Europa sulla base dei propri interessi nazionali. Anche sulla scena politica europea il confronto è apertissimo, e per la prima volta il fronte è ben riconoscibile da tutti. Dalla parte intergovernativa c’è il premer Cameron, che minaccia di portare il Regno Unito fuori dall’Unione se il federalista Juncker sarà eletto, e Merkel che usa il ricatto britannico per nascondere la sua inconfessabile avversione per il candidato della sua stessa famiglia politica. Anche il suo recente sostegno promesso a Juncker va letto più come una capitolazione di fronte all’opinione pubblica tedesca e alle pressioni dell’alleato di governo socialdemocratico che come una scelta convinta. Ai due si aggiungono i premier di Ungheria, Olanda e Svezia uniti nel rivendicare il proprio diritto di tirare ancora le fila della politica europea nelle segrete stanze. Sul versante federalista ci sono numerosi popolari di diversi paesi (compresa una nutrita componente di democristiani tedeschi di vecchia scuola) e i leader di molti altri partiti, come Hollande, Schulz e lo stesso Tsipras, che, pur essendo di una parte avversa, ritengono paradossale che i popolari, dopo aver fatto la campagna elettorale per Juncker e averla vinta, discutano ancora se sia il caso di affidargli davvero la guida della Commissione. Per evitare un affronto agli elettori d’Europa Cohn Bendit arriva a proporre ai verdi di mettere i propri voti a disposizione del legittimo vincitore delle elezioni.
In tutta questa incerta vicenda l’Italia si distingue, ad una settimana dal voto, per il suo silenzio. Il governo Renzi, forte del mandato ricevuto, rivendica giustamente un ruolo guida in Europa, ma rischia di perdere un’occasione importante per far valere la sua posizione. In questa fase limitarsi ad invocare un cambio di verso o cercare di contrattare posizioni di rilievo può non essere sufficiente. Per riacquisire un ruolo europeo da protagonisti occorre che i democratici italiani facciano sentire la propria voce anche sulle grandi questioni di principio che decidono il futuro dell’Europa. Lo scontro per l’elezione del presidente della commissione è una di queste, e sta in agenda subito, nelle prossime settimane. Per una grande forza politica europeista non può che valere ciò che vale in ogni democrazia: chi è stato scelto dalla maggioranza di 370 milioni di elettori per diventare presidente di una delle maggiori istituzioni europee non può diventare merce di scambio dei governi. Calpestare questo principio significa assumersi la responsabilità di chiudere quello spiraglio di vera sovranità europea che queste elezioni hanno aperto. Del resto, quello del mercato delle vacche è un gioco che altri in Europa padroneggiano meglio degli italiani. Chi vuole rinnovare davvero le politiche europee ha oggi la grande occasione di farlo dalle loro fondamenta, cominciando a smantellare quel metodo intergovernativo che dopo Kohl si è imposto abusivamente al posto di quello comunitario. Sostenere chiaramente Juncker, e con lui il diritto degli europei di vedere rispettata la scelta fatta, può forse comportare nell’immediato una parziale riduzione degli spazi di negoziazione. Ma per una politica che pensa al lungo periodo non dovrebbero esserci dubbi. Oggi la causa italiana non può che coincidere con quella dei cittadini d’Europa.