Come costruire un capitalismo buono

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Il capitalismo non è un fine in sé. La sua legittimazione deriva dal fatto che esso rappresenta la miglior soluzione concepita finora per organizzare la società e l’economia in modo tale che il maggior numero di persone possa vivere un’esistenza di valore. Un capitalismo «buono» e ben strutturato è fonte di grande ricchezza e nuove opportunità. Nel 2012, tuttavia, il sistema – al culmine di una crisi trentennale – ha cominciato letteralmente a disintegrarsi. I presupposti fondamentali del particolare modello di capitalismo affermatosi fino al 2008 sono stati seriamente compromessi. Le banche si sono sovraesposte per alimentare un boom dei consumi finanziati dal debito in un contesto caratterizzato da crescenti disuguaglianze. Così, il contratto sociale si è logorato e le aziende hanno adottato un approccio sempre più miope e cinico nei confronti dei loro clienti, dei loro dipendenti e del loro stesso obiettivo d’impresa. Il capitalismo «cattivo» aveva trovato la sua nemesi.

La crisi si manifesta a più livelli. È in parte intellettuale, in parte economica e in parte morale. La componente intellettuale risiede nell’idea che il capitalismo e i liberi mercati possano non solo impiegare risorse minime per realizzare il massimo della produzione, ma anche gestire il rischio esistenziale in piena autonomia. L’idea di poter affrontare un futuro incerto senza alcun tentativo di mitigare o socializzare quel rischio si è rivelata una fandonia. Le banche non potevano gestire il rischio connesso al vertiginoso aumento delle loro attività senza alcun sostegno da parte dello stato, non più di quanto gli asini siano in grado di volare. Si è lasciato che le attività bancarie crescessero fino a un quintuplo del Pil della Gran Bretagna, nella convinzione che i nuovi strumenti, presentati come innovativi, avrebbero circoscritto il rischio al sistema finanziario. Salvo poi scoprire che le vecchie regole erano ancora indispensabili e che il sistema finanziario doveva ricorrere al salvataggio dello Stato, a fronte di un crollo della fiducia non solo da parte dei risparmiatori, ma anche tra le banche stesse.
Poi c’è la dimensione strettamente economica. Si è avuto un forte sovrainvestimento nella produzione di beni e servizi basata su un’espansione illimitata del credito per la quale non c’è più mercato. L’eccesso di indebitamento privato che ne risulta affliggerà la Gran Bretagna – e quasi tutti i paesi occidentali che hanno commesso errori analoghi, anche se meno gravi – per almeno un decennio.

Ma il problema è anche di ordine morale. Troppi imprenditori, accecati dal miraggio di un boom dei loro compensi accompagnato da un insostenibile aumento dei profitti, hanno perso di vista lo scopo morale e la responsabilità sociale delle rispettive aziende. Il capitalismo si basa sulla delicata coesistenza di valori apparentemente contraddittori. I capitalisti tutelano gli interessi delle loro attività e al contempo vanno all’ossessiva ricerca del profitto; fanno affidamento sulla solidità di un settore pubblico che promuove la scienza, l’istruzione e le infrastrutture pur incarnando un individualismo rampante; hanno bisogno di una forza lavoro flessibile e adattabile, ma al tempo stesso impegnata, fedele e preparata. Nella fase pre–2008, i valori pubblici e sociali di questa equazione, paradossalmente indispensabili per un capitalismo forte, sono stati sistematicamente infranti.

Per decenni il mondo occidentale è stato indotto a credere, soprattutto dai conservatori americani, che la prospettiva darwiniana del «cane mangia cane» – che in realtà non corrisponde al processo di adattamento della specie teorizzato da Darwin – fosse il modello attorno al quale organizzare un capitalismo rampante. Ne è invece risultata una grave perdita di fiducia sia nei confronti delle istituzioni pubbliche che di quelle finanziarie. L’opinione pubblica è allibita di fronte all’enormità dei bonus pagati alle migliaia di dipendenti di quelle stesse istituzioni finanziarie che hanno causato danni immensi. Le disuguaglianze hanno già superato gli esorbitanti livelli dell’Inghilterra edoardiana e aumentano in modo incontrollato, alimentate da un nuovo disprezzo per il concetto di società e per tutti coloro che stanno in fondo alla scala sociale e meriterebbero di essere svantaggiati poiché non si impegnano abbastanza. Per la prima volta, tuttavia, si registra una diffusa e crescente preoccupazione legata al fatto che la frammentazione sociale si traduce in un apartheid fisico, con comunità chiuse e un’edilizia popolare gravemente carente. I disordini dell’estate del 2011 hanno avuto molteplici cause, ma una delle principali è sicuramente l’aumento dell’esclusione sociale. Quel che è peggio è che lo Stato sembra incapace di proporre interventi correttivi; anzi, la macchina pubblica finanzia le retribuzioni dei ricchi, disfacendo così un contratto sociale già logoro. I problemi sociali vanno risolti con la repressione, non con un impegno illuminato.

In Gran Bretagna il settore pubblico è pericolosamente debilitato. I due principali partiti politici raccolgono nel loro insieme poco più del 60 per cento dei consensi, un dato in calo da decenni. Lo scandalo dei rimborsi spese dei parlamentari ha confermato negli elettori il sospetto che i loro governanti non siano meglio dei manager delle banche d’investimento o dei capitani d’impresa. La Commissione d’inchiesta Leveson sulle intercettazioni illegali del tabloid News of the World ha messo in luce come News International fosse diventata uno Stato nello Stato, i cui tentacoli si estendevano fino alla Metropolitan Police e nel cuore di Westminster e Whitehall, nel tentativo di favorire gli interessi commerciali della famiglia Murdoch. Nelle loro dichiarazioni pubbliche, o peggio ancora sotto giuramento alla Camera dei Comuni, gli alti dirigenti di News International hanno a quanto pare ingannato l’opinione pubblica e il Parlamento sulla loro conoscenza di queste prassi. Eppure hanno intascato liquidazioni pari a quelle di un qualsiasi Ceo rimosso per inefficienza.

La sfiducia nei confronti di chi occupa posizioni di potere è il principale motivo ispiratore del forte attivismo di base di questi ultimi anni, dal movimento Occupy a UK Uncut (un movimento per alternative ai tagli alla spesa pubblica voluti dal governo). Anche gli shareholder si sono uniti al coro di proteste con la cosiddetta «Primavera degli azionisti» e hanno riaffermato la loro forza collettiva votando contro i pacchetti retributivi di dirigenti di società come Aviva e Credit Suisse. E così si è innescato un nuovo e pericoloso circolo vizioso. La sfiducia genera sfiducia, per cui l’intero settore è tenuto in sempre minore considerazione – e, di conseguenza, diminuisce la propensione a investire e innovare, nonostante gli stipendi dei manager crescano a dismisura. Il che alimenta a sua volta ulteriore sfiducia. La veduta corta dei mercati finanziari si riflette direttamente nel processo decisionale a livello aziendale. Occorre un cambiamento, ma la capacità del sistema di rigenerarsi è sempre più debole.

Eppure, gli eventi del decennio scorso hanno dimostrato l’esistenza di una complessa interrelazione tra Stato, società e mondo degli affari. Quest’ultimo non è al di sopra dell’entità statale e della sfera sociale: ne fa parte, e richiede la partecipazione di entrambe a rischi e benefici. Non si tratta di un percorso a senso unico per cui i profitti vengono privatizzati e le perdite socializzate. La rilegittimazione del capitalismo richiede un processo decisionale più equilibrato e a lungo termine, nell’interesse di tutte le parti in causa. Il che presuppone a sua volta una limitazione del potere della finanza, in modo che essa sostenga il sistema imprenditoriale, invece di dominarlo, e dia più voce ai lavoratori. È questa la tesi che ho formulato negli anni Novanta in The State We’re In, e che lo scorso anno ho ribadito in Them and Us.

Troppo spesso gli imprenditori si sono dimostrati incapaci di autoregolamentazione e moderazione. E tuttavia continuiamo ad averne bisogno. Solo loro possono dar vita a un capitalismo diverso. Non si tratta di colpire il mondo degli affari indiscriminatamente, ma di fare in modo che sia regolato da princìpi morali più solidi, freni e contrappesi più forti e da una nuova rete di istituzioni a sostegno dell’assunzione di rischio, dell’innovazione e degli investimenti. Occorre riscoprire il ruolo del sociale e del pubblico nell’equazione a cui ho accennato. In breve, occorre un Capitalismo Buono.

 

L’esigenza di un’impresa responsabile


Leader e intellettuali di ogni orientamento politico oggi discutono della possibilità di un nuovo approccio all’organizzazione e alla gestione del sistema economico. Per rispondere a questa esigenza, gli imprenditori dovrebbero almeno riconoscere di essere parte integrante delle società in cui operano. Il capitalismo affonda le sue radici in due tradizioni: il protestantesimo individualistico della Riforma e l’affermazione della «sfera pubblica» di origine illuministica. Negli ultimi trent’anni anni si è assistito a un sistematico tentativo, per iniziativa del neoconservatorismo americano, di negare il ruolo dell’Illuminismo per concentrarsi esclusivamente sull’individualismo. L’assunzione del rischio individuale è stata posta al centro (o presunto tale) del modello economico occidentale, e il profitto a breve termine è diventato l’unico metro di misura del successo. Il concetto di «uomo economico razionale» si è sviluppato a partire da questo approccio intellettuale quasi-ideologico, assurgendo a dogma del sistema imprenditoriale occidentale. Di conseguenza, la maggior parte delle organizzazioni considera una priorità la creazione di condizioni che favoriscano l’autonomia manageriale, la massimizzazione del valore per gli azionisti e la mercificazione del lavoro, anziché il riconoscimento dell’interdipendenza tra impresa e società, o del ruolo delle finalità e del valore sociale all’interno dell’impresa stessa.

Non bisogna dimenticare, tuttavia, che alle prime organizzazioni imprenditoriali di rilievo – la Compagnia olandese delle Indie orientali, per esempio – fu concesso il privilegio della costituzione in società commerciali in cambio della garanzia di concreti benefici pubblici. Esse furono costituite, cioè, per una finalità da cui erano intente a ricavare profitti. Per la Compagnia olandese delle Indie orientali, l’obiettivo era quello di regolamentare il mercato esistente al fine di massimizzare i ricavi per le Repubbliche olandesi, impegnate a combattere i loro rivali e a impedire ad altre nazioni europee di penetrare nelle loro rotte commerciali. La Compagnia inglese delle Indie orientali fu costituita allo stesso modo. I profitti erano funzionali al raggiungimento di uno scopo.

La tradizione delle corporazioni che esprimono uno scopo commerciale con un valore pubblico e sociale è stata sviluppata da quei filosofi illuministi secondo cui sono l’interconnessione sociale e i rapporti all’interno della comunità a dare senso alla nostra vita. Per Rousseau, ad esempio, quest’ultimo può essere raggiunto attraverso la vita di comunità e l’interazione sociale, che consentono agli individui di maturare un sentimento di solidarietà in rapporti trasparenti con gli altri. Nel 1776 Adam Smith scrisse La ricchezza delle nazioni, seguita dalla Teoria dei sentimenti morali, e concepì le due opere come un tutt’uno. Il capitalismo non può essere disgiunto né dal senso né dai princìpi morali.

Prima della secolarizzazione della società moderna, la religione assolveva al compito di dare un senso alla vita delle persone esprimendo valori e princìpi morali in grado di tenere unite le comunità. Più di un secolo fa il grande sociologo francese Emile Durkheim sostenne che, contestualmente al declino della religione, il suo ruolo tradizionale di fonte di significato sarebbe stato sostituito dalle organizzazioni capitalistiche. Oggi il lavoro e le organizzazioni contribuiscono in modo ancor più decisivo a definire il nostro status sociale e lo scopo della nostra esistenza come individui.

Tuttavia, le teorie dominanti in materia di organizzazione aziendale non riconoscono questo vincolo, bensì pongono l’accento sulla razionalità dell’individualismo economico intesa come principio morale valido in sé, senza un contesto sociale di riferimento. E quando gli attori imprenditoriali e istituzionali negano la necessità di uno scopo di più ampio respiro, quel vuoto viene riempito dal mantra dell’efficienza, della flessibilità e della razionalità degli uomini e delle donne economici, il che alimenta un senso di alienazione, disadattamento e angoscia. A fronte di questo svuotamento morale, la corsa sfrenata al benessere materiale rimane l’unica fonte di senso: di qui la caccia a profitti sempre più esorbitanti. In seno alla cerchia dei super ricchi – dai Ceo alle star del football – nessuno ormai può spendere tutti i milioni che percepisce in busta paga; quel che la società non può concedersi, invece, è un segno di valore.

Troppo spesso le organizzazioni moderne non riescono a mettere gli individui in condizione di dare un senso al proprio lavoro. Perché ciò sia possibile, le stesse organizzazioni devono esprimere valori e finalità in cui i lavoratori si identifichino, in un certo senso legittimando e affermando il loro legame con le comunità di appartenenza e con l’universo morale a cui fanno riferimento. Con la deificazione del profitto e del valore per gli azionisti quali obiettivi strategici d’impresa, tuttavia, la «creazione di senso» va perduta.

L’appello per un capitalismo responsabile lanciato lo scorso anno da Ed Miliband è imperniato sull’idea che le organizzazioni moderne debbano trovare un equilibrio tra l’imperativo del profitto e la responsabilità sociale. Miliband auspica un capitalismo più virtuoso, improntato all’impegno per un’impresa produttiva, non al business fine a se stesso. E traccia una netta distinzione tra il «produttore», il «predatore» e l’«asset stripper»(chi acquisisce una società per poi frazionarla a fini speculativi, ndt). All’inizio il suo messaggio è stato oggetto di critiche e commenti scettici; nove mesi dopo, sono sempre più numerosi gli imprenditori e i politici che cercano a modo loro di dire le stesse cose.

All’atto pratico, tuttavia, non è così semplice tracciare una linea di demarcazione tra capitalismo buono e cattivo, poiché molte organizzazioni rivestono i loro gretti interessi commerciali con pretese finalità sociali di ampio respiro. Il caso Enron, per esempio, ha fatto balzare la questione dell’etica e della responsabilità sociale in cima alle priorità delle imprese. Prima dello scandalo, la responsabilità d’impresa era un principio «a combustione lenta», propugnato da molti ma praticato da pochi. Oggi è al centro di preoccupati dibattiti nelle sale di consigli di amministrazione europei e statunitensi. La governance aziendale, il ruolo dei direttori non esecutivi, la correttezza delle convenzioni in materia di revisione contabile e il codice etico dei lavoratori sono oggetto di un’analisi più attenta che mai.

Si tratta di una sfida, ma anche di un’opportunità. Oggi le aziende hanno la possibilità senza precedenti di riconquistare il ruolo di fonte di motivazione e, in quanto tali, di diventare parte della soluzione anziché del problema. In virtù del sempre più evidente valore pratico dell’impresa responsabile, occorre apprendere nuove regole del gioco che consentano alle organizzazioni di operare in modo tale da promuovere l’equità, la coesione sociale e il benessere – e, non ultimo, la sostenibilità nel lungo periodo.

 

Qual è il ruolo dei leader?

Se il futuro sta in un capitalismo buono o migliore, quale ruolo possono svolgere i leader? Nel 2004, molto prima delle sue ricerche sulla leadership di eccellenza, il panel annuale della Work Foundation dedicato al lavoro e all’impresa individuò cinque aree di business strategiche che le organizzazioni a performance elevata sanno di dover gestire con pari efficienza.

Per perseguire concretamente tali priorità occorre una leadership responsabile alla guida di un capitalismo responsabile. E occorrono leader che abbiano piena consapevolezza delle proprie responsabilità nei confronti sia dell’organizzazione sia della comunità, e che pongano i valori dell’illuminismo al centro del loro modello di gestione dell’impresa.

I leader hanno davanti a sé diverse sfide impellenti. In primo luogo, le imprese devono garantire un lavoro «positivo» e costruttivo a tutti i dipendenti.

Un buon datore di lavoro comprende che, a livello interno, le organizzazioni operano come ecosistemi e che i risultati aziendali dipendono in larga parte dagli sforzi dei singoli lavoratori vincolati allo stesso contesto sociale. Per accrescere l’«impegno dei dipendenti» occorre andare oltre l’obiettivo della massimizzazione della loro performance nelle otto ore lavorative. E per avere risultati aziendali eccellenti e modelli imprenditoriali competitivi occorre molto più che una semplice transazione di denaro in cambio di un minimo sforzo. I leader devono veicolare a tutti i lavoratori un messaggio semplice, autentico e convincente sulle finalità dell’organizzazione; in altre parole, devono essere «costruttori di senso». In assenza di tutto ciò, per i dipendenti è impossibile trarre un significato importante dal loro lavoro. Rispondere alle istanze dei singoli lavoratori rispetto a questo «patto» è una sfida ardua. Resta tuttavia indispensabile comprendere il nesso tra i livelli di impegno e i risultati aziendali e soddisfare l’esigenza individuale di un lavoro dotato di senso.

In secondo luogo, occorre che i leader aziendali rispondano con decisione alla forte e diffusa richiesta di equità e trasparenza nell’attività imprenditoriale, nella distribuzione dei compensi e nei rapporti interpersonali sul lavoro. Tutto ciò presuppone una maggiore apertura sul versante dei processi su cui si basano le decisioni e dei loro esiti. E presuppone il coinvolgimento dei dipendenti nelle decisioni che incidono sul loro futuro: in altre parole, occorre trattarli da adulti e da protagonisti del futuro dell’impresa. In The State We’re In ho sostenuto che le aziende tedesche, con i sindacati rappresentati nei consigli di sorveglianza e coinvolti nel processo decisionale mediante la «codeterminazione», rappresentino un modello a cui la Gran Bretagna dovrebbe ispirarsi, ferma restando la diversità delle nostre condizioni di partenza. Oggi ne sono ancor più convinto.

Un requisito indispensabile del capitalismo buono riguarda la proprietà delle aziende. Da due anni ricopro il ruolo di presidente della Ownership Commission, che ha raccolto dati sul successo di varie forme proprietarie. Le aziende britanniche dovrebbero essere più che semplici reti di contratti e adottare un modello di proprietà plurale, impegnata e orientata alla gestione responsabile, oltre che fondata sulla fiducia e sulla condivisione di obiettivi. La Commissione ha suggerito una serie di piccoli interventi che, nell’insieme, potrebbero trasformare l’attività imprenditoriale, con i direttori incaricati di perseguire finalità rispetto alle quali gli azionisti istituzionali siano più allineati.

Tutto il mondo imprenditoriale britannico è affetto dallo stesso problema: retribuzioni dei dirigenti fuori controllo, carenza di investimenti e scarsa innovazione. C’è un limite a quello che i leader possono fare da soli, e proprio per questo devono avere intorno a loro un ecosistema che li sostenga. Occorrono nuovi canali per indirizzare finanziamenti a lungo termine verso infrastrutture e imprese di piccole e medie dimensioni. Insieme a Kenneth Peasnell ho proposto un nuovo meccanismo in base al quale le banche aggregano nuovi titoli di credito in società veicolo che, con una garanzia limitata del Tesoro, potrebbero scambiarli in un nuovo mercato secondario per il debito delle PMI. Occorre individuare strategie più efficaci per convogliare il capitale privato a lungo termine nelle piccole imprese in rapida crescita: il Business Growth Fund è un buon punto di partenza, ma occorre fare di più e più in fretta.

Le piccole imprese devono essere coinvolte nei processi di libera innovazione delle grandi imprese. Perché ciò sia possibile, tuttavia, le grandi imprese devono essere più propense ad aprirsi a idee e collaborazioni esterne, contribuendo attivamente allo sviluppo di un ecosistema innovativo nel quale tali idee possano circolare in libertà. Il Big Innovation Centre sta lavorando alacremente per promuovere questi obiettivi – con profonde conseguenze per università, sistema finanziario, politica urbana, istruzione e formazione, ma soprattutto sul modo in cui gli imprenditori concepiscono l’innovazione – mediante l’apertura all’ecosistema imprenditoriale che ne è alla base.

Terzo, l’accresciuta complessità e trasparenza dell’attuale mercato globale, con l’effetto immediato delle operazioni commerciali sulla società, richiederà un più alto grado di interdipendenza, anziché di indipendenza, all’interno e tra le organizzazioni. La cooperazione deve conciliarsi con la competizione, e occorre un maggior senso di attaccamento alla collettività che all’individuo. Tali cambiamenti richiedono uno slancio di altruismo, e oserei dire di bontà, da parte degli imprenditori.

I ruolo dei leader consiste nello sviluppare l’ethos delle loro organizzazioni, e nel ricordare agli individui l’impegno generale e la legittimità da cui muove il loro operato. C’è bisogno di nuovi leader abbastanza coraggiosi da dar prova di queste capacità soft e collegare individui, organizzazioni e comunità in modo più costruttivo. Gli stessi leader dovrebbero cominciare a innovare, creare posti di lavoro e generare ricchezza responsabilmente.

Per molte organizzazioni la responsabilità aziendale non è altro che un simbolico tentativo di respingere le critiche alle loro deludenti performance e prassi commerciali. Ma sempre più spesso gli imprenditori si rendono conto che essere un buon «cittadino d’impresa» comporta più benefici del semplice evitare la pubblica gogna o il rischio di pubblicità indesiderata. In particolare, è ormai evidente che la reputazione di un’azienda sul piano della responsabilità e dell’etica imprenditoriale può incidere sensibilmente sulla sua attrattività come datore di lavoro. Un «brand» positivo in questo senso può fare una sostanziale differenza sia per i dipendenti sia per i clienti.

Il capitalismo buono non è una nozione soft o idealistica senza alcun nesso con la crescita o il successo imprenditoriale. È la chiave per migliorare le performance commerciali, requisito indispensabile per una solida ripresa dell’economia.

 

(Traduzione di Enrico Del Sero)

  1. L’articolo è pregevole sotto diversi punti di vista, tuttavia l’autore ripete il mantra del “protestantesimo individualistico della Riforma”, salvo poi ad indicare come modelli positvi quelli della Compagnia olandese delle Indie orientali, “a cui fu concesso il privilegio della costituzione in società commerciali in cambio della garanzia di concreti benefici pubblici”. L’Olanda della Compagnia delle Indie era un paese a cultura riformata. Dunque l’individualismo sfrenato che si vuole addebiatere al protestantesimo, in pratica, ha avuto finalità sociali, moderatrici degli apetiti “a-sociali” del capitalismo odierno. Guardare a paesi di cultura protestante, come i paesi scandinavi, servirebbe a attenuare giudizi triti e a denunciare il capitalismo senz’anima e senza etica che sta governando il mondo. Si dice che questo capitalismo affonda le sue radici in America, ma va detto che l’Italia di culturta cattolica segue a ruota e senza battere ciglio. Anziché demonizzare la Riforma protestantre, bisogna comprendere che quel movimento seppe riscoprire nel’evangelo di Gesù Cristo la buona parola, il buom messaggio per la liberazione dei singoli e dei popoli dalle false autorità religiose, politiche, economiche e per l’emancipazione dei singoli e delle società, dato che non esiste società senza singoli. L’avere abbandonoto o il non aver capito lo spirito della Riforma e dell’evangelo è alla base del degrado odiero.

  2. L’intervento di Hutton, al di là di alcune ingenuità lessicali (capitalismo buono anziché capitalismo responsabile) per noi latini-cattolici più sospettose, è decisamente interessante nel disegnare una sorta di mappa concettuale delle difficoltà, culturali e di pensiero oltre che di natura organizzativa, che stiamo vivendo. La de-responsabilizzazione etica delle organizzazioni, pubbliche e private, senza alcuna barriera legislativa o religiosa (tranne alcune eccezioni nei paesi del Nord Europa, dove resiste un certo spirito calvinistico del benessere comune coniugato ad un approccio politico più pragmatico che ideologico) ci ha condotto alle soglie di un baratro. Nel mondo anglosassone se ne parla, ci si confronta….e dalle nostre parti invece, che accade?
    Un saluto cordiale.

  3. Se capisco bene, la proposta implica un’adesion volontaria. Un leader che si convinca personalmente della bontà e utilità della proposta, si sforzerà quindi di applicarla. Secondo le regole del mercato, altri leader saranno invogliati a seguire l’idea perchè sarà capace di produrre frutti concorrenziali. In sostanza, il capitalismo buono dovrebbe nascere dall’interno del capitalismo cattivo. Credo quindi che l’obiezione di Migliorati sia perfettamente adeguata.

  4. Vi sono moltissime aziende (in particolare manifatturiere) che sono state “costruttrici di senso” nell’ambito di un capitalismo “buono”…. ma questo modello può valere ancora in uno scenario globale di aziende multinazionali guidate da leadership non identificabili e quindi socialmente “deresponsabilizzate” ??
    Saluti

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