L’articolo riproduce l’intervento tenuto dall’autore il 9 dicembre 2011 all’incontro “Background of Xenophobia” organizzato dall’associazione ResetDoc presso l’Institute for Public Knowledge della New York University.
Poiché l’America è il paese che più degli altri detta la direzione in materia di globalizzazione, e parlare di globalizzazione significa parlare di America, prenderò in considerazione soprattutto questa nazione. Quando si tratta di razzismo e alterità o di “noi” e “loro” siamo abituati a schierarci moralmente da una parte, e a ragione. Ma c’è un dilemma fondamentale non tanto per il liberalismo quanto per la democrazia, ossia che la democrazia abbia gravi problemi con l’alterità e il multiculturalismo. Questi problemi sono al cuore di tante dinamiche a cui assistiamo anche in Europa, e il modo in cui l’America ha cercato di sviscerarli potrebbe fungere da esempio.
La questione è che in un mondo interdipendente, modernizzante, multiculturalizzante e devoto al marketing, non sono solo il nazionalismo e altre forme di associazione tradizionale a essere lasciati alle spalle, ma anche la democrazia in sé. Nel mio saggio Jihad and McWorld suggerivo che la Jihad – un modo di pensare tradizionalista e fondamentalista, sia esso il fondamentalismo protestante o quello musulmano – si contrapponeva a un pensiero altrettanto antidemocratico radicato nella globalizzazione economica e nel commercio aggressivo, vale a dire il McWorld.
Quel saggio nasceva come risposta a Lo Scontro di Civiltà di Samuel Huntington che scindeva il mondo in due e suggeriva l’idea che l’Occidente fosse composto dai buoni mentre il resto– costituto secondo lui da una bizzarra all’alleanza di cinesi, arabi e la “quinta colonna” delle popolazioni di colore negli Stati Uniti– avrebbe opposto strenua resistenza alla modernità. Le paure di Huntington sottolineano il fatto che nel mondo economico e globalizzato moderno c’è un atteggiamento multiculturale aperto e potente. I consumatori non hanno identità etnica: i dollari sono verdi, non sono bianchi né neri. L’economia globale è logicamente, se non legalmente, schierata a favore della migrazione di forza lavoro e capitale in termini globali, e trae giovamento dallo spostamento delle persone a prescindere dal colore della loro pelle.
Il problema dell’immigrazione negli Stati Uniti non è legato solo a persone che oltrepassano i confini in cerca di lavoro, ma anche alle multinazionali che invitano queste persone ad accettare tali lavori senza copertura assicurativa e pensionistica e a salari molto bassi. È una logica binaria che procede in direzione della mobilità del capitale, dei beni e soprattutto della mobilità del lavoro. Sono questi fattori a determinare problemi apparentemente difficili da risolvere, almeno con le leggi attuali, per una nazione democratica tradizionale. Trovo sempre curioso il fatto che alcune persone insistano per non definire “illegali” questi lavoratori quando chiaramente sono entrati nel paese senza i documenti opportuni e quindi sono- almeno tecnicamente- effettivamente fuori legge.
Per una strana ironia, il punto non è che tale definizione è denigratoria per persone il cui comportamento potrebbe essere tecnicamente illegale, ma che dal punto di vista del capitalismo non sono affatto “illegali” ma agiscono all’interno delle logiche e delle regole associate al libero commercio e alla mobilità del lavoro. È per questo che dovrebbero essere definiti “lavoratori senza documenti” piuttosto che immigrati clandestini. Dall’altro lato della modernità– con la sua interdipendenza, la sua migrazione transculturale di lavoro e capitale e i suoi mercati globali– si trovano invece i vecchi Stati-nazione democratici che, nella maggior parte dei casi, sono stati funzionalmente e persino necessariamente monoculturali sin dall’inizio. La democrazia funziona molto bene in contesti monoculturali per una varietà di ragioni: perché in assenza di una comunità di consenso, di valori, etnicità, religione e linguaggio comuni e di solidarietà, è sempre più difficile fare sì che delle persone siano d’accordo senza il ricorso alla violenza.
Tutte le democrazie furono originariamente fondate sul consenso verso certi assunti identitari fondamentali, dei quali non si doveva neanche discutere. Nell’Agora, nella piazza cittadina o nel parlamento, i convenuti discutevano questioni economiche, utilitaristiche o strumentali; alcune di grossa portata come la guerra e la pace, altre tutto sommato inferiori, come la deviazione di un fiume, etc. Ma tutti questi argomenti venivano discussi tra persone che erano simili e concordi sui valori fondamentali, come i cattolici della Gallia che potevano dibattere se andare in guerra o meno, o i franchi che potevano contare su una religione, lingua e background comuni e poi prendere in considerazione le differenze che li separavano e usare le armi della democrazia per escogitare modi di vivere insieme in pace nonostante le differenze. Ma “nonostante le differenze” è una frase critica, con un certo peso: è facile dirlo quando le differenze non sono laceranti e in fondo si è d’accordo su gran parte delle cose. Ma l’intero percorso della modernità è quello di complicare, diversificare e aumentare il tasso multiculturale degli Stati-nazione che sono tradizionalmente monoculturali, e ciò ha determinato una pressione tremenda non solo sulla tolleranza liberale ma anche sulla democrazia in sé e sulla sua capacità di pervenire a una soluzione pacifica attorno alle diversità.
A volte dimentichiamo che la sociologia della democrazia Occidentale è coincisa a lungo con l’idea di creare una Gemeneide di sfondo, una comune, con la possibilità di stabilire solidarietà, coesione e capitale sociale affinché la collettività possa andare avanti.
Non voglio dire che il multiculturalismo rende impossibili questi sforzi, ma di sicuro li complica molto, perché è proprio nell’ambito della cultura che giace ciò che ci differenziano davvero. Marx e tanti altri hanno cercato di spiegare che a essere cruciali sono le differenze di classe ma considerando la storia, credo siano le nostre differenze culturali legate a religione, etnicità, lingua e storia ad aver dato luogo ai conflitti più aspri tra le nazioni. Possiamo immaginare la democrazia nella sua autentica forma occidentale legata alla polis ateniese, dove c’era un piccolo gruppo di uomini accomunati da quasi gli stessi interessi e capaci di prendere decisioni prudenti sull’espansione dell’impero economico mediterraneo o sull’andare in guerra contro Sparta oppure no. Dentro quella comunità, tuttavia, non c’erano molti elementi di discussione in grado di lacerare la società, anche se la tragedia greca insegna che anche una trama molto semplice può disfarsi di colpo.
Cosa ci dice questo? Che mettendo da parte le patologie e le tendenze illiberali delle nostre risposte al multiculturalismo (quanto affermato da Ian Buruma e da Seyla Benhabib è indubbiamente vero da questo punto di vista), di fatto il multiculturalismo è problematico per la democrazia, probabilmente più di quanto immaginiamo. I problemi che sta avendo l’Europa, superiori rispetto a quelli degli Stati Uniti, suggeriscono che nonostante la sua supposta cultura comune ampiamente pubblicizzata, in realtà l’Unione si ritrova a che fare con una serie di nazioni monoculturali che solo negli ultimi tempi hanno dovuto imparare a convivere con culture esterne che non capiscono del tutto, si adattano allo stile di vita del proprio paese e sembrano minare la solidarietà e il consenso di base attorno al quale queste società si sono costruite e hanno funzionato fino adesso. L’ingresso in Europa ha creato dei problemi sostanziali per queste nazioni e anche se le loro reazioni spesso sono state atroci, ciò non significa che non ci siano effettivamente delle criticità.
Gli Stati Uniti, pur affrontando lo stesso dilemma, hanno il barlume di una soluzione, e l’Europa dovrebbe prestarvi molta attenzione. Questo non significa che i deficit e le disfunzioni analizzate fino adesso non siano effettive negli Stati Uniti; non è solo Huntington a pensare che le minoranze siano la “quinta colonna” d’America capace di allearsi con gli arabi e i cinesi per distruggere la nazione. L’autore in questione ha espresso questa teoria in un libro straordinariamente popolare, laddove popolarità è sinonimo di pericolo. Tuttavia Huntington non è solo, in The Disuniting of America Arthur Schlesinger Jr. ha formulato la seguente frase: «il culto dell’etnicità ha delle conseguenze nefaste e trasformerà il melting pot americano in una torre di Babele. I legami di coesione della nazione sono già abbastanza fragili».
Stiamo parlando di un autore liberale, non di Huntington, che mette in discussione i limiti del multiculturalismo persino in una nazione melting pot come l’America: fin dove potrà spingersi? Quanta differenza possiamo assorbire pur restando democratici?
Ritengo che l’opinione di Schlesinger sia pericolosa e irresponsabile, ma serve a capire che persino un buon liberale multiculturalista è consapevole dei limiti di una democrazia, limiti che vengono testati in continuazione.
Ci sono dozzine di americani che sono favorevoli alla soluzione europea: chiudere le frontiere, lottare contro la differenza (vale a dire disinfestare la propria nazione dal multiculturalismo), non fare entrare i nuovi ed espelli quelli che già ci sono. Il problema, al di là di considerazioni etiche e morali, è che è impossibile prendere questa decisione nell’economica globale di oggi. Non può succedere e non accadrà; i milioni di clandestini che si trovano negli Stati Uniti non verranno mandati da nessuna parte, non importa chi siederà alla Casa Bianca. Qualora il candidato più misogino, pericoloso e ostile all’immigrazione venisse eletto Presidente degli Stati Uniti, questo non cambierebbe il numero di lavoratori illegali presenti nel paese nei prossimi quattro anni, che anzi aumenterà. Queste persone restano nel paese perché in un mondo interdipendente, le frontiere e le leggi sull’immigrazione non sono più capaci di controllare il flusso delle persone in movimento. Quindi la risposta reazionaria non è solo razzista ed eticamente perniciosa ma anche fallimentare.
La strategia della resistenza reazionaria è affermare «dobbiamo tornare indietro, ricatturare lo spirito americano che si sta smarrendo» come vorrebbe il Tea Party (guardando le loro facce è chiaro di quale America stiano parlando, una nazione essenzialmente bianca protestante e molto più legata alla campagna che alla città; è l’America che precede il multiculturalismo e in cui le persone di colori erano invisibili). Il punto è che queste persone hanno perso la battaglia molto tempo fa, quella composizione demografica è impossibile al giorno d’oggi. Tra vent’anni l’America sarà composta da una maggioranza di minoranze; in California questo dato è reale già adesso, mentre in Texas, Florida e New York lo sarà presto. Per quanto riguarda le persone con meno di sedici anni, gli Stati Uniti sono già una nazione dove le minoranze sono la maggioranza; l’America bianca e protestante è un miraggio.
Potete lamentarvi o accogliere la notizia con favore, la realtà intanto è questa.
Coloro che aspirano a un ritorno della vecchia America monoculturale– tutti comprendiamo il fascino e la nostalgia per ciò che è familiare– evocano un mondo in cui discutere dei problemi con i vicini senza preoccuparsi di divergenze religiose o razziali così evidenti, ma le politiche della paura adottate a tal scopo sono perdenti: l’unico motivo per cui questa posizione ha ancora una presa è che la nuova fascia demografica non ha ancora accesso al voto. Non appena giovani di colore, donne single, nuovi immigrati e comunità straniere tradizionali voteranno in una percentuale superiore a quella degli anziani bianchi di oggi, la politica statunitense rifletterà la sua composizione demografica.
Per una persona della mia età questa eventualità non cambia molto le cose, ma per il pubblico giovane significa prendere in considerazione una realtà demografica in cui le politiche rifletteranno una nuova definizione di multiculturalismo che entrerà a far parte della norma.
Ma quando arriverà quel momento ci sarà ancora una questione da chiarire per gli Stati Uniti e le altre società: quanto ci si può dividere e diversificare davanti ai valori fondamentali? In questa occasione non posso dilungarmi su pratiche come la circoncisione femminile che vengono spesso messe in contrapposizione ai diritti umani, ma questi argomenti sono sempre sul tavolo, come quello del velo, dove il rispetto per le pratiche degli altri rischia di stridere con i valori liberali. Basta pensare a cosa è successo in Inghilterra, dove il Primo Ministro dell’epoca dichiarò che l’hijab e il burka erano incompatibili con i requisiti di una comunicazione trasparente. Sono questioni centrali per capire quanta differenza può essere tollerata da una società, e quanto si possono appianare le differenze economiche e politiche senza ricorrere alla violenza.
Ancora una volta, l’America è un valido esempio, perché nonostante tutte le difficoltà è sempre stata una nazione di immigrati a eccezione di due gruppi: gli indiani nativi che sono stati assassinati, messi in fuga o confinati nelle riserve, e quelli che sono stati deportati in catene. Ma al di là di queste due categorie particolari (e profondamente problematiche), ogni americano è arrivato da qualche altra parte per scelta. E persino agli inizi la differenza della popolazione era impressionante considerando i paesi europei da cui provenivano i padri fondatori, non solo Inghilterra ma anche Scozia, Irlanda, Olanda, Germania, persino Francia, Spagna e Portogallo. Oggi l’America resta una nazione di immigrati il che significa che la democrazia deve essere approcciata in termini multiculturali, non c’è via di scampo. Quel che abbiamo fatto nel corso della storia è stato inventare una religione civile, dove la comprensione della cittadinanza non si basa sull’identità, l’etnicità e i gruppi politici ma si organizza attorno a dei miti e a delle storie: che si tratti della Costituzione, della Dichiarazione dei Diritti, dei discorsi inaugurali di Lincon, del discorso di Gettysburg, dell’ “I have a dream” di Martin Luther King o di quello di Obama sulla razza, tutto confluisce in una sorta di liturgia secolare.
Queste storie diventano una liturgia che ogni americano di qualsiasi background può sottoscrivere e considerare affine, trovando conforto in una solidarietà reale basata sulla fiducia nelle stesse credenze. Credenze secolari, civiche e repubblicane ci permettono di modellare l’identità attorno a una versione sintetica ma non per questo meno reale o gratificante di comunità, che è civica per natura. Il segreto del successo della democrazia multiculturale americana sta nel cittadino, non quello simile a un francese, tedesco o svedese– per dirla in termini americani a un WASP– ma un cittadino che proviene da un’altra parte e i cui trascorsi sono irrilevanti, così come sono irrilevanti la sua razza e la sua religione; un cittadino che arriva in America per aderire a certi valori comuni, spesso mitici, dati dalla religione civile.
Uno degli aspetti più tristi del fallimento dell’Unione Europea nel costruire una cittadinanza europea e l’idea di una comunità civica (invece di focalizzarsi sull’Euro) è che ha totalmente smarrito l’opportunità di creare una religione civica. Quando si trattava di redigere la Costituzione Europea, tutto quello che sono stati in grado di pensare era se inserire il concetto di cristianità o meno, come se fosse l’unica domanda che valesse la pena fare in termini di identità.
Ma l’idea che la cittadinanza europea, cosa è significato per una persona oltrepassare le frontiere per esempio, potrebbe contenere in sé i germi di una nuova identità che permetterebbe a cittadini provenienti dalla Turchia, Tunisia, Marocco, Pakistan e Indonesia di sentirsi non tanto tedeschi o francesi quanto europei.
Il fatto che l’Europa abbia eretto un muro non attorno alle singole nazioni ma attorno all’intera Unione quando si è trattato di stabilire chi fosse europeo o meno è un’occasione persa.
In sostanza, la cattiva notizia è che la democrazia, per ragioni molto valide, avrà seri problemi con il multiculturalismo, e per sopravvivere dovrà scendere a patti con la differenza che contraddistingue il mondo interdipendente moderno. Ma non potrà mai farlo se continua a ignorare l’esistenza di un problema, o se decide che il problema coincide interamente con il razzismo o le politiche reazionarie. È per questo motivo che una religione civile, l’idea di credenze civiche e secolari comuni che uniscono la popolazione, può fare davvero la differenza. Il modo in cui la comunità ha funzionato in America e il modo in cui la nostra storia comune (non quella che stabilisce l’identità ma quella che ci unifica in una sola nazione) tiene ancora duro indicano una serie di spiragli per il corso della democrazia nonostante le difficoltà insite nel multiculturalismo.
(Traduzione di Claudia Durastanti)