Hussein Ibish è Senior Fellow presso la American Task Force on Palestine (ATFP) a Washington e direttore esecutivo della Hala Salaam Maksoud Foundation for Arab-American Leadership
Cosa ne pensa del cosiddetto Stato unico? Crede possa essere definito una soluzione o piuttosto è un’idea utopica dovuta al pessimismo e la frustrazione dovuti a vent’anni di falliti negoziati di pace?
Credo che lo Stato unico sia una congettura, un’idea sull’avere un’idea. Non è un’idea compiuta in sé perché nessuno è in grado di spiegarci cosa sia e neanche prova a farlo; nessuno sa spiegare come realizzarlo né rispondere a domande realistiche del tipo: chi si approprierà delle cose materiali, e con questo intendo le terre e proprietà? In un ipotetico accordo di Stato unico, cosa accadrebbe a tutti i territori che inizialmente appartenevano ai palestinesi e ora sarebbero espropriati dallo Stato d’Israele? Ci sono dozzine di questioni simili che non vengono mai prese in considerazione; nessuno fa uno sforzo verso questi temi perché ciò comporterebbe risposte poco piacevoli, e queste rischierebbero di far scoppiare la “bolla” dello Stato unico, dimostrando quanto questa idea sia velleitaria. Se ponessimo la questione in maniera molto vaga e idealistica, sperando che le persone riempiano i tasselli mancanti per conto loro, credendo che infondo ci sia una soluzione facile a tutte queste questioni, l’illusione regge potrebbe reggersi in piedi, un po’ come se fosse un trucco magico.
Il secondo argomento che non viene mai preso in esame, pur essendo cruciale, è il seguente: perché gli ebrei israeliani dovrebbero anche solo considerare l’opzione dello Stato unico, quale sarebbe il loro incentivo? Nessuno ne parla perché non ci sono retoriche o argomentazioni in grado di spiegarlo, poiché non c’è nessun modo per rendere lo Stato unico nell’interesse degli ebrei israeliani. Ogni volta che sollevo l’argomento sul perché mai queste persone dovrebbero essere d’accordo, i miei interlocutori si innervosiscono e mi accusano di prestare troppa attenzione all’opinione israeliana. Opinione che, ovviamente, mi interessa nella misura in cui senza l’approvazione o senza il consenso di Israele, dello Stato unico non se ne farà mai niente. E il problema è proprio questo; non c’è nessuna road map per convincere o costringere Israele ad accettare lo Stato unico.
Ora, qualcosa di simile a uno Stato unico già esiste da quando è nata l’occupazione, ma si tratta di uno Stato separato, fondato sull’ineguaglianza, ingiusto e insostenibile. Può darsi che accada una formalizzazione di questo proto-Stato unico e che questa realtà diventi sempre più ufficiale e radicata, ma come tutte le alternative ai due Stati questa opzione comporta dei rischi: non solo non risolve il conflitto, ma lo alimenta e determina altre guerre e tensioni. È per questo motivo che lo Stato unico non si qualifica neanche come idea, è solo uno slogan, una congettura di cui nessuno sa precisare i contenuti o l’ipotetico funzionamento. L’idea dello Stato unico viene in genere presentata con due o tre frasi come se non ci fosse altro da aggiungere, e questo è sufficiente a dimostrare il suo alto tasso di infattibilità. Per me equivale a un ritrarsi dalla realtà; capisco che per i palestinesi e i loro sostenitori la realtà sia estremamente brutta e dolorosa ma lo Stato unico non è altro che una forma di negazione estranea a qualsiasi pensiero politico.
I risultati politici sono determinati da forze che producono un cambiamento, vale a dire forze sociali, militari, politiche ed economiche che non nascono in un vuoto ma sotto precise circostanze. Lo Stato unico, invece, è una specie di realtà parallela che preferisce ignorare il modo in cui questi risultati vengono prodotti. Per farla breve, chi parla di Stato unico non ragiona in termini politici ma in termini di qualcosa che alla politica ci somiglia e basta. In passato ho fatto un paragone con il rapporto tra scienza e fantascienza: lo Stato unico, a mio avviso, rientra più nella categoria della fantascienza e non ha attinenza con il modo in cui le cose funzionano per davvero. È una narrazione affascinante, con una trama ben riuscita, ma gli apparecchi descritti sono destinati a fallire.
Chi sono i promotori dello Stato unico? Perché non sembra esserci tanto sostegno popolare per questa idea tra i palestinesi?
Proprio così, il sostegno dal basso è davvero limitato. Lo Stato unico ha avuto molta risonanza nei campus universitari occidentali, soprattutto in Inghilterra e negli stati Uniti; è da lì che nasce il consenso più forte. Possiamo distinguere due categorie tra i sostenitori: da un lato c’è il mondo accademico costituito da studenti e docenti dei campus occidentali, dall’altro i palestinesi cittadini di Israele che sono a favore dello Stato unico per tutta una serie complessa di motivi. Innanzitutto non pensano che la soluzione dei due Stati sia applicabile alla loro situazione e poi sono convinti che lo Stato unico determini più vantaggi. C’è un’altra categoria, tuttavia, che si sta gradualmente avvicinando allo Stato unico, i membri della destra israeliana, del movimento dei coloni, che vivono soprattutto in Cisgiordania e spingono a favore del riconoscimento di quello Stato informale basato sull’apartheid che esiste oggi. È quantomeno curioso che l’idea dello Stato unico promossa nel mondo accademico anglosassone adesso venga adottata dalla destra dei coloni. Naturalmente le due fazioni spingono verso la stessa soluzione con motivazioni molto diverse, ma rimane una situazione abbastanza strana.
Per la destra israeliana, Gaza tende molte volte a essere messa da parte. Resta fuori dai giochi solo per ragioni demografiche?
Non si tratta solo di demografia; in Israele non c’è mai stato un consenso sulla questione se Gaza faccia parte o meno della cosiddetta Eretz Israel nominata nella Bibbia. Non c’è consenso tra i religiosi o gli storici irredentisti sul fatto che essa sia sacra o storicamente vitale per Israele. Alcuni ritengono che sia così, ma stiamo parlando di una minoranza di ebrei israeliani, di ebrei di destra o di israeliani religiosi, ragion per cui lasciar perdere Gaza non viene percepito esattamente come un sacrificio dal punto di vista israeliano, senza contare poi la questione demografica. Gaza ha un prezzo salato, soprattutto a causa della sua popolazione impoverita e composta in gran parte da rifugiati del sud di Israele dai tempi del 1948; chiunque si ritrovi a occuparsi di Gaza dovrà farsi carico di costi notevoli. Le ragioni per cui Gaza viene esclusa sono diverse: demografiche, economiche e politiche se consideriamo il generale disinteresse di Israele. Al momento gli svantaggi superano di gran lunga i benefici; gli israeliani massimalisti possono essere contenti senza Gaza mentre non lo saranno mai senza la Cisgiordania, o Hebron per esempio.
Ha brevemente accennato al fatto che oggi nei territori occupati esiste già una specie di Stato unico, lei ritiene che se lo status quo dovesse continuare e inevitabilmente questa realtà si andrà formalizzando, ciò potrebbe portare ad un cambio di strategia da parte dei palestinesi?
Credo che accadranno entrambe le cose ma non riesco a immaginare di quale strategia si possa trattare; non dobbiamo dimenticare poi la linea di Hamas che consiste nel resistere fino alla vittoria, e Hamas fin qui ha tratto molti benefici dalla Primavera araba. Ma è difficile fare previsioni sul futuro. Quel che posso affermare con sicurezza è questo: lo status quo attuale non è sostenibile, non può durare… una cosa di cui sono certo è che prima o poi ci sarà un’altra ondata di insurrezione, ma escludo che riuscirà a garantire la libertà dei palestinesi, anzi. Potrebbe essere addirittura controproducente.
Difficilmente i palestinesi potranno continuare a vivere in queste condizioni e pertanto si ribelleranno; sono piuttosto scettico sull’eventualità di una ribellione non violenta e in ogni caso le reazioni di Israele, anche a fronte di iniziative pacifiche, saranno comunque violente. Lasciarsi risucchiare dal vortice della violenza è una tentazione considerevole per entrambe le parti. Al momento gli israeliani stanno giocando con il fuoco, hanno creato una realtà totalmente iniqua e insostenibile e questa esploderà in esiti violenti. Non so cosa abbia in mente Israele, sta protraendo lo status quo all’infinito e questo prima o poi esploderà, ma non ha alcuna strategia alternativa per gestire la situazione.
Considerata la situazione sul campo, con oltre 500,000 coloni nei territori occupati inclusa Gerusalemme Est, qual è il minimo indispensabile per ottenere uno stato palestinese che sia sostenibile in termini economici, geografici e di risorse naturali?
La risorsa più importante di uno Stato palestinese sarà la sua popolazione. Questo non sarà mai uno Stato ricco e per i primi anni dipenderà da donatori; in generale, la nascita di uno Stato palestinese sarà un’operazione economicamente costosa. Molte nazioni nate di recente all’inizio dipendono dagli aiuti esteri, anche se i palestinesi hanno dimostrato con il loro state building programme di poter ridurre considerevolmente la quantità di donazioni ampliando al tempo stesso il loro budget (almeno così è andata negli anni prima dei tentativi dei palestinesi di candidarsi come pieni membri dell’Onu e del collasso delle donazioni, una situazione che si protrae tutt’ora). Con il Primo Ministro Fayyad, tra il 2009 e il 2011 sono diminuite sia la spesa che la percentuale degli aiuti internazionali da cui dipendono i palestinesi; ciò dimostra che si tratta di un obiettivo a portata di mano in presenza delle giuste circostanze.
Come anticipato, credo che la popolazione sia la risorsa più importante di un eventuale stato palestinese e poi c’è Gaza, che ha le potenzialità per diventare un porto e snodo commerciale importante (afflusso turistico, settore hi-tech in crescita e agricoltura). Non sarà uno Stato ricco di petrolio, ma un paese in via di sviluppo simile a tanti altri Stati arabi. Per garantire la fattibilità di questo progetto è importante chiarire su cosa i palestinesi vorranno investire i soldi; la leadership ha sempre dichiarato di sua spontanea volontà – e non per effetto della pressione israeliana– di non essere interessata a un esercito fisso di grandi proporzioni o di volerci sprecare delle risorse. Lo Stato palestinese vuole investire sulle persone, e non c’è ragione di credere che la cosa non possa funzionare.
Per quanto riguarda le colonie israeliane in Cisgiordania e la soluzione dei due Stati, ultimamente si è lavorato molto sulle mappe e sui confini, ed è ancora possibile incorporare tra il 75 e 80 percento dei coloni dentro Israele limitando lo scambio dei territori al 4 percento; è l’aspetto su cui i negoziatori stanno lavorando di più. Non credo che la delimitazione dei confini in Cisgiordania sia la questione più insidiosa, mentre il destino di Gerusalemme lo è sicuramente: i palestinesi sanno che dovranno trovare un accordo sui rifugiati, e questo sarà politicamente doloroso ma non ci sono alternative. Israele non darà mai un lasciapassare per il ritorno dei profughi palestinesi all’interno di Israele.
Da un lato, quindi, c’è Israele che potrebbe essere disposta a stringere un accordo su alcuni punti ma non su Gerusalemme, e dall’altro ci sono i palestinesi che non sono favorevoli a una situazione in cui Israele abbia il monopolio esclusivo su Gerusalemme costringendoli a spostare la capitale altrove. Nessun palestinese lo accetterà mai. Il problema, ovviamente, è che gli israeliani hanno potere di veto e sarà davvero difficile per qualsiasi governo convincere l’elettorato a scendere a patti, soprattutto dopo la propaganda del passato che il Primo Ministro Netanyahu ha sintetizzato bene in un Tweet a proposito di Gerusalemme, definita “l’eterna capitale indivisa” di Israele. L’asimmetria di potere attuale rende difficile per il governo israeliano accettare certi compromessi, ma esistono soluzioni creative e una città può essere la capitale simultanea di due Stati; si può anche arrivare a un accordo sui luoghi sacri.
La questione quindi non è se sia fattibile creare due Stati perché lo è per certo; sappiamo tutti che gli insediamenti possono essere evacuati, è stato fatto a Gaza e in alcune parti della Cisgiordania, resta solo da chiedersi in quali circostanze e quanti coloni possono essere evacuati. La fattibilità c’è se c’è la volontà politica. Il punto su cui fanno leva i sostenitori dello Stato unico quando devono spiegare che l’opzione dei due Stati è fallita, è proprio il numero di coloni, il radicamento dell’infrastruttura dell’occupazione o la componente demografica, ma dimenticano che si tratta sempre di realtà create dall’uomo, di decisioni politiche determinate da una volontà precisa e come tali non sono irreversibili. Quindi la domanda è: che tipo di volontà politica è necessaria per far nascere due Stati e come si può incoraggiare questa volontà? Esiste ancora questa volontà?
La risposta è sì, esiste, e per questo nessuno può liquidare la formula dei due Stati perché la maggioranza delle due popolazioni lo desidera ancora. Un governo davvero intenzionato a raggiungere l’obiettivo può farlo sulla base di un consenso diffuso su entrambi i versanti. Non sarà facile, ma sicuramente è possibile: i muri vengono eretti e disfatti, gli insediamenti nascono e vengono evacuati, e confini considerati sacrosanti possono smettere di esserlo. I palestinesi sanno che dovranno stringere qualche compromesso, ma il vero ostacolo a un accordo è l’asimmetria di potere tra le due realtà politiche. Il governo israeliano fa fatica a spiegare al proprio popolo che deve fare qualche sacrificio, perché potrebbe limitarsi a dire no a oltranza. C’è bisogno di coraggio e visione del futuro, c’è bisogno di ammettere che se non si scende a compromessi saranno guai per tutti. Le persone coinvolte devono uscire dalla bolla di irrealtà in cui si ostinano a vivere e devono prendere il futuro con serietà ma questa non è una cosa che i cittadini fanno volentieri. Sta al governo assumersene la responsabilità.
Quindi siamo punto e a capo. La pressione per il cambiamento deve giungere dall’esterno, dalla comunità internazionale? Gli Stati Uniti sono ancora il miglior intermediario possibile?
Credo di sì, non è possibile immaginare un accordo senza un intermediario o un mediatore e gli Stati Uniti sono l’unico candidato in vista. Non l’unico candidato che può farlo, sia ben chiaro, ma l’unico che vuole farlo. Non mi viene in mente nessun agente internazionale che abbia almeno la voglia di mettersi in quella posizione, forse la Francia nutre qualche aspirazione, ma l’Europa non è interessata, e tantomeno la Russia e la Cina. Per questo esiste il Quartetto per il Medio Oriente [composto da Ue, Russia, Onu e Stati Uniti], per dare avvallo internazionale all’operato statunitense. L’America è l’unica potenza che si dimostra interessata a fare il mediatrice; non si tratta solo di facilitare i negoziati ma anche di insediare un meccanismo di responsabilità: non basta far concordare le parti coinvolte sul minimo necessario ma si deve far sì che si impegnino a rispettare le decisioni prese. Il pericolo più grande è che un governo israeliano acconsenta ai punti X, Y o Z – questo potrebbe valere anche per i palestinesi in circostanze diverse, ma l’influenza esercitata dalle due parti non è minimamente paragonabile–, ma che giunto al momento di implementare i punti il governo si ritrovi a subire un’ondata di dissenso interno capace di far deragliare il processo.
I cittadini sono incapaci di ragionare sul lungo periodo e potrebbero porre il veto sui punti rassicurandosi che non accadrà niente. A quel punto deve intervenire una terza parte per far ricordare a Israele gli impegni presi e la necessità di rispettarli. Non si tratta di forzare una decisione che non vuoi prendere, ma di chiederti di prestare fede a un patto; questa forma di vigilanza spetta agli Stati Uniti e all’Onu ed è proprio quel che è mancato durante il processo di Oslo, con conseguenze gravi. La comunità internazionale può fare anche altro, e con questo non intendo dire che dovrebbe presentare un programma dettagliato di come risolvere il conflitto ma chiarire, seppure a grandi linee, quale sia la meta finale del processo di pace. A mio avviso, israeliani e palestinesi otterrebbero beneficio da una cornice simile a quella degli accordi di Dayton dopo le guerre nell’ex Jugoslavia mentre quelli di Oslo sono stati invocati in base al presupposto – secondo me sbagliato – di creare prima un clima di fiducia e poi di implementare le decisioni prese in varie fasi. La fiducia è fondamentale, ma se la meta finale resta vaga e male definita il processo ne soffre. La gente deve sapere per cosa sta negoziando e a cosa va incontro.