Tutti parlano ormai di papa Francesco. Tutti vorrebbero parlare con lui, molti gli scrivono. Il desiderio di schermirsi perciò è grande quanto il rischio che la sua esposizione comunicativa vada fuori controllo. Ammesso che qualcuno sappia qual è il controllo necessario per un personaggio altamente comunicativo nell’era della comunicazione globale. Accetto dunque di entrare anche io nel dibattito su “il Papa e le donne” con discrezione, anche se in realtà vorrei provare a ribaltarne i termini. Non mi interessa per nulla, infatti, parlare di “Francesco e le donne”, come se dovessimo, a partire dalle sue sporadiche ma ormai ricorrenti dichiarazioni sulle donne, riuscire a capire cosa Francesco pensa delle donne, quali ruoli ecclesiali delle donne sono secondo lui compatibili con il magistero pontificio degli ultimi decenni, oppure cosa ci dobbiamo aspettare nell’immediato futuro. Al centro del mio interesse non c’è tanto il papa, ma le donne, quelle donne reali che oggi vivono, credono, pensano e si impegnano nella chiesa.
Mi interessa piuttosto, allora, porre la questione delle “donne di Francesco”. Non mi interessa sapere, come peraltro ha già provveduto a rivelarci la stampa di gossip, chi era la sua fidanzatina, la sua nonna, la sua vicina di casa o la sua parente più prossima. Mi interessa invece sapere quali, concretamente, sono le donne che in questo momento Francesco ascolta, da quali aree ecclesiali, ma anche non ecclesiali, provengono, che ruoli rivestono, quale è la loro autorevolezza soprattutto teologica.
Da quando il femminismo ha lambito anche la chiesa, abbiamo assistito a una vera inondazione di pubblicazioni e di discorsi su Gesù e le donne, Paolo e le donne, la chiesa e le donne. La mia ricerca biblica e teologica ha sempre imboccato il cammino contrario: le donne di Gesù, le donne di Paolo, le donne della tradizione ecclesiale. Perché rispettare la soggettualità delle donne, dare loro la parola su se stesse e su tutto ciò che riguarda la fede e la sua storia millenaria, mettersi all’ascolto di un punto di vista che impone di rinunciare a tutte le forme di androcrazia è divenuto ormai un imperativo a cui, difficilmente, anche la chiesa e i suoi papi possono pensare di sottrarsi. O meglio, possono farlo e continuano a farlo, ma fanno pagare alla chiesa un prezzo molto alto marcando una distanza dai mondi delle donne che rischia di divenire ormai, irreversibile. “La Chiesa deve porsi in ascolto. Deve lasciar esprimere le donne da protagoniste. Il loro modo di leggere, interpretare la vita ha una rilevanza che deve segnare un cammino pastorale che non può vedere le donne perennemente soggette o brave e fedeli esecutrici, quasi vergognose o timide di fronte alla forza che potrebbero esprimere in novità”: lo diceva Carlo Maria Martini ed era il 1981!
Le donne di Francesco, dunque, quelle che come Maria di Magdala o Marta nei confronti di Gesù e Febe o Lidia nei confronti di Paolo, intrattengono con lui un dialogo autorevole sulla fede e i costumi, sul passato e sul futuro della chiesa, sulla fedeltà al vangelo e sull’attesa del ritorno di Cristo.
Paolo VI, un papa che sembra condannato alla damnatio memoriae, aveva timidamente riconosciuto, negli anni in cui i movimenti femministi facevano sentire ormai forte la loro voce, che gli echi che venivano anche da questi mondi lontani dovevano arrivare alla chiesa e interpellarla.
Ha prevalso, invece, la presa di distanza, l’arroccamento in fortini ideologici in cui proteggersi dalle grandi questioni, dalle impegnative richieste e dalle imbarazzanti pretese che la consapevolezza femminile andava esprimendo affinché il mondo intero si liberasse finalmente dalla più odiosa delle discriminazioni, quella sessuale, e le religioni si emancipassero da ogni forma di coesistenza o almeno di connivenza con il patriarcato. Se le “donne di Francesco” non sono anche quelle che vengono dalle trincee in cui si sono combattute quelle battaglie, difficilmente la sua chiesa sarà chiesa di donne e uomini, chiesa di uguaglianze nelle diversità, chiesa di ascolto prima che di discorso. Dirà parole, pronuncerà discorsi impregnati di apolegetica paternalistica, emanerà documenti, ma resterà al di qua di un cordone sanitario eretto contro una riflessione ritenuta virale sulla differenza di genere e continuerà a proteggersi perfino dalle centinaia di teologhe che, ormai in tutto il mondo, hanno raccolto la sfida che interessa tutti gli ambiti del vivere e del pensare, ed hanno ragionato a fondo sulla differenza di genere come risorsa irrinunciabile tanto per la teologia che per la chiesa.
Le donne di Gesù e quelle di Paolo sono donne che fanno teologia e a loro si deve, insieme agli altri discepoli, la fioritura della grande età apostolica. Poi, la rivincita del patriarcato non si è fatta aspettare e, a donne capaci di parola teologica si è andata rapidamente sostituendo una “teologia della donna” frutto di una riflessione di “soli Padri”, espressione della loro esperienza e del loro immaginario, dei loro fantasmi e dei loro desideri. Un fiume in piena di parole e di discorsi perché sulla donna, come su Maria, “numquam satis“, non si dice mai abbastanza, c’è sempre qualcosa da dire, per esaltare o redarguire, esortare o ammonire, poco importa. Solo in poche hanno avuto la forza, durante la bimillenaria tradizione cristiana, di prendere la parola per dire se stesse, donne di fede e di chiesa, con la forza che viene dalla libertà dello spirito. Non basta canonizzarle e riconoscere loro il titolo di “dottori della chiesa”. Essere donne credenti e capaci di magistero teologico non appartiene più ormai allo straordinario, ma allo svolgersi quotidiano della vita della chiesa: saprà Francesco dialogare, come Gesù con Marta o con l’eretica donna di Samaria, con donne che non aspettano una teologia sulla donna elaborata nei fortini della maschilità teologica, ma che da tempo conducono la loro ricerca in tutti gli ambiti del sapere teologico?
Francesco, infine, non ha tralasciato occasione per redarguire, anche con fermezza, atteggiamenti di servilismo e di piaggeria. E, questa sua coraggiosa capacità di liberare la chiesa da cortigiani senza scrupoli o da servi sciocchi le sta restituendo quella freschezza che essa è capace di avere quando riscopre che la sua lex fundamentalis è la libertà che viene dal vangelo. Anche le “sue donne”, allora, non saranno mai né serve né cortigiane: è quello che ogni donna credente, ma anche non credente, dovrebbe sperare.