Dialoghiamo su come si pone oggi in Italia la questione cattolica nella sua versione politica, cercando spunti di riflessione in quel prezioso documento che è stato ed è il Codice di Camaldoli. Tutti, anche coloro che fingono di non ricordare, hanno presente che l’esperienza strutturata del partito cattolico si è esaurita circa trent’anni fa con la fine della Dc o, ancora prima, con la diaspora politica provocata, sia pure in via indiretta, dal Concilio Vaticano II. Da tempo molte cose sono cambiate nella presenza pubblica dei cattolici: alcuni di essi sono ancora ai vertici delle più alte istituzioni repubblicane, altri militano a livelli vari in partiti diversi, anche collocati in coalizioni politiche opposte; la stessa cosa accade per l’elettorato cattolico, quando esso riaffiora dall’ampia fascia delle astensioni.
Molti aspetti dell’attuale condizione sono collegati anche all’evolversi del magistero della Chiesa che via via ha stimolato i fedeli a un impegno prioritario sociale e prepolitico. I movimenti ecclesiali, in particolare l’Azione cattolica, svolgono, per lo più, importanti attività pastorali, caritative e di animazione sociale e culturale; i cattolici sono tra i protagonisti di quel Terzo settore sociale che è divenuto un fondamentale elemento dinamico della nostra società. Alcune comunità religiose, penso agli amici di Sant’Egidio, sviluppano forme di carità in molti paesi del mondo e sono alfieri di progetti di pace tesi a risolvere o contenere i conflitti in atto, da quello che si svolge in Ucraina fino a quello più recente scoppiato nel Sudan e in tanti altri paesi sparsi per il mondo e di cui spesso sappiamo poco. Questi e altri cambiamenti dal passato recente rendono davvero difficile anche il solo tracciare una prospettiva unitaria per un nuovo impegno pubblico dei cattolici, la loro “indispensabilità” nella vita politica italiana.
Eppure, senza coltivare nostalgie, rimane possibile e anche urgente elaborare e offrire, sotto il profilo culturale e non solo, proposte utili per ripartire da Camaldoli, vivere e gestire questa fase storica che vari analisti definiscono, con maggiore preoccupazione che in passato, “di transizione”. Una fase nella quale si aggravano non risolte questioni di crisi strutturale del sistema e si moltiplicano gli interrogativi politici sull’avvio di un’esperienza governativa di destra-centro, inedita nella storia repubblicana. Tra le questioni storiche irrisolte spicca la consapevolezza che si vanno ormai esaurendo le funzioni di integrazione e di produzione degli indirizzi politici tradizionalmente svolte dai partiti, soppiantate o minate da particolari modelli organizzativi che, rifiutando le tradizionali identità, ne assumono altre di tipo leaderistico (le “democrazie del pubblico”) o populistiche. Inoltre, sono da tempo note e in fase di progressivo aggravamento le insufficienze e le distorsioni che affliggono la nostra forma di governo: dalle funzioni sempre meno rilevanti svolte dalle rappresentanze parlamentari alle incertezze che minano lo stesso ruolo dello Stato. Infine, assistiamo alla riduzione dell’impegno costituzionale per la realizzazione dei diritti sociali, come il diritto al lavoro, cui si oppone il contestuale affollarsi di nuovi diritti individuali, molte volte legittimi ma talora non coerenti con la visione personalistica e solidaristica della nostra Costituzione.
Questi processi di crisi si svolgono mentre il governo, mettendo in cantiere riforme di rango costituzionale (modelli di presidenzialismo e regionalismo differenziato), si nuove per dotare l’Italia di un ruolo significativo all’interno di quelle alleanze occidentali ed europee che si vanno costituendo in previsione di mutamenti negli equilibri geopolitici: tutto ciò è legittimo e importante, peccato che su temi così rilevanti il Parlamento rimanga pressoché muto e l’opinione pubblica (la “regina della democrazia” della cultura liberale) balbetti. Analoghi balbettii si rilevano di fronte a scelte essenziali per il futuro del Paese: quelle che riguardano l’uso di nuove energie per contenere le conseguenze catastrofiche dei gravi cambiamenti meteorologici, o quelle relative al grande problema delle migrazioni. Insomma, va sfumando quella pluralità di posizioni non solo garantita ma promossa dal sistema democratico e dallo Stato di diritto. In realtà, a queste e ad altre questioni danno o cercano di dare risposte politiche quei cattolici che militano nei vari schieramenti.
Alle nostre istituzioni di cultura politica tocca, per quanto ci è possibile, rivolgere la dovuta attenzione ad alcune delle situazioni critiche accennate per ricercarne le ragioni e, possibilmente, per coinvolgere le nuove generazioni nella elaborazione di qualche indirizzo utile per la loro soluzione. Su questa non facile prospettiva di impegno si colloca il riferimento a Camaldoli: il “ripartire da Camaldoli” che qualifica la nostra iniziativa. Il che, in concreto, significa riprendere in mano quello straordinario documento redatto in bozza ottant’anni fa e intitolato “Per la comunità cristiana, principi dell’ordinamento sociale” e più noto come Codice di Camaldoli, non utilizzarlo come reperto storico, sempre da studiare, né come un inattuale manifesto politico. Nel Codice, con la guerra in corso, si intravvedeva e si auspicava la sconfitta del fascismo e si rifletteva per tempo su condizioni e modalità per creare un nuovo sistema democratico.
Il Codice è un documento preparato a conclusione di un lungo percorso di maturazione da un altrettanto straordinario gruppo di giovani cattolici formati nei rami intellettuali dell’Azione cattolica (Federazione universitaria cattolica italiana, Laureati cattolici e Istituto cattolico di attività sociale) e con esperienze lavorative di eccellenza: nelle Università e nell’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri). Basti solo accennare a Sergio Paronetto e a Vittorino Veronese, che organizzarono i lavori di Camaldoli e poi a Ezio Vanoni, Pasquale Saraceno, Paolo Emilio Taviani e, via via, a coloro che intervennero in vario modo nella definizione del documento da Aldo Moro, Giorgio La Pira, Igino Giordani, Franco Feroldi, Mario Ferrari Aggradi, Giulio Andreotti, Giuseppe Capograssi e altri, sempre affiancati, da teologi come padre Carlo Boyer, padre Angelo Brucculeri e Carlo Colombo della Cattolica.
La stesura della bozza del Codice avvenne e si concluse nel monastero di Camaldoli tra il 18 e il 24 luglio 1943. Incidentalmente poche ore dopo il Gran Consiglio del Fascismo approvò l’ordine del giorno di Dino Grandi che causò le dimissioni di Benito Mussolini. Da allora e in modo drammatico l’Italia si divise in due, come certificava Benedetto Croce, e il documento di Camaldoli rimase un documento del quale si continuò a discutere fino a quando il testo si poté pubblicare dopo la Liberazione. L’intento del Codice fu esplicitato nella sua Introduzione: “Approfondire i complessi problemi che presenta l’odierna società e offrire al lettore e all’uomo d’azione gli elementi per un orientamento sicuro e al tempo stesso adatto alla contingenza concreta della fase storica e politica che attraversiamo”. Chiarissimo! Ma come e con quali fini fare oggi riferimento a quel documento?
La situazione in cui maturò il Codice è profondamente diversa dalla quella che viviamo. Una qualche analogia tra la stagione drammatica in cui nacque quel documento e l’odierna, che non si può né si deve definire drammatica, si rinviene nel fatto che, come allora, ai nostri giorni l’Italia è sottoposta (per dirla con Karl Polanyi) a grandi trasformazioni. Solo che nel Codice, con la guerra in corso, si intravvedeva e si auspicava la sconfitta del fascismo e si rifletteva per tempo su condizioni e modalità per creare un nuovo sistema democratico; oggi possiamo solo scrutare il futuro della nostra democrazia, riflettendo sulle nostre responsabilità.
I processi di trasformazione che ci investono sono originati in generale da alcune condizioni generali, almeno alla lontana, analoghe a quelle del passato: dai limiti che evidenzia l’economia di mercato, dalle irrisolte tensioni presenti nella società e dal mutare degli equilibri internazionali. Studiando il Codice possiamo sottolineare, tra l’altro, e a mio avviso non è poco, non tanto le scelte coraggiose, ma legate ai tempi, che quei giovani formularono per la rinascita democratica, quanto le premesse che posero alle necessarie svolte da compiere per mettersi alle spalle tradizioni e modelli che, al di là del loro significato intrinseco, si erano consolidate nel corso del regime. Per esempio, nel Codice si tenevano saldi i principi teologici ed etici della dottrina sociale della Chiesa, ma si facevano sfumare le formule, molto note a livello internazionale e definite “apodittiche” dai giovani di Camaldoli, per quella creazione dei Consigli economici e delle rappresentanze sociali dei cattolici fissata dal Codice di Malines del 1927 e, nel contempo, si apriva una approfondita discussione sulle aperture e distinzioni poste nel 1931 da Pio XI nella Quadragesimo Anno per rendere plausibile il corporativismo come sistema non conflittuale e moralizzatore dei conflitti sociali.
Peraltro, la valutazione in parte positiva del corporativismo era analizzata da una quota significativa degli economisti cattolici specie dell’Università Cattolica (Francesco Vito e Amintore Fanfani) perché proprio il corporativismo sembrava il modello di organizzazione del lavoro non classista e in grado di comprimere l’individualismo proprietario, liberando i lavoratori da una totale subalternità ai padroni. In alternativa a Camaldoli, e ad opera in particolare di Paronetto, Vanoni e Saraceno, si rilevò che il primario problema sociale del futuro era di superare la dottrina “liberale”, che limitava in modo improprio, rispetto alle esigenze del lavoro e della produzione, gli interventi economici dello Stato, mentre per finalità pubbliche proprio allo Stato andava riservata una funzione regolativa e mai pervasiva di sostegno alle imprese industriali. Era quella all’incirca la prospettiva che avevano dato all’opera dell’Iri Alberto Beneduce e Donato Menichella, di cui Paronetto era stretto collaboratore fino a meritarsi da lui nel 1943 la proposta alla direzione generale dell’Istituto per la ricostruzione nazionale.
I giovani di Camaldoli tale indirizzo lo approfondirono in varie occasioni con Vanoni il quale ricordava che se l’economia pubblica aveva come obiettivo quello di realizzare una maggiore giustizia sociale, era necessario limitare le posizioni eternamente ed estremamente individualistiche, benché la fiducia nell’azione dello Stato non poteva mai andare a detrimento dell’autonoma responsabilità delle imprese. La funzione sussidiaria dell’intervento dello Stato doveva essere rivolta alla soluzione delle criticità economiche senza frenare il ruolo dell’iniziativa privata e, soprattutto, senza ostacolare la discussione e l’eventuale esecuzione dei progetti innovativi che emergevano dalla società nelle sue varie articolazioni. Non accadde per caso che su tale modello di economia mista fortemente regolata nasceva già nel 1945 con Saraceno l’esperienza della Svimez.
Tutte le prospettive che si aprirono con il Codice erano di fatto volte a fissare in ottica antitotalitaria sia prerogative e limiti dell’intervento dello Stato, sia le modalità di controllo esercitate dai cittadini e dai loro organismi sociali e politici. In tal senso, si stigmatizzavano le concezioni “assolutistiche della sovranità”, (quelle relative ai “poteri totali” sia dello Stato che dei corpi sociali) che comprimevano le libertà e dalle quali potevano sortire i rischi di una “nuova tirannia”: quella tirannia che può insorgere in qualsiasi forma di regime e “non è altro che la politica che sopraffà il diritto”. Riflettere su queste e altre suggestioni che emergono dal Codice è ancora utile anche oggi per definire e orientare una inedita esperienza pubblica dei cattolici.
Nicola Antonetti è il presidente dell’Istituto Sturzo di Roma.
Questo articolo è uscito su Mondoperaio del giugno 2023.