Sopra un titolo secco “Le previsioni del mago Houellebecq.” Sotto la caricatura di un Michel Houllebecq goffo e gonfio. È questa la copertina con la quale è andato in edicola Charlie Hebdo alla vigilia del tragico attentato che ha preso di mira la sua redazione parigina, provocando la morte di 12 persone tra le quali il direttore del settimanale. La celebre rivista di satira politica ha puntato i riflettori sull’autore del chiacchieratissimo Sottomissione, il romanzo che descrive una Francia immaginaria – ma non troppo lontana – guidata da un presidente musulmano. È per questo che nella copertina dell’Hebdo, Houellebecq pensa al giorno in cui – tra meno di dieci anni – sarà costretto a fare Ramadan. Nella memoria dei francesi, Houellebecq è l’uomo che nel 2001 definì l’Islam la religione più stupida, scatenando un dibattito che alimenta da anni quelle pericolose scintille che hanno contribuito ad appiccare l’incendio di ieri.
La provocazione è del resto nel dna di Charlie Hebdo, settimanale che sin dalla sua nascita ha un orientamento libertario, di sinistra e fortemente anti-religioso. La sua missione è chiara: difendere a spada tratta tutte le libertà individuali. Gli strumenti di cui si serve sono sempre gli stessi: vignette e illustrazioni politicamente scorretti, conditi da articoli incentrati su politica, cultura e religione. Prima ancora di creare zizzania tra Islam e Occidente, Charlie Hebdo – all’epoca ancora una testata legata al mensile Hara-Kiri – fu al centro delle polemiche sorte all’indomani dei funerali di Charles de Gaulle. La copertina del numero uscito dopo la morte del presidente titolava: “Ballo tragico a Colombey, un morto”, un riferimento alla residenza del generale che spinse il Ministero dell’interno francese a bloccare la pubblicazione. Oltralpe si fece conoscere soprattutto nel 2006, quando pubblicò una serie di caricature del profeta Maometto, già diffuse dal quotidiano danese Jyllands-Posten. Quelle vignette – riprese anche da una maglietta indossata dell’allora ministro Roberto Calderoli che mostrandole creò scontri mortali in Libia – fece vendere al giornale più di 400 mila copie. Una cifra da record pagata però a caro prezzo. Diverse organizzazioni musulmane francesi chiesero invano il ritiro della rivista la cui sede venne totalmente distrutta da un incendio doloso nel 2011. I disegnatori non smussarono però la punta della loro matita, anzi pubblicarono un numero speciale denominato “Charia Hebdo”, preso presto di mira da diversi hacker integralisti.
Neanche allora i vignettisti di Charlie Hebdo rinunciato al loro modo di comunicare: spogliare le immagini fino al loro significato essenziale, esaltandolo all’ennesima potenza. La realizzazione di una vignetta può essere infatti considerata una forma di amplificazione mediante semplificazione, poiché quando si astrae un’immagine per trasformarla in queste forme, più che eliminare i dettagli ci si concentra su alcuni di essi in modo specifico. Nel 1999, autori come Scott McLeod mostravano come la capacità di concentrare l’attenzione del fruitore su di un’idea è una parte importante del potere comunicativo delle vignette. Quelle di satira politica finiscono poi per diventare barzellette raccontate tramite un’immagine.
È anche per questo che sono seguitissime dal pubblico arabo. Come spiega Paolo Branca in Il sorriso della Mezzaluna, (Carocci, 2011), gli arabi sono figli di un’antica civiltà centrata sulla parola con la quale amano giocare e divertirsi. Anche dopo l’avvento dell’Islam, i vicari del Profeta, i califfi, non furono risparmiati da aneddoti a loro riguardo. Del resto ancora oggi, per mandare qualcuno a quel paese, un arabo gli augura “che la tua religione vada all’inferno”. Tutti dunque tiriamo giù i santi dal paradiso. I problemi nascono quando qualcuno si permette di farlo con i santi altrui, innescando vere o presunte provocazioni che sfociano in crisi più o meno intense.
La querelle più clamorosa è quella sorta negli anni ’90 attorno al romanzo Versi Satanici di Salman Rushdie, testo nel quale Maometto, le sue mogli e i suoi compagni sono rappresentati, pur sotto pseudonimi, con tratti grotteschi. Offesi e sdegnati, molti musulmani reagirono spropositatamente. In una fatwa, l’ayatollah raniano Khomeini definì Rushdie reo di morte, esortando tutti i musulmani a eseguire la sentenza da lui emessa.
Un altro evento che ha scosso le coscienze è stato, nel 2004, l’assassinio dell’olandese Theo Van Gogh, regista di Submission, un film denuncia dello stato di sottomissione vissuto da diverse donne musulmane. La pellicola mostra una donna nuda con versetti del Corano stampati sul corpo mentre racconta i soprusi da questa subiti. Immagini femminili impressionanti che non possono giustificare però lo sgozzamento di un cineasta.
Solo pochi mesi dopo scoppia il caso delle vignette raffiguranti Maometto pubblicate dal Jylland Posten e riprese da Charlie Hebdo. Le immagini, inquisite perché violano il divieto di rappresentare il Profeta, accendono una serie di focolai visibili in Iran, Libia, Pakistan, Siria e diversi paesi musulmani. L’affaire finisce a volte per essere strumentalizzato e utilizzato come un catalizzatore di un ben più ampi malcontenti popolari.
L’ultimo brutale attentato alla redazione di Charlie Hebdo s’inserisce in questa sequenza di affaire che mostrano che a volte “ne uccide più la lingua che la spada”. Per evitare che la serie continui è essenziale che le istituzioni musulmane condannino le reazioni sproporzionate dell’opinione pubblica che rischiano di condurre vortici più pericolosi. Del resto, l’umorismo e il ricorso alla satira sono valori universali già presenti nella più antica cultura araba.
Osservando le ultime vignette di Stephane Charbonnier, il direttore di Charlie Hebdo, sembra che l’uomo sapesse che questa sequenza non sarebbe arrivata in fretta alla fine. Charb, come si firmava il direttore, si aspettava altri attacchi.
Negli ultimi tempi, le edicole che distribuivano il settimanale venivano disegnate come dei fortini presidiati da sacchi di sabbia e filo spinato. Charbonnier stesso si ritraeva come un kamikaze della libertà di stampa che indossava una cintura esplosiva. Al posto dei candelotti vi erano però le copie della sua rivista. Le armi della satira del suo giornale erano inchiostro e bianchetto. Strumenti ben diversi dall’accendino e la benzina utilizzati da quanti attaccavano l’Hebdo. Il suo epitaffio Charb sembrava averlo scritto nell’editoriale pubblicato il 15 ottobre 2012. Dopo l’attacco subito a causa della pubblicazione di altre vignette che ritraevano Maometto, il direttore aveva preso carta e penna per ribadire la libertà di espressione, la sua libertà di ridere per qualsiasi cosa.
Dipingi un Maometto glorioso, e muori.
Disegna un Maometto divertente, e muori.
Scarabocchia un Maometto ignobile, e muori.
Gira un film di merda su Maometto, e muori.
Resisti al terrorismo religioso, e muori.
Lecca il culo agli integralisti, e muori.
Prendi un oscurantista per un coglione, e muori.
Cerca di discutere con un oscurantista, e muori.
Non c’è niente da negoziare con i fascisti.
La libertà di ridere senza alcun ritegno la legge ce la dà già, la violenza sistematica degli estremisti ce la rinnova.
Grazie, banda di imbecilli.