Questa è la trascrizione del resto del dibattito su Luciano Cafagna che si è tenuto il 20 aprile 2012 presso la Treccani.
Paolo Franchi Cafagna sosteneva – all’epoca della Grande slavina – che, a differenza delle slavine propriamente dette, quella era salutata con vivo entusiasmo da una grande maggioranza di italiani, più o meno consapevoli che sotto quei detriti rischiava di finire, oltre alla partitocrazia, anche quello che lui stesso chiamava “il povero villaggio” della nostra democrazia. Parlava anche di “ilarità degli abissi” per definire lo stato d’animo e il clima dell’epoca, e cioè quella forma particolare di ilarità che prende il subacqueo in carenza di ossigeno. Le analogie tra le due slavine potrebbero contare, oggi, sulla presenza di Beppe Grillo che – in qualità di comico – dovrebbe suscitare fenomeni di ilarità. Ma c’è una differenza qualitativa tra le due slavine e gli atteggiamenti collettivi che determinano: di ilarità oggi non ce n’è, né ci sono narrazioni. Perché quella forza che si era accumulata l’abbiamo spesa nelle contese fracassone quanto inesistenti di questo ventennio e oggi la società appare spompata. Questa è una differenza sostanziale con la slavina precedente in cui, seppur fallace, un’idea di cambiamento c’era. Noi ora viviamo la fine di tutto questo.
Alessandro Pizzorno La critica che ho avanzato a Luciano Cafagna riguarda il fatto che lui abbia preso troppo sul serio le ideologie della Prima Repubblica, l’ha vista come qualcosa verso cui non si poteva non avere un atteggiamento di contraddizione e di allontanamento. Accettava anche la definizione di Sartori di pluralismo polarizzato. In realtà a mio avviso era un non pluralismo nascosto che ha permesso la realizzazione di una serie di riforme, dalle Regioni in poi, fatte dagli anni 60 fino alla metà degli anni 70, che nessuno è poi riuscito a fare nella Seconda Repubblica. I due protagonisti della Prima Repubblica si sono presi implicitamente sottobraccio invece di imbracciare il fucile, al momento della crisi: quell’ostilità e contraddizione nascondeva un sottofondo di collaborazione che ha permesso di mandare avanti l’Italia.
Emanuele Macaluso C’è un’analisi interessante e discutibile nell’ultima parte della Grande Slavina, sul fatto che il Partito comunista fosse o meno da considerare “antisistema”, e cosa si intendesse per “partito antisistema”. Un ulteriore discorso intrapreso con Luciano, e da riprendere, è quello sulla personalità di Togliatti e sulla equivocità – termine usato dallo stesso Cafagna – più che duplicità della sua politica. Il Partito Comunista è stato il partito chiave per la costruzione del sistema politico italiano, un vero e proprio asse nel periodo che va dalla svolta di Salerno alla Costituzione. Ha costruito le fondamenta del sistema politico italiano. Non è mai uscito dal sistema. E tuttavia è considerato antisistema. La contraddizione nasce dalla posizione inerente al capitalismo e dal fatto che, anche con Berlinguer e pur aprendo un dialogo con i social democratici, il partito comunista avesse l’obiettivo di superare il sistema capitalista occidentale, pur facendone parte. Dal punto di vista politico Luciano Cafagna prende in considerazione il fattore K e il relativo articolo di Ronchey, scritto nel marzo 1979, dopo la fine della politica di solidarietà, dopo che il Pci è stato in una maggioranza di governo, dopo che Berlinguer aveva dichiarato di volere stare dentro il Patto Atlantico, dopo il voto in parlamento sulla politica estera dei partiti comunista, socialista, democristiano, socialdemocratico e repubblicano e dopo l’articolo pubblicato da La Malfa, su un giornale americano, in cui dichiarava che ormai il Partito comunista era un partito di governo.
Sarebbe interessante approfondire questa fase nonché la posizione di Berlinguer dopo il 1979.
La seconda cosa che voglio dire è questa: Luciano nel 1993 dice che la democrazia è in pericolo e dice una frase molto bella, “non è mai vero che a una distruzione corrisponda sempre una costruzione” e infatti la ricostruzione di un sistema politico diverso da quello che era stato messo fuori uso non è mai avvenuta. Sull’Unità nel 1993 Occhetto fece una analisi opposta a quella di Cafagna, perché in quell’anno c’erano stati i grandi successi dei sindaci, da Palermo a Catania, da Torino – addirittura con due esponenti della sinistra in competizione – a Roma e a Napoli; Occhetto con Orlando e la Rete iniziò una strada progressista. Ma in un anno, nel 1994, arriva Berlusconi, e a Palermo il Pds non prende neanche un parlamentare! In cosa consisteva quindi questa “costruzione”? C’è stata una sottovalutazione totale della società italiana. Il fatto che non ci fossero più i partiti centristi portò ad una analisi cieca, difesa ancora oggi. E così punto e daccapo.
Ernesto Galli della Loggia Onorare un genio della politica come Luciano Cafagna significa anche individuare i limiti della sua analisi politica. Alla fine degli anni ’70 su Mondo Operaio ci fu un dibattito su Togliatti e il togliattismo. Luciano difese Togliatti e il partito comunista che avevano rappresentato un argine necessario – a certi prezzi – contro il ribellismo anarchico delle masse italiane. A Luciano è rimasta l’idea che i partiti dovessero avere una funzione di carattere direttivo e in questo senso poteva riassorbire in una valutazione positiva il Pci, che era un grande direttore con una grande bacchetta. A questo punto bisogna ricordare “Le radici della politica assoluta” di Alessandro Pizzorno. Luciano non ha mai considerato il fatto che nel Dna della Repubblica ci fosse un eccesso di politicità e politicismo, di dirigismo politico quale si riflette fortemente nella prima parte della Costituzione. Luciano nella Grande Slavina non coglie che è finita l’Italia che ha bisogno di direttori: con Berlusconi e la Lega emerge la voglia del paese di “fare da sé” – anche se poi non ci riesce – e che non ha più voglia di essere tenuto in riga dai partiti cercando, quindi, un nuovo rapporto con il sistema politico e con la Costituzione. Il problema della Costituzione è un problema dell’intero svolgimento della politica italiana.
Mariuccia Salvati Il discorso sul partito e la Costituente è giustissimo, ma quella necessità è più pedagogica e nasce in partiti che rifiutano il fascismo. Mi ha sempre colpito il fatto che Luciano non avesse mai scritto nulla sul fascismo. L’elemento pedagogico è fondamentale nella creazione di un accordo tra correnti culturali profondamente diverse – come erano quelle comunista, cattolica e socialista – che hanno conosciuto il fascismo e che lo rifiutano. Luciano conosceva bene il fascismo e la sua difesa del partito politico aveva dietro questo giudizio fortemente critico e pessimista sulla società italiana. Un altro elemento su cui bisogna soffermarsi parlando di Luciano Cafagna è la sua passione per le scienze sociali: gran parte delle sue intuizioni nasce dalle frequentazioni con i grandi di questa materia. I riferimenti a Tocqueville e il ragionamento sui liens, i legami, che non ci sono più, fanno nascere in lui la paura che riemergano fenomeni ribellistici e fascisti, conoscendo anche profondamente la Sicilia, alla quale era profondamente legato – da qui anche la fraternità con Emanuele Macaluso. La profondità storica a cui si rifà è quindi il suo modo di rispondere alla crisi.
Macaluso ha ricordato la caduta delle speranze immediate dl ’93-94 inerenti un nuovo sistema elettorale e la nascita di soggetti personalizzati – sindaci e presidenti di Regione – ma fortemente legati al territorio. Questo elemento, la possibile ripresa di passione e attività politica, associativa e civile penso che potesse convincere ancora Luciano. Non era sordo, non so quanto fosse speranzoso, ma sordo sicuramente no.
Paolo Pombeni Grazie a Luciano ho pubblicato “L’autorità sociale e il potere politico” per Marsilio e questo va a collegarsi proprio con la passione weberiana di Luciano per le scienze sociali. Oggi viene sottovalutato il fatto che ogni società ha bisogno di essere disciplinata, mentre Luciano – sostenitore di questo concetto – pensava che una ripresa dei partiti potesse essere utile. Il libro su Cavour è un monumento a un disciplinatore, è un libro traslato che sottolinea che l’Italia dovrebbe essere ricostruita da un uomo come Cavour, cioè da un uomo che sappia accettare il compromesso, trasformare il ribellismo in forza sociale, che sappia cogliere il vero equilibrio internazionale (diverso dall’equilibrismo tedesco). Il fascino che hanno Togliatti e De Gasperi su di lui deriva dal fatto che si tratta di costruttori politici e non di intellettuali che non sanno fare politica. In un paese di intellettuali Cafagna è un intellettuale che scrive contro gli intellettuali stessi, questo è un elemento fondamentale da tener presente.
Michele Salvati Riprendendo il discorso di Macaluso mi chiedo: la questione riguardante il fatto che il partito comunista fosse antisistema non aveva più senso? Bisogna considerare in primis la questione geopolitica: anche allora gli americani non avrebbero tollerato un partito comunista al governo. Lo potevano tollerare in Francia…
Giuliano Amato Non bisogna dimenticare il libro di Fulvio Martini “Nome in codice Ulisse”, in cui racconta dei suoi incontri alla Nato dove gli fu chiesta garanzia che informazioni attinenti alla difesa non sarebbero state condivise con il Partito comunista che entrava non al governo, ma nella maggioranza, in quegli anni.
Michele Salvati Al contrario il diverso esito del caso del Pcf e del caso Mitterrand , in conseguenza di due fenomeni: in primis la posizione geopolitica e il diverso ruolo che ha la Francia e poi il fatto che Mitterrand riuscì a dare al Partito Comunista francese una posizione minoritaria.
Va considerato comunque che il Partito comunista, anche nei momenti in cui si mostrava più pronto a sacrificarsi per il paese – e il suo contributo positivo alla stabilizzazione a una situazione sociale drammatica fu evidente nel caso del terrorismo – non ha mai voluto spendersi in un diverso messaggio ideale nei confronti dei suoi militanti. Gli andava bene così, restare in una situazione di limbo in cui non vi fu mai una sconfessione completa dell’esperienza sovietica, ed era l’epoca di Breznev, quella. Questo sia per ragioni di opportunismo organizzativo – la sconfessione sarebbe stata costosa, pur avendone avuto la possibilità, sia nel ’56 che dopo la Primavera di Praga nel 1968 – sia per pura convinzione. Infatti i dialoghi tra Tatò e Berlinguer sono da questo punto di vista incredibili, a tratti “agghiaccianti”, il che dimostra che al vertice non c’era cinismo puro. C’erano vera motivazione e macerazione su idee che oggi ci appaiono impossibili. L’idea antisistemica, quindi, oltre che sulla base geopolitica, si fonda sulle convinzioni dei dirigenti del partito stesso. Rivendicare la parola antisistema è estremamente utile: il Partito comunista fu un partito antisistema che ebbe enormi meriti.
Di partiti sherpa che trasportino alla luce della dimensione politica la melma esistente alla base ne abbiamo avuti direi. Se sono così benvengano i partiti dirigisti, se il partito moderno è un partito come la Lega o Forza Italia. Alla nascita di Forza Italia avevo quasi creduto in una nuova ipotesi di liberismo o liberalesimo, dopo la Dc che non era riuscita ad essere il vero partito della destra costituzionale – non essendo neanche di destra, come dimostra la trasmigrazione a sinistra dei suoi membri alla sua scomparsa.
Come me ci aveva creduto perfino Sylos Labini che in un paio di articoli su la Repubblica lodava la riforma delle pensioni di Onorato Castellino, maestro di Elsa Fornero. La Lega lo stoppò, dichiarando che le pensioni padane non potevano essere toccate, facendo in questo modo saltare l’alleanza e portando al ribaltone e alla vittoria della sinistra.
L’idea che si formasse un nuovo grande partito non democristiano e su basi liberali decenti in realtà poi in Italia non risultò possibile vista la mancanza di grandi leader che colgono le necessità dei tempi. Ne avremmo un disperato bisogno. Resta quindi un problema sempre aperto.