Era la voce narrante di una modernità privata delle sue “solide” basi economiche, l’analista di un mondo orfano della grande industria di massa, ma ancora combattivo e desideroso di riscossa dalle iniquità estreme e da un consumismo cieco. Zygmunt Bauman, il sociologo polacco trapiantato a Leeds e diventato cittadino inglese, se n’è andato. Non incontreremo più quella presenza sottile, il fisico allampanato, il collo allungato, un volto dall’aria fragile e mite di vecchio, da cui sgorgava però, a sorpresa, un eloquio forte e deciso, capace di sedurre platee imponenti o aule universitarie, parlando a braccio, fluente, con precisione, senza leggere appunti. Prima di una lezione gli serviva concentrarsi, in qualche angolo appartato, per qualche minuto, poi era tutto per il pubblico, come un attore di lungo corso. Di famiglia ebrea, Zygmunt dovette lasciare la Polonia con l’occupazione tedesca per arruolarsi nell’esercito sovietico; tornato in Polonia fu di nuovo costretto ad andarsene di fronte a un’ondata antisemitica, per insegnare brevemente in Israele. Entrò in conflitto con il padre, di cui non condivideva il sionismo, e trovò definitivamente casa e cattedra in Inghilterra. Un suo nipote, Michel Sfard, è un celebre avvocato israeliano, difensore dei diritti umani.
La morte era un tema a lui caro, già ben prima della perdita della moglie Janina, nel 2009 – un colpo che arrestò per qualche tempo la sua incredibile fertilità di scrittore – perché Bauman aveva una forte propensione per la filosofia, la psicanalisi, l’antropologia, per quelle domande generali di senso che molti «tecnici» del sapere evitano perché pericolose per la reputazione scientifica in qualunque disciplina. E quel «pungiglione della fragilità della vita», della finitezza umana, della inevitabilità del termine (argomenti centrali di Mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Il Mulino 2012), tornava spesso nei suoi discorsi, anche perché questo dato, coevo alla specie umana, si fa ancora più sottile nel mondo precario della «seconda modernità», quella liquefatta e leggera, che ha sostituito la precedente, stabile e pesante. Già, perché la «prima modernità» riusciva a tenerci impegnati sul «senso della vita» e a distrarci con più efficacia dal «pungiglione».
Una delle migliori raccolte dei suoi saggi, La società individualizzata, (il Mulino, 2002) comincia proprio dalla negazione della morte: l’essere umano si protende oltre la natura, si innalza sopra di essa, ma proprio «il volo della vita ci conduce inevitabilmente (e letteralmente) all’incontro con la terra»; proprio volando possiamo meglio scrutare la nostra finitudine, rendendola più visibile, indimenticabile e dolorosa. E poiché non possiamo dimenticare la nostra natura possiamo e dobbiamo continuare a sfidarla. A Bauman piaceva la tesi di Ernest Becker, l’antropologo culturale della «negazione della morte»: tutto ciò che l’uomo fa nel suo mondo di simboli è un tentativo di negare e superare il suo destino grottesco. Non facciamo che inseguire «strategie di trascendenza», in tanti diversi modi. Ci lanciamo alla cieca nell’oblio dei giochi di società, nei trucchi psicologici, in preoccupazioni avulse dalla realtà. È una forma di pazzia: pazzia convenuta, pazzia condivisa, pazzia dignitosa, ma pur sempre pazzia. Chiamiamo società – dice Bauman – quel colossale marchingegno che serve proprio a questo: convenire, condividere e conferire dignità a ciò che è stato convenuto e condiviso. Gli usi, le abitudini e la routine eliminano il veleno dell’assurdo dal “pungiglione”. Tutte le società sono fabbriche di significati, ma anche qualche cosa di più; sono i vivai della «vita piena di significato».
Bauman è stato un infaticabile lettore, che rigenera e ripropone altri autori seguendo il filo del suo discorso, che negli ultimi decenni ha fornito il linguaggio, diventato corrente, per descrivere il passaggio dalla modernità pesante alla postmodernità. In questa tessitura di un nuovo senso comune si è servito di colleghi sociologi come Anthony Giddens, Ulrich Beck, Claus Offe, Richard Sennett, Pierre Bourdieu, Robert Castel e di filosofi come Gadamer, Rorty e Richard Bernstein. E ne ha dato una esemplare e sintetica versione nel libro realizzato in dialogo con Ezio Mauro, Babel (Laterza 2015).
Il postmodernismo di Bauman si definisce in primo luogo per le sue basi materiali: la fine del capitalismo ortodosso, quello in cui il capitalista rende i lavoratori dipendenti, li immobilizza, legando capitale e lavoro «in una unione che come i matrimoni decisi in cielo nessun potere umano potesse sciogliere». La modernità pesante era quella della reciproca dipendenza tra capitale e lavoro, una prigione comune, in cui ciascuna delle due parti aveva l’interesse acquisito a mantenere l’altra nella giusta condizione. Era l’orizzonte socialdemocratico, fordista, del welfare state, un orizzonte di lunga durata, in cui il lavoro era fisso in un’azienda, la cui esistenza era nettamente più lunga della speranza di vita dei suoi operai e anche di quella dei singoli membri della famiglia proprietaria. Nella seconda modernità l’orizzonte è di breve termine, si cambia lavoro dieci volte in una vita, l’incertezza è un fattore di individualizzazione, l’idea di interessi comuni si fa nebulosa e in definitiva incomprensibile, la solidarietà non è più una tattica razionale. La «liquidità» suggerisce strategie di vita del tutto diverse da quelle che portarono alle organizzazioni difensive e militanti della classe operaia. Il luogo di lavoro assomiglia di più a un campeggio che a una casa e tra capitale e lavoro è frequente il disimpegno unilaterale. Non stupisce che lo stesso modello volatile attecchisca nella vita sentimentale e famigliare. Il sistema impone la flessibilità e costringe gli individui a cercare una soluzione individuale, biografica, a un problema generale. Il dettaglio, rovinoso, è che queste soluzioni non esistono e perciò non resta che trovare appigli per distrarsi o appendervi i propri malumori. Le consolazioni del mercato ci sono, sì, ma il paradiso consumistico ha il proprio «inferno portatile»: il tormento riservato ai visitatori non aventi diritto. Chiamatelo se volete «trionfo dei nomadi», dopo il lungo periodo storico iniziato con il «trionfo degli stanziali» (l’agricoltura). Ecco la globalizzazione secondo Bauman. La non territorialità del potere delle nuove élites (Manuel Castells), vincitrici della grande guerra di indipendenza dallo spazio, somiglia alla concezione cristiana del paradiso, nell’al di là.
Bauman ha prospettato una concezione forte del pluralismo, culturale, e del dialogo tra le differenze, in polemica per esempio con Ernest Gellner e con le tesi della superiorità della ragione occidentale e dell’individualizzazione come modello di vita universale. Per lui il pluralismo è irreversibile, le visioni del mondo sono radicate in diverse tradizioni culturali e non sono riducibili a una sola. E dunque la comunicazione attraverso le diverse tradizioni diventa il problema principale del nostro tempo. Ecco una nota da appuntarsi nel dare l’addio a un amabile grande vecchio che ci lascia: non ci sarà una massiccia conversione verso l’omogeneità quale che sia: urgono specialisti nella traduzione e urge sviluppare l’arte della civile conversazione, secondo i migliori insegnamenti della filosofia dell’ermeneutica e del pragmatismo: due tra le migliori fioriture del pensiero umano, la prima in Europa (da Gadamer a Ricoeur), il secondo in America (da James a Dewey e Rorty).