Angela Bruno ha compiuto da poco trent’anni e lavora (o dovrei dire lavorava?) come venditrice a contratto presso Green Power, azienda di servizi per le energie rinnovabili a Mirano, nel bel mezzo dell’infaticabile Nord Est. Grandi occhi scuri e una massa di capelli bruni, il suo viso ripreso da tutti i media mostra segni di pesante stanchezza. E’ a casa da un mese – e lei se non lavora non guadagna – a causa di una vicenda più grande di lei. Una vicenda tutta iscritta nell’anomalia politica italiana, eppure rappresentativa di processi ben più vasti, globali, che investono il corpo, il lavoro, la vita intera di donne e uomini.
Ma partiamo dal locale. Nelle scorse settimane, un’intera macchina mediatica si è messa in moto per interessarsi alla vita tranquilla di una donna di provincia quando la sua strada ha incrociato quella del Grande Seduttore e Sommo Intrattenitore, Silvio Berlusconi, abituato a divertire il suo pubblico con la messa in scena di una sessualità dilagante, di un desiderio teso a occupare ogni spazio disponibile e ogni corpo femminile che si offra allo sguardo. Il 10 febbraio Angela è in piedi sul palco a descrivergli i vantaggi dell’installazione degli impianti Green Power, e il leader del centrodestra si inserisce nel suo (tentativo di) speech con battute dall’inequivocabile doppio senso. La donna, sorridendo, prova a più riprese a portare il discorso su un binario professionale e di pubblica decenza, ma il Grande Seduttore non si fa scoraggiare e affonda il colpo finale: “Tutto sommato mi pare un’offerta conveniente… si vuole girare un’altra volta?” e, dopo averle rimirato il fondoschiena, aggiunge “Sì, è un’offerta conveniente”. La platea ride a crepapelle. Angela, sulle prime, ride con loro.
La vicenda è nota. Il giorno dopo, date le prime reazioni indignate della stampa (o almeno di una parte di essa), l’azienda diffonde un comunicato in cui rassicura quelli che Berlusconi definisce “sepolcri imbiancati” e “moralisti da strapazzo”: Angela Bruno non sarebbe affatto stata “offesa” dall’ex premier, è stata anzi “divertita e onorata” dalle sue attenzioni. Comunicato che prontamente la lavoratrice smentisce, raccontando una versione ben diversa, quella di una donna imbarazzata che, schiacciata quasi fisicamente tra “una persona potente” e “i suoi superiori” ha fatto del suo meglio per mantenere un atteggiamento professionale e al tempo stesso assecondare la messa in scena dell’ex premier. Forse per non offenderlo, più probabilmente perché non poteva fare altrimenti.
D’altronde, è questo ciò che si confà e si richiede a ogni promoter, nonché a ogni sportellista, telefonista, hostess, assistente di viaggio, a ogni donna che opera all’interno del sempre più vasto e differenziato mondo dei servizi, dove il sorriso incondizionato, la compiacenza, la pazienza, l’accondiscendenza verso i capricci del cliente sono requisiti professionali indispensabili, skill altamente valutate.
L’affaire Angela Bruno ci racconta allora, sì, la persistenza in Italia di una cultura sessista pubblicamente esibita, che si fa spettacolo per un pubblico di uomini, ma anche di donne, complici e compiacenti. Ci racconta però anche un fenomeno più ampio, che va ben al di là dei siparietti nostrani, e riguarda la trasformazione delle forme e dei significati del lavoro nell’economia post industriale, o “informazionale” coma la chiama Manuel Castells, di cui le donne rappresentano il paradigma di riferimento. In un mercato che offusca il confine tra produzione, promozione e consumo, dove il corpo è messo a valore tanto come capitale produttivo quanto come oggetto/segno e come ricettore di sensazioni, il “secondo sesso” ha trovato uno spazio inedito e un ruolo diverso dal passato, eppure profondamente radicato nella valorizzazione dei ruoli di genere tradizionali.
E’ quella che si chiama “femminilizzazione del lavoro”, che non significa solo più donne nelle fabbriche, nei servizi, nelle professioni. Non significa nemmeno soltanto la catena di sostituzioni che si attiva quando l’ingresso di un numero crescente di donne nel lavoro retribuito trasforma di necessità anche il lavoro riproduttivo in lavoro produttivo svolto da altre donne, in prevalenza straniere e migranti. Significa, innanzitutto, come spiega Cristina Morini nel libro Per amore o per forza (Ombre Corte, 2010), che il lavoro assume caratteristiche di precarietà, mobilità, assoggettamento, dipendenza che sono state nei secoli tipicamente sperimentate dalle donne, dentro e fuori le mura domestiche. Significa, poi, che il “divenire donna del lavoro”, secondo il motto deleuziano, mette a valore qualità, capacità e saperi (relazionali, di linguaggio, di propensione alla cura) tradizionalmente associate al femminile.
“Lavoro emozionale” l’ha chiamato già trent’anni fa, nel suo studio pionieristico sulle assistenti di volo (The Managed Hearth), l’americana Arlie Russell Hochschild, che ha esteso in seguito le sue ricerche alle molte e diverse forme di commercializzazione della vita intima. La gestione pubblica dei sentimenti, la capacità di tradurli per lavoro in atteggiamenti e comportamenti “adeguati” a soddisfare clienti, superiori, colleghi, è tra le caratteristiche più richieste ed apprezzate in un’economia dei servizi in continua crescita, e accomuna figure diverse e distanti nella pratica del lavoro quotidiana, come infermiere e medici, assistenti alla clientela, receptionist, professionisti della bellezza, escort… “Quando il manager dà all’azienda entusiasmo e fiducia, quando l’hostess di volo dà ai passeggeri la sua calda rassicurazione, costruita ma quasi genuina, ciò che viene venduto come aspetto della forza lavoro è proprio la recitazione profonda”, scrive Hochschild nel più recente Per amore o per denaro (il Mulino, 2006). Ed è a questa capacità di “recitazione” che il capitalismo contemporaneo guarda con sempre maggiore interesse, come d’altronde rivelano i tanti annunci del tipo: “Receptionist bella presenza, spiccate capacità comunicative, personalità solare e ricca di entusiasmo”.
Torniamo ora ad Angela Bruno. Se queste sono le caratteristiche del lavoro, in tutto il mondo avanzato e in via di sviluppo (per quanto in proporzioni diverse), che cosa ci disturba più profondamente assistendo alla scena che si svolge sul palco di Green Power? Perché non riusciamo a fare spallucce e a derubricarlo tra i molti casi in cui i clienti “si allargano”? E tanto più lo fanno quando più sono consapevoli di avere il coltello (i soldi, la fama) dalla parte del manico? Non si tratta solo del fatto che il suddetto cliente è un ex presidente del consiglio e candidato per la sesta volta a governare l’Italia. Come ha commentato Lorella Zanardo, l’autrice del documentario Il corpo delle donne, “se questo accadesse in Germania, il pubblico si alzerebbe e se ne andrebbe, non solo le donne ma anche gli uomini”.
Il fatto è però un altro, almeno dal punto di vista che ho assunto fin qui. Un mondo del lavoro in cui le donne – ma anche gli uomini – non possono scegliere, in cui sono costrette a rispondere “grazie per l’opportunità” a ogni offerta che profumi di occupazione (non sempre di retribuzione) per quanto occasionale, temporanea, non garantita sia, mette continuamente a rischio la dignità dei lavoratori e delle lavoratrici, spingendoli fino al limite di perdere la cognizione di ciò che è lavoro. Dove per lavoro si intende un’attività a cui corrisponde un guadagno commisurato al valore prodotto, non una possibilità di utile impiego del proprio tempo o un percorso di eterna formazione, come nel selvaggio mondo degli stage gratuiti di durata infinita.
Quando la struttura e la sovrastruttura, l’universo della vita materiale e la sua rappresentazione politica e culturale si rispecchiano così fedelmente, come in Italia, il sistema svela la sua peggiore crudeltà, e al tempo stesso va in cortocircuito. La richiesta di disponibilità riprende il volto ben noto della pubblica umiliazione, lo scherzo galante rivela la sua natura molesta. E di mobbing, Angela, ne ha subito fin troppo, da parte dell’azienda ma anche di un centrodestra che, nella persona dell’ex governatore del Veneto Giancarlo Galan, non le ha risparmiato nemmeno aperte minacce.
Il disagio che proviamo di fronte a una giovane donna, madre e lavoratrice, costretta a sorridere, a “stare al gioco”, a farsi trattare da bambola, o peggio ancora da oggetto sessuale, per non perdere il posto di lavoro, riguarda allora la sensazione che stia avvenendo davanti ai nostri occhi una perdita di umanità. Quell’umanità che appare oggi sempre più urgente rifondare su un’antropologia filosofica del lavoro che, senza nostalgie passatiste, riesca a tracciare la linea di confine tra la messa a valore soggettiva della vita nella sua interezza e la mercificazione della dignità.
E tutto sto mega pippone ideologico-filosofico con tanto di citazioni dall’illeggibile parolaio Deleuze e altri intellettuali di sto cavolo per una battutina stupida e innocua, che ha solo giovato alla greenpower, e al rinnovabile, in termini di visibilità e di pubblicità, e grazie a cui anche la fanciulla in questione ha avuto il suo quarto d’ora di celebrità? Ma per favore. Andate a lavorare.
L’unico discorso serio è quello del lavoro gratis a cui molti fessi si sottopongono. Si arriva al paradosso di laureati assunti per fare stage gratuiti nei supermarket con mansioni di “scaffalisti”, cioè in pratica quelli che tolgono la merce dagli scatoloni.
E basta con questa storia di cosa succederebbe all’estero. Quando c’è di mezzo la pubblicità, e dunque la grana, ovunque il corpo femminile è usato. Tira più….. eccetera. Battuta maschilista, ma vera. E le donne lo sanno. E se ne approfittano. Non tutte, ma buona parte.
Come ha commentato Lorella Zanardo, l’autrice del documentario Il corpo delle donne, “se questo accadesse in Germania, il pubblico si alzerebbe e se ne andrebbe, non solo le donne ma anche gli uomini”.
La Germania ha legalizzato il lavoro sessuale da 10 anni, e tutte le donne hanno dignità, qualsiasi sia la professione che si sono scelte. Non c’entra nulla? Sicuri?…..