Brianzola, classe 1975, Alessia Mosca è eletta per la prima volta in Parlamento nel 2008 nei banchi del Pd. Prima di allora la ricerca all’Arel, (l’Agenzia di ricerca e legislazione fondata da Nino Andreatta), un periodo di lavoro a Bruxelles e uno nella Segreteria tecnica dell’allora Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Enrico Letta.
In Parlamento, un’intensa attività sul tema delle politiche di genere, grazie a cui dal 2009 è entrata a far parte degli Young Global Leaders (del World Economic Forum), e un anno dopo è nominata fra i Rising Talents del Women’s Forum for the Economy and Society.
È a lei che si deve (con Lella Golfo del Pdl) la legge 120/2011, che prevede un meccanismo progressivo per il riequilibrio di genere nei CdA e nei consigli sindacali delle società quotate, da una soglia di almeno un quinto fino un terzo.
Il colloquio con Alessia Mosca tocca vari temi. Si parte naturalmente dalla legge sulle quote (“abbiamo voluto dare shock a un sistema bloccato”), fino al provvedimento sul femminicidio, che ha dato luogo ad aspre polemiche tra le stesse donne (e non a caso, “le leggi servono anche a tematizzare le questioni”, osserva la parlamentare Pd).
Nel mezzo la storica diatriba sulle quote, e più in generale il tema delle azioni positive e dei meccanismi da attivare nel tentativo di affrontare la questione femminile in un Paese, l’Italia, che secondo il Global Gender Gap Index del 2013 non supera il 71esimo posto su 135 stati monitorati.
Nel futuro più prossimo, ci racconta, c’è un progetto di legge sullo “smart working”, una tipologia di lavoro che dia alle donne (ma non solo) “la possibilità di svolgere da remoto molte di quelle mansioni che oggi sono svolte in ufficio”.
Onorevole Mosca, qual è la situazione a più di un anno dall’entrata in vigore della legge 120/2011? Cosa emerge dall’attività di monitoraggio?
La situazione è positiva: secondo i dati, l’adeguamento alla norma è stato notevole e nel giro di un anno si è passati da una situazione in cui presenza media femminile nei Cda delle aziende quotate in Borsa e delle società a partecipazione pubblica inferiore era inferiore al 7% a una percentuale attuale del 17%. Siamo praticamente a compimento del primo gradino di presenza individuato dalla legge, quello del 20%.
Quando si parla di riequilibrio della rappresentanza di genere, il tema delle quote è un classico terreno di scontro. Le resistenze spesso arrivano dalle stesse donne, che considerano le quote come frutto di un’ottica di “riserva indiana”.
La diatriba ideologica sulla questione delle quote rosa ha accompagnato tutto l’iter di discussione della legge. Quello che è emerso, però, è che dall’analisi del problema in questione, un numero crescente di persone in principio fermamente contrarie alle quote rosa abbia infine realizzato come, allo stato attuale, non ci fossero alternative per dare un vero e proprio shock a un sistema che era bloccato. Io stessa non ero una grande sostenitrice delle quote rosa. D’altro canto, i risultati ottenuti a poco più di un anno dall’entrata in vigore della legge hanno confermato che la strada intrapresa è quella giusta. Non a caso, le quote nella nostra legge sono concepite come una vera e propria azione positiva, per cui la loro applicazione ha una previsione di legge solo temporanea.
E per quanto riguarda la politica? Lei è favorevole all’inserimento di quote rosa nella legge elettorale?
Per quanto riguarda invece la legge elettorale, io sono favorevole a sistemi che tengano in considerazione il fatto che per le donne è più difficile l’accesso da più punti di vista e quindi penso che sia giusto inserire una misura che consenta l’espressione di una doppia preferenza di genere. Un correttivo che, pur non irrigidendo il sistema con delle quote, possa garantire risultati molto positivi. Non a caso, il Partito democratico ha previsto la doppia preferenza di genere in occasione delle elezioni primarie per i parlamentari e questo ci ha consentito di raggiungere la quota del 40 % di candidate in lista.
Veniamo al tema del lavoro. Attualmente, la quota di donne occupate in Italia rimane di gran lunga inferiore a quella dell’Ue (47,1% contro 58,6%). Grande importanza, in questo quadro, hanno le politiche di conciliazione, per cui lei si è già battuta, (penso ad esempio all’introduzione del congedo di paternità obbligatorio). Quale altre misure pensa siano necessarie?
Il tema delle misure da introdurre per sostenere il lavoro femminile è molto vasto, anche perché si parte da una situazione, quella italiana, in cui la funzione di accudimento (dei figli ma anche degli anziani) ricade per la stragrande maggioranza sulle spalle delle donne. Il problema ha un radicamento culturale profondo, e sappiamo che per interventi di questo tipo sono necessari molti anni. Parlando di misure più contingenti, l’introduzione del congedo di paternità obbligatorio ha avuto, analogamente alle quote, una funzione di shock culturale, perché ha imposto, per via legislativa, una condivisione maschile delle attività di cure e assistenza. Personalmente, sto lavorando a una proposta di legge che incentivi il cosiddetto “smart working”, cioè una tipologia di lavoro che flessibilizzi la presenza sul luogo di lavoro e gli orari, facendo leva sulle nuove tecnologie che consentono di svolgere da remoto molte di quelle mansioni che oggi sono svolte in ufficio. Si tratta, a mio parere, di un aiuto fondamentale per donne che si trovano a gestire più fronti ma anche per il sistema, che sappiamo avere grossi limiti sulle questioni della flessibilità e dell’utilità.
È stato da poco approvato il decreto legge sul femminicidio, in seguito al quale è sorto un dibattito sulla opportunità di alcune misure (per esempio la diffida obbligatoria o l’irrevocabilità della querela). Lei cosa pensa del problema e del provvedimento?
Io credo che il fatto che tra i primi atti portati a termine da questo Governo ci siano la ratifica della Convenzione di Istanbul e a seguire il provvedimento sul femminicidio sia da considerarsi molto positivamente. È un segnale molto importante, nel tentativo di affrontare adeguatamente una questione che è diventata un’emergenza sociale. Spesso le leggi servono anche a tematizzare una questione. So che molte resistenze hanno riguardato in particolare l’irrevocabilità della denuncia; nel complesso credo che sia stato fatto un buon lavoro sia dal punto di vista legislativo (c’era infatti la necessità di garantire la costituzionalità di tale provvedimento), e che una certa rigidità rispetto alla possibilità di ritiro della querela fosse necessaria. Sappiamo infatti come molte donne ritirino la denuncia perché psicologicamente ed economicamente dipendenti dalla persona verso cui hanno deciso di procedere. Nel complesso, credo quindi che si possa essere soddisfatti del provvedimento.
Una delle polemiche relative al femminicidio riguarda in realtà lo stesso uso del termine e la grande risalto al tema delle violenza contro le donne, trascurando forse altri aspetti relativi alle politiche di genere. Lei si occupa della materia su più fronti. Crede che in effetti ci sia il rischio che questa attenzione mediatica sul tema della violenza finisca per oscurare le altre battaglie sul fronte della parità di genere?
Io credo che non ci sia un aut aut e che anzi la tematizzazione di alcune questioni possa dare risalto ad altre che sono in varia misura collegate. La violenza di genere è strettamente connessa al fatto che in Italia le donne sono economicamente più deboli e dipendenti dalle figure maschili; quindi non credo che un problema escluda l’altro. Detto questo, appare evidente come negli ultimi tempi il tema del femminicidio abbia polarizzato l’agenda dei media a discapito degli altri aspetti della questione femminile: penso al fatto che le donne siano fuori dal mercato del lavoro, agli ostacoli che incontrano nel fare carriera, alle enormi difficoltà di conciliazione. Tuttavia, fino a un anno fa il problema del femminicidio non era presente sui media, se non marginalmente; potrebbe quindi costituire il volano da cui partire per affrontare il tema da una prospettiva più ampia.
E per quanto riguarda la politica? Quali sono i principali ostacoli (di natura culturale ma anche pratica) per una donna che vuole fare politica in Italia oggi?
Vi sono numerosissimi ostacoli, mi soffermo su uno di ordine pratico che, nella mia esperienza, ha un’importanza preponderante. Si tratta dei tempi. I tempi della politica sono molto più difficili da conciliare per una donna rispetto ai tempi del lavoro. Spesso, al di là di chi fa politica a tempo pieno per un determinato periodo della propria vita (come sta capitando a me in questo periodo) la politica è un’attività che di norma si porta avanti al di là della propria attività di lavoro. Io ho trascorso una parte della mia esperienza politica a Bruxelles, in contesti internazionali ed è una situazione molto meno difficoltosa rispetto al nostro Paese, in cui la politica è fatta da riunioni interminabili, senza un criterio di organizzazione. Un impegno a razionalizzare le dinamiche e i tempi di riunione e deliberazione, che può apparire banale, potrebbe costituire un aiuto non indifferente alle donne che decidono di fare attività politica concreta.