Non c’è tema più controverso della crisi della forma partito. L’uso del termine “partito” per connotare le forme di aggregazione politica che intendono raccogliere consensi nelle competizioni elettorali è ancora largamente diffuso , sebbene in compresenza col termine “movimento” e, più raramente, con quello “unione”. Un tempo “movimento” era usato per indicare polemicamente un distacco dal modello del “partito”, che veniva svalutato. Oggi a volte è ancora così (M5S) a volte no.
In realtà grande è attualmente la confusione sotto il cielo. Per certi versi i partiti attuali, in Italia, ma anche negli altri paesi che sono fondati sul costituzionalismo occidentale, sono lontanissimi dai modelli storici che accreditarono questa “forma” come il perno della costruzione di un consenso “democratico” attorno allo stato come forma del potere politico. Per altri versi i meccanismi sociali e politici che avevano portato al consolidarsi di quel sistemi costituzionale richiedono ancora di essere implementati in altro modo, se i partiti non sono più in grado di assolvere alla loro funzione originaria.
Vediamo di chiarirci. Il partito politico è nato dal confluire di istanze diverse: a) la peculiarità del costituzionalismo che basa il potere sul consenso da verificare per via competitiva (le elezioni, ma anche le votazioni in tutti gli organi assembleari); b) la necessità di incanalare le appartenenze sociali e subculturali in soggetti collettivi adatti a stare in quel contesto competitivo possibilmente senza metterne a rischio la tenuta; c) l’esigenza di stabilizzare le competizioni intorno alle decisioni da prendere, evitandone la continua fluttuazione. Di qui nasce la peculiarità del cosiddetto “partito moderno” che è ad un tempo, per usare un vecchio modo polemico di presentare la faccenda, “una chiesa” e un centro di elaborazione ideologica. Dal primo versante prende la natura “istituzionale”, cioè il suo non essere disponibile come soggetto corporato alla volontà di appartenenza espressa dai suoi membri: il partito è, in astratto, “eterno” ed andandosene gli appartenenti si scindono, ma non hanno il potere di “scioglierlo” (neppure se se ne andassero per ipotesi tutti, perché sempre qualcuno che viene dopo potrebbe “resuscitarlo”). In dipendenza da questo il partito dà ordini, prende decisioni, organizza azioni e gli appartenenti non possono che adeguarsi a quanto “vuole” il partito.
Tuttavia per giustificare questa natura istituzionale il partito ha bisogno di basarsi su una “visione del mondo”. Notoriamente per questo esso aveva preso in prestito un vocabolario religioso (“fede”, “apostolato”, “martirio”, ecc.), ma soprattutto la convinzione fondamentale della razionalità occidentale: il pensiero è in grado di stabilire “il vero” e chi non si adegua a questo non può essere ammesso nella comunità degli uomini razionali (può forse essere “tollerato” in attesa che riconosca il proprio errore). Certo, il rischio palese della guerra civile permanente che era implicito in questa impostazione ha molto moderato la pretesa appena descritta: si conviene per esempio, ma a malincuore, che la verità non sia completamente conoscibile e quindi che sia ammissibile un progresso nella sua conoscibilità derivante dal confronto dialettico di una pluralità di vie verso la sua ricerca.
In quest’ottica il partito moderno non poteva avere che una natura o totalitaria o federale. Se prevaleva il versante legato all’illusione della conoscibilità della “verità giusta”, il partito era la pars pro toto, cioè semplicemente l’avanguardia o la prefigurazione di quel che la comunità politica avrebbe dovuto essere in base a quanto razionalmente stabilito. Chi non concordava poteva appunto o essere tollerato in attesa che la sua razionalità si sviluppasse abbastanza da capire il proprio errore e di approdare alla verità, o, nei casi più radicali, doveva essere espunto dal sistema (privandolo della libertà se non della vita, chiudendolo in un manicomio, o mandandolo in esilio). Se invece si voleva la convivenza fra partiti “diversi”, la cosa era possibile solo relegando la verità in ambiti socialmente circoscritti, in una sorta di neo-tribalismo, che concedeva la presenza di “verità” diverse per i diversi gruppi, a patto che queste verità non uscissero dai loro confini sociali e non entrassero in conflitto per stabilire gerarchie. Lo spazio pubblico era gestito dalle diverse “parti” solo come spazio dove mettere in comune i benefici di una certa convivenza.
È un’immagine troppo astratta ed oggi completamente obsoleta?
Per tanti versi ovviamente oggi si sono indebolite sia le sociabilità diciamo così “ecclesiali” sia quelle a base ideologica. Dunque dovrebbe prevalere il modello federativo in un sistema in cui secondo alcuni dominerebbe ciò che viene definito relativismo. Tuttavia vi sono ostacoli a questa soluzione. Il primo è l’eccesso di frammentazione e l’impossibilità di circoscrivere questa dinamica se si ammette, come succede, che qualsiasi “interesse” o qualsiasi forma di “appartenenza” abbia titolo a trasformarsi in “partito” riconosciuto dal sistema. Il secondo è che un sistema “federativo” è di difficile gestione quando occorrono decisioni su temi dirimenti che implicano gerarchizzazioni nella gestione delle risorse (nessuna componente vuole porsi in una posizione diversa da quella del riconoscimento a priori delle sue ragioni costitutive). Il terzo è che c’è comunque la tentazione a che ogni componente, per quanto piccola ricorra all’ideologia “totalitaria” per non perdere la propria capacità contrattuale e per prevenire scissioni al suo interno.
Se non mi inganno, è quanto sta avvenendo più o meno in tutti i sistemi a base costituzionale, anche se alcuni sono in grado di marginalizzare questi fenomeni, mentre altri finiscono vittime di queste dinamiche. Del resto in un sistema politico fondato sui principi di rappresentanza e di legittimazione della decisione politica attraverso il passaggio per il confronto elettorale è impossibile agire senza dei meccanismi di canalizzazione e di governo delle appartenenze e stabilizzazione del conflitto che sorge da questa realtà.
Per dirla banalmente ecco perché oggi il dibattito sulle riforme elettorali oscilla fra il ritorno al proporzionalismo (buono per il contesto “federativo”) e quello maggioritario che serve a “costringere” ad aggregazioni ampie forze riottose in vista di legittimare una decisione che possa prescindere dal negoziato con troppe parti sociali e politiche.
Il vecchio partito “ideologico” era in grado di assolvere a questo compito, perché metteva in rapporto la gestione di una “cultura antropologica” (una certa visione del mondo) con la sua inserzione in un contesto pluralistico: era il partito che, cane da guardia dell’ortodossia, tranquillizzava i suoi aderenti in merito ai compromessi inevitabili nella gestione della decisione politica, in quanto assicurava che essi non avrebbero messo a rischio la “vittoria finale” dell’ortodossia, anzi quasi la avrebbero agevolata (perché, come si diceva una volta, si entrava nella mitica “stanza dei bottoni”).
Quelle “ideologie” però reggevano perché quasi ovunque erano il collante di componenti sociali e subculturali che si vedevano così riconosciute (c’era il partito dei lavoratori, quello dei cattolici, quello degli imprenditori, quello del ceto medio, ecc. ecc., anche se i loro nomi erano “ideologici”). Il venir meno di una società identificabile in grandi corporazioni (uso questo termine per brevità) ha di conseguenza indebolito a morte quella tipologia di forma partito. Paradossalmente ciò ha dato origine a tre vie d’uscita dalla crisi: il ritorno all’ideologia totalizzante; la trasformazione del partito in una compagine di seguaci di un leader; la ricerca del “partito nicchia”. Naturalmente queste tipologie possono sia esistere per così dire allo stato puro ( un partito che ne incarna una sola) sia mescolarsi tra loro in quantità variabile all’interno di uno stesso partito.
Nella prima tipologia vediamo partiti tutti “ideologici” come è il caso del movimento di Grillo: lo unisce una fede, talora fanatica, in una serie di “giudizi” totalizzanti sui quali misurare la realtà. Naturalmente ci sono parodie di questa tipologia come in molti movimenti dell’estrema sinistra o dell’estrema destra, oppure presenze sottotraccia di queste pulsioni totalitarie in partiti apparentemente nuovi, come PDL, FI, PD ( solo noi siamo i “puri”, gli altri sono corrotti, farabutti, ecc.).
Il secondo caso è il più innovativo, in quanto qui il leader non è il leader di una ideologia che è esistita prima di lui ed a prescindere da lui, per cui semplicemente ne fornisce l’interpretazione autentica, ma il leader è colui che espone una sua ideologia (più o meno elaborata, ovviamente) che è un annuncio, una “buona novella” (evangelo) in grado di fornire una spiegazione ai travagli del suo tempo. Saranno poi i suoi seguaci ad elaborare e completare questa buona novella e il partito si costruisce così per cerchi concentrici attorno a questa figura. Essa è facilitata nel suo annuncio dal disporre dei nuovi moderni mezzi di comunicazione, soprattutto quelli che o lo rendo “visibile” a tutti (TV) o danno ai suoi seguaci l’illusione di poter interloquire con lui con continuità (internet).
Il terzo caso è quello che al momento ha meno chance di affermazione. Il “partito nicchia” è quello che sfrutta una notevole compattezza data dalla “obbligatorietà” (vera o presunta poco importa) delle appartenenze. E’ tipico il partito delle minoranze (etniche, religiose, sessuali, ecc.). Esso programmaticamente è consapevole di non potere “espandersi”, ma è convinto che la sua compattezza forzata gli consenta di guadagnarsi posizioni notevoli grazie alla cessione dei suoi “servigi” alle varie componenti di un sistema che è in equilibrio instabile (se il sistema è molto stabile i partiti-nicchia possono sopravvivere solo per generosità ideologica dei signori del sistema).
La situazione attuale vive nel guazzabuglio di queste diverse forme partito che da un lato competono fra di loro e dall’altro danno origine a sintesi di esse che sono esplosive, proprio perché si tratta della combinazione di elementi chimicamente instabili.
Tuttavia, se si vuole uscire dalla attuale difficoltà del costituzionalismo occidentale è necessario trovare una forma di gestione delle diverse appartenenze sociali che sia in grado da un lato di ricondurre a sintesi abbastanza vaste le molteplici connessioni e collocazioni sociali di cui è titolare ogni cittadino, e che dall’altro abbia come obbiettivo la trasfusione del consenso così ottenuto in un consenso/legittimazione più vasto rispetto agli spazi pubblici, dal comune alla comunità europea verrebbe da dire, in cui si strutturano le diverse “comunità di destini” e in cui di conseguenza si deve esercitare il dovere della “decisione politica”.
Breve, sintetico, ma di grande utilità.
Perchè consente di comprendere i fenomeni politici e di scegliere quale percorso sia pià giusto per il futuro e per le proprie convinzioni.