Turchia, il problema è Erdogan non Akp
E ora si apre il conflitto con Gul

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Delle contestazioni in corso in Turchia abbiamo parlato con Cengiz Aktar, professore di Scienze politiche all’Università di Istanbul Bahcesehir, dove è direttore del dipartimento di Relazioni con l’Unione europea.

Aktar è uno dei quattro intellettuali turchi che nel 2008 lanciò una petizione nota come ‘Appello al perdono’ nei confronti degli armeni per il genocidio del 1915. In questi anni ha parlato spesso di quanto sia necessario lasciarsi alle spalle quella che definisce la “memoria cancellata della Turchia”. Il Paese – scriveva nel 2009 – è “in profonda mutazione dagli anni ’90 e questa fase si è accentuata nel 1999 con la prospettiva dell’adesione all’Unione europea”. Nel 2011 Aktar ha salutato il restauro e l’inaugurazione delle fontane di Habab, un monumento simbolo della memoria degli armeni, nel cuore dell’Anatolia. E questo restauro – va ricordato – è stato finanziato con il contributo del Ministero della cultura turco.

Proprio in questi giorni l’Akp, il partito islamo-conservatore del primo ministro Erdogan, ha superato la barra dei dieci anni di governo. E proprio in questi giorni, un contestazione senza precedenti sta coinvolgendo le città turche. L’epicentro della protesta è Istanbul e più esattamente piazza Taksim, che il governo intende sottoporre ad un contestato restyling: una ristrutturazione che prevede la riduzione del parco Gezi, la costruzione di un centro commerciale e di una grande moschea. La risposta brutale della polizia ad una manifestazione pacifica ha portato in piazza migliaia di persone.

La contestazione nei confronti del primo ministro Erdogan è durissima. A volte è stata letta come la risposta della Turchia laica contro una cappa di repressione islamista che vorrebbe imporre ai citttadini regole di stretta osservanza religiosa, attraverso leggi come quella che proibisce la vendita di alcoolici nei negozi dopo le dieci di sera.

Sta emergendo una frattura tra la Turchia secolare e quella islamista? O si tratta di deficit democratico e quindi di un abuso di potere da parte di Erdogan?

Sceglierei la seconda spiegazione. L’Università Bilgi a Istanbul ha appena realizzato un sondaggio tra i manifestanti: il 92 percento degli slogan prendeva di mira Erdogan. È una cifra enorme. L’obiettivo preciso delle proteste è il primo ministro. Gli slogan non evocano mai il governo. Né il partito al potere, l’Akp.

Per quel che riguarda una possibile contrapposizione laici-islamisti, va segnalato che in piazza ci sono molti musulmani. In particolare c’è il gruppo noto come ‘musulmani anticapitalisti’. Giovedì 6 giugno si celebrava una una festa sacra per l’Islam: hanno pregato, a Piazza Taksim. E gli altri manifestanti, per rispetto, non hanno bevuto alcoolici.

Insomma, non si può qualificare questo movimento come una reazione degli ambienti laici: certo, tra chi protesta, sono molti coloro che rifiutano questa intrusione nella vita privata. Ma, per l’appunto, si tratta più del rifiuto di un’intrusione che del rigetto di un tentativo di islamizzazione. La legge sugli alcoolici è diventata una battaglia-simbolo, perché la gente si chiede come mai si parli tanto del rischio alcoolismo in Turchia, visto che non esiste.

La verità è che si tratta di una decisione del primo ministro, che fa dell’ingegneria sociale. Ha un’idea di come dev’essere la gioventù turca: la vuole obbediente e non vuole che consumi alcool. Ma la gioventù turca non lo fa, e l’80 percento della popolazione turca non beve mai alcool. Insomma, si tratta di problemi artificiali. E artificiali sono le scelte e le decisioni adottate: non corrispondono alla realtà della società e del Paese.

Erdogan ha un modo molto autoritario di assumere decisioni, lo fa senza alcuna consultazione. La contestazione, per esempio, è stata provocata dalla decisione di trasformare uno degli ultimi parchi che restano, nel centro della città, in una caserma che è un falso, perché è la riproduzione di quella ottomana, destinata peraltro a trasformarsi nell’ennesimo centro commerciale: ma non è la municipalità di Istanbul ad averlo deciso, è una scelta del primo ministro, questo piccolo micromanager autoritario, che ogni giorno si sveglia con un’idea diversa.

Non consulta nessuno. E ogni volta che qualcuno gli fa notare che ci sono dei cittadini o – come è il caso di Taksim – un movimento di cittadini, che magari gli chiedono di non tagliare quegli alberi perché c’è bisogno di respirare, va su tutte le furie. Dice che sono ‘vagabondi’ e ‘teppisti’. Penso che il suo stile personale, molto autoritario e molto arrogante, sia una delle cause principali della esasperazione cui assistiamo in questi giorni.

Lei ha parlato dei ‘musulmani anticapitalisti’ presenti alle manifestazioni. Quindi in queste piazze non si rifiuta l’Islam. O addirittura si condivide l’idea di Erdogan che dare ad una donna il diritto di portare il velo significhi garantirle la libertà di scegliere?

I musulmani anticapitalisti sono un piccolo gruppo, ma va sottolineato che fra i manifestanti ci sono anche elettori del partito di Erdogan al potere. L’insofferenza è generalizzata. Tra i giovani laici in piazza ci sono tante ragazze, che riconoscono il diritto delle loro amiche a portare quel che vogliono in testa. È un movimento giovane, urbano, non necessariamente laico, molto moderno, non-partisan, molto liberale. Vari segmenti della popolazione si ritrovano insieme. Con aspetti paradossali: per esempio i tifosi di tre squadre di calcio che normalmente si scannano fra loro, stanno manifestando insieme. E questo vale anche per credenti ed atei. Ci sono persone di destra, di estrema destra e di estrema sinistra. È un movimento estremamente cosmopolita. Per qualificarlo non si può ricorrere a nessuna delle aggettivazioni che di solito usiamo.

Erdogan è uscito vincitore da tre elezioni legislative di seguito, e secondo alcuni ciò è dovuto anche ad una debolezza dell’offerta dell’opposizione: per esempio, il Chp, il partito di opposizione di derivazione kemalista di Kilicdaroglu, che contesta fortemente il primo ministro, ha una credibilità democratica?

No. Non li si sente mai, aspettano che Erdogan sbagli, ma non rappresentano assolutamente un’alternativa democratica.

Perché?

Perché non hanno nulla da dire. È un partito che, in termini di democrazia, è al di sotto dell’Akp. Il Chp è un partito non riformista. Dopo tutto, il partito di Erdogan ha realizzato delle riforme capitali, soprattutto all’inizio, con il primo governo. Ha incarnato lo slancio europo della Turchia. Fino al 2005 l’Akp ha fatto cose straordinarie: ha aperto lo spazio pubblico e lo spazio politico, ha moltiplicato le potenzialità della democrazia, rompendo dei tabù.

Oggi, paradossalmente, i manifestanti in piazza sono coloro che hanno beneficiato di queste aperture democratiche, di queste riforme politiche che hanno democratizzato il Paese e che sono state realizzate da questo stesso governo. Questo accade perché c’è stato un arretramento a partire dal 2007-2008, una tendenza autoritaria di tipo personalistico di Erdogan, che si è sentito talmente sicuro da considerarsi il Padre della Nazione. E leader regionale, visto che gli piace molto ‘fare’ la politica internazionale: va ovunque, ora rientra da un altro tour nel Maghreb. Erdogan ha un’ambizione smisurata rispetto alle proprie capacità intellettuali e politiche. E soprattutto rispetto alle sue capacità democratiche.

Il modello turco di cui si è parlato in questi anni di grandi rivolgimenti del mondo arabo, resisterà all’onda d’urto di queste manifestazioni? O è definitivamente compromesso?

D’impatto forse si può dire che non resisterà, perché il Paese ora appare stravolto e i mercati finanziari hanno reagito molto male alla caparbietà del primo ministro, che cerca la bagarre con la società, la popolazione, il Paese. Molte analisi parlano di fine del modello turco: io direi ‘sì e no’, perché penso che la vitalità della società turca sia tale che questo modello resti ancora molto valido.

I turchi non chiedono democrazia: chiedono più democrazia. Chiedono di recuperare quel che hanno perso negli ultimi quattro-cinque anni: vogliono consolidare la democrazia, conquistata mentre la piazza araba cercava di sbarazzarsi della dittatura. La Turchia resta certamente un modello o comunque una fonte di ispirazione. Ma non con questo primo ministro, che ha perduto molto del suo carisma ed ha definitivamente perso quella superiorità morale che aveva presso i suo amici politici della regione. Non ha più nulla da dire, se pensiamo a quel che sta accadendo nel Paese e se si ha presente la sua notoria incapacità di gestire una crisi.

Quali leggi dei governi guidati da Erdogan costituiscono, concretamente, una minaccia alla democrazia e alla libertà in Turchia? Si è detto spesso in questi anni che il primo ministro islamista aveva ‘un’agenda nascosta’, che ora si sarebbe palesata.

Gli osservatori informati sulla Turchia hanno sempre detto che il problema non è quello di una ‘islamizzazione’ del Paese: anche perché non si può islamizzare un Paese che è già musulmano. E non si tratta neanche di re-islamizzazione: è l’autoritarismo ad essersi mostrato in tutta la sua evidenza. Ed è il vero problema della Turchia.

Come evolverà la situazione, verso cosa andiamo, la Turchia ne uscirà? Staremo a vedere: tutto dipende dal primo ministro. Come ragirà alle richieste della società? È una persona che non cambia mai opinione, non è capace di fare retromarcia. Si è trasformato in un autocrate: per lui tornare sui propri passi è segno di debolezza. Credo avrà difficoltà a gestire questa crisi.

Altre figure politiche potrebbero tornare in primo piano e hanno già iniziato a manifestarsi, come il presidente Gul, che Erdogan aveva rinchiuso nella gabbia dorata della Presidenza della Repubblica.

Gul è davvero il moderato che descrivono?

Assolutamente sì. E comunque è un democratico. Vorrei ricordare che la Turchia sta attraversando un periodo piuttosto difficile: si sta negoziando la pace con i curdi. Serve tatto, immaginazione, fatica: la Turchia non sa cosa significhi risoluzione dei conflitti. Non sa cosa vuol dire costruzione della pace dopo le crisi. È tutto da imparare e non è con Erdogan che ci si riuscirà, questo è chiaro.

Si è anche parlato di ‘Primavera turca’, tanto che lo stesso Erdogan ha replicato che la Turchia sta vivendo già, da anni, la propria primavera. Però c’è un aspetto nelle rivolte arabe che per certi versi si può avvicinare alla situazione turca, ed è l’accusa rivolta ai partiti islamisti che hanno vinto le elezioni – si pensi all’Egitto o alla Tunisia – di voler costruire una società non inclusiva, senza tenere in considerazione i cittadini che non hanno votato per loro.

Il rischio esiste. Ed è connesso alla concezione che Erdogan ha della democrazia. Ha detto più volte: ho vinto le elezioni, se volete farmi fuori o contestarmi, fatelo alle prossime elezioni.

Non ha idea di cosa sia una democrazia partecipativa. Il problema è che, al momento, l’unica opposizione reale e credibile in Turchia, è quella extraparlamentare che si è manifestata in questi giorni: ma per Erdogan non significa nulla, perché per lui contano solo le elezioni. Il primo ministro non è quindi assolutamente in grado di capire perché lo si contesta.

L’ultima intervista che ha rilasciato prima di partire per il Maghreb è estremamente rivelatrice. Ha posto lui stesso ai giornalisti una domanda che evoca la solitudine degli autocrati: “ma Dio mio, perché succede tutto questo?”. La sua domanda è rivelatrice, perché va sottolineato che Erdogan si circonda solo di yesmen, non ha più nessuno che gli stia accanto e gli dica ‘no’ qualche volta. La verità è che fatica a capire quel che sta accadendo ed ha una visione molto limitata della politica e della democrazia.

Ascolda l’audio dell’intervista su Radio Radicale

Commenti disabilitati.