Per salvare l’Europa dall’implosione serve un vero cambio di rotta, «un patto politico tra leader che riconoscono i pericoli della degenerazione illiberale». Ne è convinto Sergio Fabbrini, Dean del Political Science Department dell’Università Luiss Guido Carli di Roma. Per l’autore di Sdoppiamento. Una prospettiva nuova per l’Europa, il processo di integrazione dell’Unione europea è retto da due logiche inconciliabili, una politica e una economica, accomunate da una visione organicistica ed espansiva. Una strategia destinata al fallimento, perchè alimenta le spinte centrifughe dei nazionalismi e svuota la democrazia liberale della sua efficacia e legittimità. Per evitare che l’Unione europea finisca disgregata, serve «un nuovo paradigma dell’integrazione, basato sulla chiara distinzione tra unione federale e stato federale». Un paradigma che sappia «comporre senza negare» le asimmetrie tra i paesi europei e recuperare i valori liberali di Ventotene. A partire dalla consapevolezza che «non occorre fondere, ma distinguere ciò che può fare l’Europa e ciò che deve essere lasciato agli stati nazionali…». Reset ha intervistato Sergio Fabbrini nel suo studio di Roma.
A sessant’anni dai trattati fondativi del 1957, l’Unione europea affronta una crisi esistenziale, che ha finito per paralizzarla. Così scrive in Sdoppiamento. Una prospettiva nuova per l’Europa. Le ragioni sono esogene ed endogene. Tra quelle esterne lei sottolinea la trasformazione dei rapporti transatlantici e l’affermazione elettorale di Donald Trump. Che legame c’è tra la crisi europea e Trump?
Per capire cosa succede in Europa e nel mondo occidentale il contesto in cui ragionare è l’interdipendenza. La distinzione tra politica esterna e politica interna è sempre più labile. Ciò che avviene in Europa ha molto a che fare con la vittoria di Trump, che non è solo la vittoria di un leader conservatore, ma quella di un progetto politico al di fuori, se non contro, la strategia del multilateralismo perseguita negli ultimi 60 anni. Senza considerare che in chiave storica è stata proprio l’egemonia liberale degli Stati Uniti a consentire all’Europa di avvicinarsi a modelli di organizzazione politica estranei alla sua storia precedente. L’elezione di Trump chiude un ciclo storico e indica che alcuni ceti sociali non beneficiano di quei modelli. Per questo contestano l’interdipendenza e rivendicano un sovranismo centralizzato, un nazionalismo populista che riduce sempre di più l’idea della società aperta.
Tra i fattori interni della crisi europea lei sottolinea la crisi finanziaria del 2008, rivelatrice di contraddizioni storiche. La principale ci conduce dal 2008 al 1992, al trattato di Maastricht, che avrebbe introdotto una vera e propria «discontinuità istituzionale» rispetto all’impianto sovranazionale che governava l’integrazione del mercato unico. In che modo Maastricht ha modellato il profilo europeo attuale?
Nella storia europea il trattato di Maastricht, che ha introdotto una doppia costituzione, rappresenta una congiuntura critica. Fino ad allora il core business dell’Europa, l’integrazione del mercato, era stato organizzato secondo un modello sovranazionale, con una certa democrazia – garantita dalla triangolazione tra la Commissione, il Consiglio dei ministri e il Parlamento europeo -, una doppia rappresentanza – quella degli Stati e quella dei cittadini -, una Commissione incaricata di assolvere una funzione per così dire di governo. A Maastricht c’erano da affrontare questioni irrisolte. Non c’era più l’Unione sovietica e bisognava farsi carico dell’apertura all’Europa rimasta esclusa dalla cortina di ferro. Inoltre, ci si chiedeva come addomesticare la Germania riunificata, troppo grande dentro l’Europa, ma non abbastanza da starne fuori. La soluzione fu di chiedere alla Germania di rinunciare al marco, adottando una moneta europea. Rimanevano le politiche strategiche, tradizionalmente al cuore della sovranità statale: la politica estera, la politica dell’ordine interno, la politica dell’immigrazione, la politica economica. Così l’Europa si è dotata di una nuova costituzione in cui le decisioni non passavano più per la triangolazione citata, ma attraverso gli accordi tra capi di governo, nel Consiglio dei ministri. Una logica del tutto nuova, che limitava il ruolo del Parlamento e riduceva la Commissione a un segretariato, con scarsi poteri esecutivi. Una logica politica basata sull’unanimità, che permette a una minoranza di bloccare l’intero processo decisionale. All’origine dell’attuale crisi istituzionale, c’è proprio questa nuova costituzione.
La «doppia costituzione» è stata istituzionalizzata con il trattato di Lisbona: da una parte un sistema di governo sovranazionale, dall’altra un sistema di governance intergovernativa, un doppio sistema decisionale sopravvissuto in equilibrio precario fino alla crisi dell’euro. Perché ritiene che la crisi del 2008 abbia approfondito la «svolta intergovernativa», producendo «un’integrazione senza democratizzazione», uno «stato senza democrazia»?
La costituzione intergovernativa si basava su un assunto: noi governi condividiamo più o meno lo stesso progetto. Dopotutto, nonostante l’allargamento nel 1992 alla Gran Bretagna e ai paesi scandinavi, si trattava dei governi fondatori dell’Unione europea, intorno al nucleo franco-tedesco. C’era l’idea dell’integrazione come un’unione sempre più stretta, una «ever closer union», come recitano i trattati di Roma. Esisteva una fiducia generale nel fatto che i parlamenti nazionali fossero parte del processo decisionale, pur se affidato ai capi di governo. La crisi del 2008, che si è sviluppata proprio nelle politiche che i governi nazionali avevano voluto trattenere per sé, ha fatto saltare l’equilibrio. La logica dell’unanimità non ha funzionato, perché la crisi ha degli effetti distributivi. Una specifica unione bancaria, così come una particolare politica migratoria, penalizza alcuni paesi più di altri. Impossibile trovare l’intesa. Inoltre, con l’allargamento ai paesi dell’Est, alcuni paesi sono entrati in Europa con una prospettiva molto diversa rispetto a quella con cui era stato avviato il processo di integrazione. Da qui, il conflitto.
Lei attribuisce il conflitto a due diverse prospettive sull’integrazione, basate su differenti visioni della sovranità e delle democrazie nazionali, ma accomunate da un’idea organicistica, espansiva dell’integrazione, che lei invece contesta…
Contesto l’idea, ancora diffusa, che si debba andare inesorabilmente verso gli Stati Uniti d’Europa. E noto invece due logiche dell’integrazione diverse. I paesi scandinavi già negli anni 70, la Gran Bretagna e poi negli anni Duemila i paesi dell’Est sono entrati in Europa con una visione mercantilista. Per loro è principalmente un mercato, un sistema di cooperazione economica che non deve incidere sulla sovranità nazionale. In particolare i paesi dell’Est hanno rafforzato quest’idea. Per De Gasperi, Adenauer, Shuman, gli iniziatori del processo che avevano vissuto il diavolo del nazionalismo, l’integrazione si basava invece su elementi soprattutto politici. Il gruppo di paesi che intende l’Europa solo come un mercato è mosso da un opportunismo politico che alimenta l’idea che la loro democrazia sia diversa da quella occidentale. In Polonia, la democrazia illiberale di Kaczyński nasce da una rivendicazione di non appartenenza alla storia comune, da una radice nazionalista autoritaria. In sintesi, le due idee di integrazione – solo per il mercato, o per un’identità politica che vinca il diavolo del nazionalismo – sono inevitabilmente destinate a scontrarsi. Per uscirne occorre svincolarsi dalla tradizione politica dell’Europa occidentale, basata sull’idea che la sovranità coincida con lo stato. Solo così ci si può liberare dall’idea che un’Europa sovrana equivalga a una replica su scala allargata di ciò che abbiamo realizzato su scala nazionale. L’opzione parlamentarista, dunque, è certamente nobile. Ma la politica non vive di schemi astratti. La seconda variante dell’integrazione politica, sostenuta in genere dalla Francia, ma oggi anche dalle élite tedesche, è quella del federalismo intergovernativo, un executive federalism. Con i governi che rispondono ai parlamenti nazionali e si coordinano attraverso il Consiglio europeo, il Consiglio dei ministri.
Una soluzione che lei rigetta perché rappresenterebbe gli stati, ma non i cittadini…
Esatto. Sconta un vacuum di legittimità. A Bruxelles c’è un collegio che agisce come una monarchia assoluta, senza bilanciamenti. Sul piano della teoria democratica, il Consiglio europeo non ha giustificazioni: è una forma di dispotismo. L’altro errore è pensare di procedere per consenso. Funziona sulla carta, non nella realtà, perché soprattutto nei periodi di crisi i paesi più forti si impongono, i deboli no. Così la Germania è riuscita a imporre lo stanziamento di 6 miliardi per la Turchia, mentre l’Italia fatica a ottenerli per la Libia. In ogni caso, entrambe le proposte di integrazione politica sono viziate dalla spinta verso la centralizzazione. La mia idea va in direzione opposta.
Lei in effetti invoca un vero e proprio «cambio di paradigma», che abbandoni la dicotomia tra federazione parlamentare e unione intergovernativa e sappia «ricomporre senza negare» le asimmetrie tra i paesi europei. Per farlo, come abbiamo visto, svincola il concetto di federalismo da quello di stato, puntando a uno sdoppiamento: due organizzazioni distinte, una unione politica federale, esclusiva, e una comunità economica, inclusiva. Ci spiega la strategia per un’unione federale in un’Europa differenziata?
Nella tradizione europea il concetto di federalismo è fortemente legato a quello di stato. Secondo quest’ottica, il federalismo è una forma di stato federale, non un’unione. Per questo nelle componenti più europeiste è maturata un’idea dell’unione politica come stato federale, riconducibile all’assunto, già di Jean Bodin e Max Weber, che la sovranità è unica e indivisibile, o c’è o non c’è. Questa posizione si è diffusa anche a causa del successo europeo della Germania, un paese divenuto democratico attraverso lo stato federale. È come se andasse replicato, allargandolo, il modello di uno stato federale di tipo parlamentare. Il Bundestag, è il Consiglio dei ministri, il Bundesrat è il Parlamento europeo, e il cancelliere, come capo dell’esecutivo, è il presidente della commissione. Nonostante la formula dello spitzenkandidat, in Europa questo modello non ha funzionato perché richiede una simmetria tra gli stati. Ma se la Germania è demograficamente simmetrica perché è stata inventata a tavolino dopo la seconda guerra mondiale, in Europa da una parte c’è Malta con 400.000 abitanti, dall’altra la Germania che ne ha 82 milioni.
Nei suoi studi insite molto sulla distinzione tra ‘stato federale’ e ‘unione federale’. Può spiegarci la ragione?
Parlo di unione federale, non di stato federale, perchè occorre distinguere tra i federalismi che nascono per aggregazione, come gli Stati Uniti, e i federalismi che nascono per disaggregazione, come la Germania, in quanto la genesi storica e istituzionale che ha portato alla federazione produce logiche diverse di organizzazione politica (gli studiosi chiamano questo processo come path dependency).Il federalismo per aggregazione può riguardare stati di dimensioni, culture, identità nazionali diverse, decisi a unirsi per necessità, come nel caso degli Stati Uniti. Quando ci si aggrega il punto di partenza non è il centro che decentralizza, ma i vari centri che cercano di trattenere quante più competenze possibili. La costituzione americana è un grande compromesso con cui vengono assegnate al centro poche politiche fondamentali, mentre il resto rimane prerogativa degli stati. Ancora oggi gli Stati Uniti – che non sono uno stato nazionale, ma una unione di stati modellata su una separazione multipla dei poteri – sono senza un vero governo e senza uno stato. Nel caso dell’Europa, se vogliamo aggregare Malta e i paesi baltici con la Germania o la Francia serve un sistema istituzionale che garantisca i più piccoli e impedisca la dominazione, più facile in un sistema centralizzato.
Nel 1787, durante il percorso costituente degli Usa, James Madison si chiedeva quale tipo di democrazia o repubblica fosse adeguata agli stati asimmetrici. Da qui l’idea di una democrazia liberale, composita, fatta di bilanciamenti, di controlli reciproci tra poteri in competizione. Si tratta dunque di separare, non di fondere gli stati. Dentro l’unione federale le istituzioni sono separate, e così dovremmo fare in Europa. Ma prima occorre riconoscere che esistono due prospettive diverse dell’integrazione: quella degli stati che vogliono solo il mercato unico e quella di chi vuole mettere in sicurezza la democrazia liberale, attraverso il federalismo. Come intellettuale italiano non mi basta sapere che siamo dentro un mercato unico, perché so che gli umori illiberali emergono regolarmente, qui. Serve qualcosa di più. Tornare alle origini. Tornare a Ventotene. Riconoscere che gli stati nazionali non hanno gli anticorpi sufficienti per tenere sotto controllo gli spiriti illiberali dei Le Pen e dei Salvini. C’è bisogno dell’integrazione politica, dunque, ma non di una replica dello stato nazionale. Allo stesso tempo serve un’unione federale, ma che non sia fondata su un’integrazione organicistica, bensì su un patto politico tra leader che riconoscono i pericoli della degenerazione illiberale. Non occorre fondere, ma distinguere ciò che può fare l’Europa e ciò che deve essere lasciato agli stati nazionali. Oggi l’Europa face cose che non è necessario che faccia. E non fa cose che è necessario che faccia.
Un’obiezione: lei riconosce che per gettare le basi dell’unione federale serve un atto preliminare, un patto politico di valenza costituzionale. Ritiene che sia politicamente realistico alla luce dell’affermazione di partiti, movimenti e leader nazionalisti, illiberali e antieuropeisti?
Alla fine della prima guerra mondiale, nel 1919, Max Weber tenne ai suoi studenti una lezione sulla politica come vocazione, divenuta celebre. È da lì che occorre ripartire. Dall’idea che i veri leader politici sono quelli che sanno mettere le dita negli ingranaggi della storia. La mia proposta è insieme realistica e idealista. Riconosco che l’Unione europea interviene su ambiti in cui non è necessario, per cui deve restituire alle democrazie nazionali alcune prerogative. Ciò consentirebbe ai cittadini di quelle democrazie di votare sapendo di poter incidere, per esempio, sulla legge di bilancio, aumentando il consenso per la democrazia liberale. Allo stesso tempo, alcune politiche non possono essere gestite in ambito nazionale. Le politiche di sicurezza e le politiche monetarie, per esempio, vanno trasferite a Bruxelles e gestite da un governo adeguato a un’unione federale asimmetrica.
Crede davvero che, come scrive in Sdoppiamento, l’unione federale possa costituire «un argine ai nazionalismi», «una forza di stabilizzazione del continente», che sia possibile ridimensionare il populismo separando democrazie nazionali e democrazia sovranazionale?
Se in futuro avessimo una maggioranza di capi di governo antieuropeisti e illiberali, cosa succederebbe in un quadro istituzionale fragile come l’Unione europea attuale? Servono meccanismi di protezione. E di differenziazione. Oggi lo scontro prioritario non è tra destra e sinistra, ma sulla natura del progetto di integrazione. La vera sfida è dare rappresentazione politica allo scontro tra europeismo e sovranismo. Dall’esito di questo scontro dipenderà il futuro dell’Europa.