Tortorella: giovanissimo partigiano, primo della classe, uomo di dialogo

In copertina, la prima pagina di vittoria del referendum sul divorzio. Aldo Tortorella fu un protagonista della battaglia referendaria per la difesa del divorzio come direttore dell’Unità. 

 

Ero andato a trovarlo poco prima di Natale. Avevamo chiacchierato con accanto la sua cara Chiara, che lui accudiva con grande amore. Uguale, malgrado il peso degli anni, al Tortorella che avevo conosciuto, io ancora ragazzino, nel Pci di Milano nei primi anni ’70. Brillantissimo, lucido, sottilmente ironico come sempre. Una forza della natura. Per me era molto più che un amico. Mi colpì, in questo nostro ultimo incontro, che a un certo punto mi dicesse: “Per me tu sei come un figlio”. Era a un punto della conversazione in cui esprimevamo considerazioni differenti. In realtà non siamo mai stati intimi. Non avrei mai osato. Lui continuava a leggere con attenzione e commentare tutto quello che inesorabilmente gli mandavo, compresi gli articoli sul Foglio. Uno degli sms dice: “Dovrebbero pagarti un milione ad articolo”. A un altro messaggino, in cui mettevo in discussione uno dei punti della sua recente bellissima intervista ad Antonio Gnoli per Robinson di Repubblica, dicendogli che io a differenza di lui non ero antiglobalista, anticapitalista, rispose, con la consueta finezza e leggera ironia: “Io leggo fedelmente tutto quello che scrivi, ma tu non sai quel poco che scrivo io, ahimè. E certo che già il povero Marx era per la globalizzazione…”

Era fatto così. Combattivo, talvolta severo, ma sempre rispettoso delle opinioni altrui, anche se diverse dalle sue. Mi capitò, qualche anno fa, di invitarlo a cena insieme a Emanuele Macaluso e a Giorgio Napolitano, già non più presidente della Repubblica. Ero timoroso di aver fatto una gaffe, aver sbagliato il mix. Tortorella non era affatto della corrente dei “riformisti”. Tortorella e Macaluso mi rassicurarono subito. Ricordarono che, ai tempi del Pci, quando rappresentavano correnti diverse e rivali, erano soliti cenare insieme almeno una volta alla settimana. Lo ricordo sempre rispettoso, aperto al dialogo, non solo coi suoi pari, ma anche coi subordinati.

Io sono stato suo subordinato. Fu lui, a metà anni ’70, a salvarmi dalla politica, che non era il mio mestiere, prendendomi all’Unità che allora dirigeva. Mi fece fare la gavetta, alle pagine di Reggio e Modena. Poi mi affidò al quasi coetaneo Giancarlo Bosetti, che dirigeva la sezione politica. Non tutti i direttori dell’Unità che ho conosciuto erano così rispettosi dei subordinati e degli inferiori. O delle intemperanze giovanili. Lui ascoltava e correggeva con pazienza. Lo faceva con tutti, non solo con quelli verso cui poteva avere un debole. Ci trattava tutti come pari. I resoconti che faceva delle riunioni della direzione erano rendiconti da cronista, chiari, puntuali. Non fece mai pesare i gradi, i galloni, men che meno il suo “io”. Non faceva pesare la sua superiorità intellettuale, il fatto che alla politica era arrivato dalla filosofia, dal pensiero sottile e raffinato, da allievo di Antonio Banfi, studiando Husserl, Freud, Kérenyi, e non solo Marx e Togliatti.

Non un briciolo di arroganza, o risentimento, nei confronti delle altre “scuole” in seno al Pci. E nemmeno degli avversari. Poco prima di lasciare la direzione dell’Unità pubblicò un inedito di Gramsci sul giornalismo vergando di suo pugno il titolo, che riprendeva un passo dell’inedito: “Non si possono risolvere problemi della politica con il giornalismo”. Sono testimone oculare: allora lavoravo alla redazione dell’Unità. Come Gramsci, era nemico del pressapochismo. Figurarsi se poteva passargli per la mente di usare il giornalismo per fare lotta politica nel partito, o, peggio ancora, ad uso personale, per fare carriera.

Non mostrava disprezzo nemmeno nei confronti dei nemici. Con una sola eccezione: i fascisti. Quanto alle vicende politiche italiane, ricordo una sua formidabile battuta, all’epoca in cui ai governi di Berlusconi si alternavano governi di centrosinistra, e i segretari del nuovo Pd, e i leader che si susseguivano alla presidenza del Consiglio erano per lo più di matrice cattolica, non comunista o socialista: “Ho sbagliato le previsioni: non moriremo affatto berlusconiani, moriremo democristiani”.

Caro Aldo, se, come dici, ero come un figlio per te, tu per me eri come un padre. Non perché fossimo d’accordo su tutto, tanto meno perché facessimo parte della stessa “corrente”. Non pretendevi fedeltà, subordinazione. Ti bastava avere un interlocutore. Hai vissuto per la politica. Se una cosa ti si può rimproverare è di esserti fidato troppo, di avere avuto un debole per gli intellettuali, anche quelli dissenzienti, piuttosto che per gli adulatori. Quel che, ai miei occhi, ti distingue da tutti i grandi, gli altri “primi della classe” di un’epoca e di un partito che non ci sono più, sono la tua umanità, e la tua squisita gentilezza che non richiedeva contropartite. Di parte, partigiano, rigoroso, severo, ma gentile.

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