Intervento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano alla commemorazione di Benedetto Croce a sessant’anni dalla scomparsa Napoli, Istituto di Studi Storici, 20 novembre 2012
E’ nel periodo più tormentato e drammatico della storia d’Italia, che la personalità di Benedetto Croce si dispiega in tutta la sua ricchezza, offrendo prove che sfuggono a ogni rappresentazione convenzionale della sua figura.
Mi riferisco a un arco di quasi dieci mesi, dalla caduta di Mussolini e del regime fascista alla liberazione di Roma. A partire dal 25 luglio, è un succedersi incalzante di eventi che scuotono la compagine nazionale, nel tragico scenario di una guerra che ha seminato e continua a seminare distruzione, morte, miseria, privazioni, in nessun luogo come a Napoli, la Napoli di Benedetto Croce.
A tutto ciò Croce reagisce, giorno dopo giorno, con profonda, straordinaria tensione emotiva e morale e in pari tempo mettendo in campo riserve insospettabili di energia e determinazione, così da farsi protagonista politico, sapiente e decisivo, di una fase cruciale della vita nazionale. Ad angustiarlo e sollecitarlo è l’assillo per le sorti dell’Italia, che vede “in condizioni gravissime e quasi disperate”. E la realtà che gliene dà il segno tangibile, toccandolo da vicino e suscitando in lui sgomento e dolore, è quella di Napoli.
Della convulsa Napoli di quegli anni, ma soprattutto della Napoli occupata dalle forze alleate, di molteplici nazionalità, in prevalenza americana, non sono mancate testimonianze letterarie e alcune, ispirate rappresentazioni artistiche.
Ma non vi sembri un fuor d’opera ricordare qui quel che di incancellabile è rimasto nell’animo di un giovane che tra i 17 e i 19 anni visse la Napoli dei “cento bombardamenti” – 22 mila vittime civili fino al settembre del ’43 – e del durissimo inverno 1943-44. Quel che è rimasto di incancellabile, dunque, nell’animo di chi oggi vi parla. Le lunghe ore trascorse in diecine e diecine di notti, insieme con una moltitudine impaurita, nel profondo di un immenso ricovero antiaereo, nelle viscere dello storico palazzo Serra di Cassano nel cuore di Napoli. Lo spettacolo degli edifici colpiti accanto a quello in cui abitavo, delle macerie nelle strade centrali della città, tante volte attraversate intatte e piene di vita. L’incubo di una guerra che anno dopo anno sembrava non dovesse aver fine. I mesi di quell’inverno succeduto al collasso dell’8 settembre, vissuti senza distinzioni di ceto sociale da tanti napoletani al freddo, in abitazioni sconnesse per le bombe cadute tutt’intorno, e in penosa ricerca di magro cibo. Mentre ancora incombeva la minaccia dei bombardamenti, quelli tedeschi, meno frequenti e massicci dei bombardamenti alleati, ma pur sempre micidiali per distruzioni e lutti.
Ma sentiamo Croce.
Egli racconta per lettera ad Alessandro Casati di esser stato colto di sorpresa dallo scoppio improvviso del bombardamento del 4 dicembre 1942, mentre era in procinto di rifugiarsi a Sorrento e assisteva al carico dei bagagli. I danni e le vittime – ben 500 – di quel bombardamento, al porto e in pieno centro, sono il segno di un’impressionante potenza distruttrice. Croce può portare con sé, trasferendosi, solo poche migliaia di volumi, una minima parte degli oltre 150 mila della sua biblioteca, che non trova modo di mettere al sicuro, e questa – scrive al Casati – “è la trafittura più dolorosa che io provo. All’età mia, quando si è esaurito o quasi il compito della propria vita, la morte non spaventa, ma la perdita di quel patrimonio letterario colpirebbe non la mia persona, ma un interesse generale”.
La tragedia di Napoli durerà ancora a lungo, con i “venti giorni di terrore tedesco” succeduti all’armistizio e culminati nell’insurrezione popolare delle Quattro Giornate, e poi con altre ferite inferte alla città dal nuovo nemico germanico, puntualmente, con animo oppresso, registrate da Croce nel suo diario.
Da Napoli il suo sguardo si rivolge sempre di più all’Italia, e dall’Italia al mondo : Villa Tritone in Sorrento diviene uno straordinario osservatorio e crogiuolo di incontri e iniziative, dopo un mese trascorso a Capri, dove egli è stato condotto nottetempo il 15 settembre su un motoscafo della marina italiana, trasferitovi per sicurezza da Sorrento, “terra di nessuno” tra forze tedesche e forze alleate, nell’isola già liberata la sera del 12.
Il suo tormento data dall’indomani del 25 luglio. “Fisso è il pensiero alle sorti dell’Italia : il fascismo mi appare già passato, un ciclo chiuso …… ma l’Italia è un presente doloroso”, si legge nella nota di diario del 27 luglio. E qualche tempo dopo :“Dormo poco la notte : mi sta sempre innanzi la rovina dell’Italia”.
Il tormento, anche psicologico e fisico, non lo abbandona, torna ripetutamente ad esprimersi. Così il 15 dicembre 1943 :
“Sono stato sveglio per alcune ore, tra le 2 e le 5, sempre fisso nel pensiero che tutto quanto le generazioni italiane avevano da un secolo in qua costruito politicamente, economicamente e moralmente è distrutto, irrimediabilmente. Sopravvivono solo nei nostri cuori le forze ideali con le quali dobbiamo affrontare il difficile avvenire senza più guardare indietro, frenando il rimpianto.”…
E un anno dopo, il 12 dicembre 1944 :
“Stanotte mi sono svegliato prima delle quattro… e ho sempre meditato sulle condizioni gravissime e quasi disperate dell’Italia. Per fortuna, quando mi rimetto in piedi e ripiglio il qualsiasi lavoro, l’avvilimento è vinto e quasi dimenticato. Così sperimento in me, quotidianamente, che «l’opera è tutto». Servire Domino in laetitia, se è possibile, e andare innanzi animosamente.” …
Che cosa dire? Quello che emerge dalle pagine dei suoi Taccuini, pubblicate nel 1948 e in anni recenti integrate fino a tutto il dicembre 1945, è un Croce a lungo sconosciuto, che mai si era rivelato – affidandosi a un Diario destinato a divenire pubblico – nell’intimo dei suoi stati d’animo e dei suoi travagli personali, nella pienezza dei suoi sentimenti, delle sue cadute d’animo e dei suoi scatti di volontà. E che dà prova di una forza d’animo, di uno stoicismo, e insieme di una passione, che ancora colpiscono e commuovono chi rilegga quelle pagine.
E al tempo stesso con questa dimensione profondamente umana, emerge da quegli anni – che sono anche anni di importanti scritti e discorsi – una, anch’essa senza precedenti, formidabile dimensione politica della figura di Benedetto Croce.
Egli – anche nei frangenti che ho ricordato – non perde occasione per ribadire come si senta “uomo di studi, politico malgré moi”, per richiamare la sua vita di studioso, confermando un’incrollabile fedeltà alla sua vocazione e missione e a quell’imperativo di operosità intellettuale, che ha regolato la sua esistenza quotidiana. E in effetti anche nelle giornate convulse del 1943-44 non cessa di studiare e di scrivere, cogliendo ogni spiraglio possibile per farlo e traendone conforto : si tratti di lavorare sugli scritti di Luigi Blanch, di correggere bozze di suoi libri e della rivista “La Critica”, o di immergersi in letture di Goethe e su Goethe in vista di nuove elaborazioni e pubblicazioni su quel grande.
Ma ciò non toglie che Croce si dedichi anima e corpo ai doveri impostigli dalla coscienza in quell’eccezionale congiuntura storica. Comprende fino in fondo di non potersi “tirare indietro”, pur “protestando dentro di sé” per essere costretto “a fatiche così contrarie al mio temperamento, alla mia capacità e a tutta la mia vita”.
Quell’assenza di attitudini alla “politica propriamente detta”, è un motivo che ritorna anche nel parlare, qualche anno più tardi, di un libro su Giovanni Giolitti, al quale Croce rivolge un ardente elogio ricordando la sua partecipazione al Gabinetto del 1920, un’esperienza – egli dice – che mi confermò “nel limite che avevo riconosciuto nella mia natura”. E in realtà ben altro, rispetto a quel breve esercizio delle funzioni di ministro della Pubblica Istruzione, è la scelta che gli si propone ora, in un’Italia sull’orlo della rovina, e che – egli lo vede lucidamente – ha bisogno della sua personale forza e autorità. Ben altro è il compito anche rispetto all’impegno nella lunga lotta contro il fascismo, esplicato sul terreno che gli era proprio, sì da definirlo poi un’azione non politica “ma civile e morale”.
Croce si fa dunque, come mai in precedenza, politico a tutto tondo, per concreta partecipazione alla rete dei rapporti politici, anche internazionali, per concreta tessitura di proposte e di interventi efficaci. E’ il senso del dovere verso la patria, è l’amore per l’Italia, che lo guida in uno sforzo, che è anche quotidiana fatica, al limite delle sue forze (il 25 febbraio del ’44, annota semplicemente : “Settantotto anni”). E scrive in pieno 1944 : “Io mi avvedo di amare sempre di più l’Italia, e soffro assai pensando a lei”. Già nel giugno 1943, ha dedicato un articolo vibrante a “l’amor di patria”, parola caduta in desuetudine per effetto di una giusta ripugnanza contro il nazionalismo, ma da riportare in onore “appunto contro il cinico e stolido nazionalismo, perché – sono le sue parole – esso non è affine al nazionalismo, ma è il suo contrario”.
Gli assi dell’azione politica che Croce intraprende dopo l’8 settembre sono due. Il primo, e si tratta di una priorità ben significativa, è la costituzione di un corpo di volontari italiani. Prepara a tal fine un proclama in nome di un embrionale “Fronte Nazionale della Liberazione”. Si rivolge, il 22 settembre, al generale Donovan, Direttore dell’Office of Strategic Service americano, e il suo discorso è chiaro : “lasciate formare legioni di combattenti con la bandiera italiana da cooperare con l’armata anglo-americana per liberare la terra italiana occupata dai tedeschi”. L’iniziativa, di cui Croce investe anche il maresciallo Badoglio attraverso la visita del 4 ottobre a Brindisi di Alberto Tarchiani e di Raimondo Craveri, rispecchia una precisa visione politica : la salvezza dell’Italia schieratasi a fianco degli alleati passa anche attraverso la riconquista sul campo – nel fuoco della guerra contro la Germania – della dignità di nazione libera e indipendente. Come scriverà più tardi nel suo diario, “Siamo stati vinti, e questo non bisogna mai dimenticare, ma anche i vinti hanno una dignità da serbare”. E questo egli farà intendere a più riprese, reagendo a quella che giunge a definire “il mal animo, la cupidità e la prepotenza inglese”.
E’ un discorso che Croce può fare col prestigio internazionale che lo circonda, essendo agli occhi del mondo libero il simbolo di un’Italia che non si è piegata e acconciata al fascismo, tanto meno avallandone il patto con Hitler e la discesa in guerra al suo fianco. Il continuo flusso a Villa Tritone di visitatori stranieri – inviati politici, giornalisti, personalità intellettuali – esprime concretamente l’eccezionale credito e omaggio tributato a Croce.
E se l’iniziativa per un corpo di volontari italiani fallisce, attraverso passaggi rimasti “dubbi ed oscuri” perfino al suo ideatore, non solo resta la splendida traccia del Manifesto, ricco di echi storici e di spirito risorgimentale, “affisso in Napoli il 10 ottobre 1943”, ma si sviluppa secondo la stessa visione l’azione di Croce lungo l’altra direttiva fondamentale : dare all’Italia liberata un governo rappresentativo delle forze politiche antifasciste. Quella strada è sbarrata dalla permanenza sul trono di Vittorio Emanuele III.
Croce, critico e preoccupato per l’appoggio che soprattutto da Churchill continua a venire al re e al “governo del re”, si rivolge anche alla più larga opinione pubblica anglosassone indirizzando il 18 novembre 1943 una lunga, rigorosa e argomentata lettera al famoso giornalista americano Walter Lippmann, che costituisce la più dura, irrevocabile condanna di Vittorio Emanuele III.
Ma sul piano politico occorre dare una risposta immediata alla questione istituzionale, pur rinviando la scelta di fondo – monarchia o repubblica – alla volontà del popolo sovrano in un’Italia liberata, riunificata e avviata a un reggimento democratico. Ed è solo Croce che si dimostra in grado di promuovere la soluzione che possa imporsi al re e ottenere il consenso dei partiti antifascisti. La storia è nota : la soluzione è quella della luogotenenza, elaborata da Enrico De Nicola, che su sollecitazione di Croce si mette all’opera col suo “ingegno raziocinativo e sottile” (definizione crociana).
Il percorso per giungere a quell’intesa è complesso, non breve, in più momenti assai arduo: come nel momento dell’incontro tra De Nicola e il re, ricostruito dal primo in un memoriale che merita da solo il titolo di singolarissimo documento storico. Il 6 aprile 1944 si riunisce a Villa Tritone la Giunta esecutiva del Comitato di Liberazione, che approva – con la decisiva adesione di Togliatti, rientrato da pochi giorni in Italia – la soluzione della “questione del re”, e apre la strada alla formazione di un “governo democratico”, alla cui composizione, perfino, Croce attende con accortezza e tenacia. Si è compiuto il capolavoro politico che era condizione per la salvezza dell’Italia : e il politico “malgré soi” Benedetto Croce ne è stato l’artefice. Potendo contare, aggiungo, sull’attiva vicinanza delle sue figlie e su collaborazioni preziose, tra le quali spicca – fin dai primi momenti in cui Villa Tritone diviene punto di riferimento dell’Italia liberata e crocevia internazionale – quella di Raimondo Craveri : e penso sia venuta l’ora di togliere storicamente questa nobile e significativa figura dall’ombra in cui a torto è caduta.
Croce diviene ministro senza portafoglio nel governo di Salerno e partecipa per poche settimane, dopo la liberazione di Roma, al governo Bonomi dimettendosene il 12 luglio. Egli decide quindi di interrompere all’8 giugno quello che chiama “l’estratto” del Diario o dei Taccuini, relativo, così scrive, a “quanto facemmo o tentammo nel periodo napoletano”, e come tale destinato alla pubblicazione. La scelta è di continuare “a partecipare alla vita politica solo nella qualità di presidente del partito liberale e di libero scrittore”. A parte le responsabilità di partito, cui egli aveva rivolto già nel ’43-’44 tempo e cure, il suo ruolo politico attivo, anche se fuori dal governo, si prolunga di fatto fino al periodo dell’Assemblea Costituente. Ma la fase dell’impegno pieno nell’attività politica è per lui conclusa.
Non è tuttavia superfluo ricordare le parole del suo discorso al primo Congresso, nel gennaio 1944 a Bari, dei partiti uniti nei Comitati di Liberazione :“Nessuno meno di me, che ne ho tenacemente difeso nel campo dottrinale l’autonomia e l’originalità, può pensare di prendere la parola per negare l’ufficio e l’importanza della politica nella vita dei popoli come degli individui. Senza politica, nessun proposito, per nobile che sia, giunge alla sua pratica attuazione”.
Né è oggi superfluo richiamare un brano di elevata e lungimirante consapevolezza, contenuto nello scritto di Croce da me già rievocato sull’amor di patria :
“Forse il pensiero della patria… tornando vivo e puro nei cuori, renderà più agevole la necessaria concordia nella discordia tra i partiti politici… che in avvenire… si combatteranno a viso scoperto e lealmente; perché tutti essi, come terranno sacra la libertà, loro comune fondamento, così avranno dinanzi agli occhi l’Italia… e nel bene dell’Italia troveranno di volta in volta il limite oltre il quale non deve spingersi la loro discordia…”.
Insegnamenti da meditare. Come è da meditare, di Croce, il messaggio europeo, che si leva oltre il frastuono delle armi, mentre infuriano l’occupazione tedesca in gran parte dell’Italia e una guerra ferocemente devastatrice nel cuore dell’Europa, le cui sorti sono ancora incerte come lontano è ancora il crollo di Hitler. Mi riferisco al saggio “Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa”, concepito nel dicembre 1943 : di quelle pagine, di straordinario spessore culturale e umano, citerò solo l’affermazione illuminante della natura storica del male estremo rappresentato dal nazismo, fenomeno “storicamente nato e storicamente morituro … Il dissidio della Germania con l’Europa, che la storia ha suscitato, può e deve essere dalla storia composto, e a questo fine debbono tendere tutti gli sforzi della civiltà europea …”. Lo sguardo di Croce sembra proiettarsi già verso il compito che sarà da affrontare a guerra finita : quello della riconciliazione nella libertà e nella democrazia, in una nuova prospettiva di piena, pacifica e operosa unità europea.
Era la prospettiva, condivisa con Luigi Einaudi, che egli aveva già delineato, con geniale anticipazione, nel 1932 nella sua Storia d’Europa. Dedicata a Thomas Mann, essa era stata studiata e discussa da Gustaw Herling con altri giovani polacchi nei pressi di Varsavia tra la primavera e l’estate del 1939, ma sarebbe stata tradotta e pubblicata in Polonia solo nel 1998 anche per impulso di Herling e con la sua postfazione : mentre una dotta prefazione scrisse l’indimenticabile Bronislaw Geremek rendendo omaggio a Croce come “uno dei grandi visionari dell’Europa unita”.
Mi si lasci concludere esprimendo gratitudine al Presidente polacco Komorowski che ha voluto associarsi al ricordo sia di Gustaw Herling sia di Benedetto Croce, a lui e al Presidente della Repubblica Federale Tedesca Gauck, con i quali mi sono incontrato qui a Napoli per testimoniare e ancor più rafforzare l’amicizia che lega l’Italia, la Germania e la Polonia, e il nostro comune impegno a costruire quell’Europa libera, pacifica, democratica che Croce ed Herling sognarono e per cui combatterono.