Terza puntata dell’inchiesta sulla crisi dei quotidiani in Italia. La prima parte qui e la seconda qui.
Sono lontani gli anni d’oro. Quando i quotidiani raggiungono il massimo della diffusione e delle vendite. Corrono gli Ottanta, ed è esattamente la metà del decennio, il 1985: oltre 6 milioni di copie vendute ogni giorno, con un picco nel 1990 di 6.808.501. Un tetto che sembrava irraggiungibile è stato miracolosamente sfondato. E tiene, su per giù, fino ai primi anni Novanta con le cronache di Tangentopoli. Oggi, di copie al giorno, se ne vendono complessivamente sotto i 4 milioni.
1985. Del resto, stiamo parlando pure del secolo scorso. Per l’informazione un’altra era geologica. Non c’è ancora Internet. E quelli che sono i giovani d’oggi, cresciuti con la televisione, che non leggono i giornali ma si abbeverano al web, ai social network, sono in quel momento ancora dei bambini. Non ancora entrati a far parte del “mercato potenziale”. I lettori del tempo sono invece adulti, forti, maturi, tradizionali. Le notizie sulla carta sembrano in quel frangente reggere ancora all’usura della velocità comunicativa, nonostante la sempre più forte concorrenza della tv. Il circuito mediatico continua ad essere tutto sommato virtuoso, non ha fatto ancora “cortocircuito”. La politica e il modo di raccontarla non è diventata melassa, trascinandosi appresso anche l’informazione.
Corriere e Repubblica giocano a rincorrersi come il gatto con il topo, a ruoli alterni. Lo scontro polarizza l’attenzione. Sono anni ricchi. Di pubblicità. Di guadagni. Di vendite. Gonfi. Di supplementi e ogni genere di gadget.
Il quotidiano di Eugenio Scalfari, soprattutto, ha il vento in poppa. Vive uno stato di grazia. Politico ed editoriale. Così decide di passare all’attacco tirando fuori i fascicoli sui primi dieci anni della propria storia, presentando anche un nuovo supplemento del venerdì: è Affari&Finanza, diretto allora da Giuseppe Turani, firma economica e finanziaria, già a L’Espresso. Tutta roba che oggi non provocherebbe, forse, alcun sussulto nel lettore.
Al Corriere sbiancano. Non se l’aspettavano proprio un’offensiva del genere. Si tenta la rincorsa, il recupero con una serie di fascicoli redatti dalle grandi firme di via Solferino, ma l’iniziativa non morde. «La gemma del gruppo Rcs per ora non dà luce (…) Se ne sta lì gonfio di carta, di parole e d’inchiostro» chiosa il direttore di Prima comunicazione Umberto Brunetti, come ricorda Cristiano Draghi nella ricostruzione fatta per la rivista Problemi dell’informazione n.1/2001 (Il Mulino).
Il sorpasso di Repubblica
È il 1986, dicembre. E Scalfari annuncia con una certa soddisfazione al proprio pubblico che il sorpasso delle copie sul Corriere è avvenuto. Esattamente a dieci anni dalla nascita di Repubblica. Tra l’una e l’altro solo 28 mila copie: Repubblica è a quota 515 mila, il Corriere a 487, La Stampa di Torino viaggia sulle 404 mila. Non accadeva dal 1904. L’evento è davvero storico, perché via Solferino perde per la prima volta il primato in edicola. Il Corriere è un “transatlantico”, pachiderma debole, lento, paludato, con gravi problemi sindacali. La redazione, poi, è paralizzata anche dalla sindrome di un possibile sorpasso da parte de La Stampa, che è subito a ruota, ad appena 30 ma talvolta anche sole 20 mila copie di distanza. Repubblica è una corazzata più agile, quasi un “vascello corsaro” in confronto, scattante, giovane, e gioca le sue carte: per esempio, con Portfolio, un gioco basato sulla Borsa, che miete copie su copie: 200 mila, ciò che porta il quotidiano di piazza Indipendenza a sfiorare quota 700 mila. Un’enormità.
Al comando di via Solferino c’è Piero Ostellino, che l’1 febbraio 1987 viene rimosso dall’incarico e sostituito con Ugo Stille, l’autorevole corrispondente dagli Stati Uniti con base a New York, una specie di “ambasciatore” d’Oltreoceano. Ce la farà a recuperare lo svantaggio e a coprire la distanza accumulata con la Repubblica, che appare ora siderale? Che è anche differenza di mentalità e cultura giornalistica.
A occuparsene, più che Stille, saranno i manager Rizzoli coadiuvati da quel vulcanico ideatore di periodici che è Paolo Pietroni, al tempo direttore sia di Amica sia di Max, che s’inventano tutti insieme 7, il supplemento allegato al Corriere con cadenza settimanale. Un periodico a rotocalco e a colori. Anche Scalfari sta pensando a un settimanale e ci sta lavorando alacremente. Giorno e notte, a testa bassa. Si chiama il Venerdì. Chi ha lavorato al suo fianco in quei giorni ricorda si sia espresso in questo modo: «Le cose prima si fanno, poi si pensano».
È una guerra. Di posizione e di concorrenza. Per arrivare primi in edicola. Come dire: intanto procediamo, poi faremo le correzioni. In corso d’opera. Ma è anche una guerra di pubblicità. Il mercato dell’inserzione di quell’epoca preme per un allargamento degli spazi. E sospinge i quotidiani verso il cambiamento. In particolare sul rotocalco, che permette uno sfogo alla pubblicità a colori che il quotidiano non è ancora in grado di accogliere ed evadere. E che per altro è anche più remunerativa di quella in bianco e nero.
Nei gloriosi e mitici anni Ottanta della “Milano da bere”, per intenderci, di pubblicità ce n’è a bizzeffe. Non si sa dove metterla. Nascono persino nove testate per poterla accogliere e soddisfare l’offerta. Ciò che provoca anche un fenomeno di gigantismo nell’editoria di cui oggi paghiamo le conseguenze. Con i “tagli” drastici del personale. Allora, invece, si espandono corpi redazionali all’inverosimile. E così si moltiplicano i supplementi dove «poterla stipare, da raccogliere in settori merceologici che non si addicono tradizionalmente ai quotidiani o almeno al modello di quotidiano utilizzato in quegli anni»: cosmetici, accessori, moda, eccetera.
Tuttavia il Corriere si aggiudica la prima uscita. 7 arriva in edicola il 12 settembre 1987, il Venerdì il 16 ottobre, poco più di un mese dopo. Ma al quotidiano di via Solferino non è sufficiente l’anticipo per recuperare lo svantaggio editoriale complessivo. Tuttavia per la redazione del Corriere è una “botta di vita”, dai benefici effetti psicologici per tutto l’assetto del gruppo editoriale. Segna l’inizio di un riscatto dopo gli anni bui dello scandalo P2, il lungo periodo di amministrazione controllata. C’è voglia di esserci e fare, di rimettersi in gioco e in gara. Pietroni ha vinto, per così dire, “barando”.
Ha ingannato il nemico. Per settimane è andato in giro a dire che 7 sarebbe uscito in ottobre, che non ce l’avrebbe fatta prima, così da rassicurare la concorrenza, per altro pronta a entrare in campo con Epoca allegata a la Repubblica se il varo de il Venerdì per un qualche motivo non fosse dovuto riuscire. Ma il trucco per nascondere la vera data di uscita di 7 in realtà fu un altro: regalare la pubblicità del primo numero come se si trattasse di un “numero zero”. Come fosse una prova “interna”.
Al progetto de il Venerdì Scalfari vi ha lavorato giorno e notte, chiuso nella sua stanza con Franco Bevilacqua, un grafico interno allora in auge. Il magazine di via Solferino stupisce soprattutto per i servizi fotografici, tanto che Scalfari lo definirà «guarda e getta» nella ricostruzione che ne fece lo storico del giornalismo Paolo Murialdi.
Al Corriere inventano Replay
Per più di un anno le distanze tra i due quotidiani restano più o meno inalterate. Una manciata di qualche migliaio di copie. Il ribaltamento avviene con il varo da parte del Corriere di Replay, in opposizione al Portfolio del diretto concorrente, un gioco basato sul recupero dei biglietti usati della Lotteria di Capodanno. Una seconda chance. Una specie di Bingo, per altro già testato e adottato su quotidiani a diffusione locale. Il gioco però viene messo ben presto sotto accusa, perché ritenuto squalificante per il giornale che lo veicola.
Più o meno la stessa critica che verrà rivolta anni dopo a l’Unità diretta da Walter Veltroni quando il 28 gennaio 1995 – e per tre anni consecutivi – il quotidiano veicola in edicola, abbinate, le cassette Vhs dei più bei film del repertorio cinematografico disponibile, ciò che consente a chiunque di costituirsi una bellissima library nel salotto di casa propria: «È un danno, i lettori comprano la cassetta e non l’Unità, che neppure sfogliano e abbandonano per strada» affermano i critici dell’operazione editoriale. Anche gli edicolanti si lamentano, perché nei paraggi delle edicole ci sono copie abbandonate che svolazzano al vento. Però l’iniziativa per il quotidiano fondato da Gramsci va fortissimo ed è una mano santa per i rossi conti del giornale dell’ex Pci.
Replay debutta il 14 gennaio 1989, un sabato. L’operazione funziona. Il marketing si augura un aumento del 20-35%. Quel giorno la tiratura arriva a 980 mila copie, ben 220 mila in più del giorno precedente. Quel sabato il giornale in edicola va a ruba. Non c’è resa. Il riequilibrio è avvenuto. Il Corriere è di nuovo il primo giornale e ha riscavalcato la Repubblica.
Il trend dura per diverse settimane. Nei giorni a seguire il Corriere schizza dalle 530 mila copie di venduto medio a quasi un milione. La Repubblica che stava saldamente in testa a 700 mila copie con una distanza di oltre centomila di vantaggio sul diretto concorrente, ora è sotto di 300 mila unità. Lo scontro non si ferma. Il quotidiano fondato e diretto da Eugenio Scalfari decide di rilanciare mandando in edicola l’edizione del lunedì, quella che contiene anche lo sport. Settimo numero che però ha un effetto depressivo sulla diffusione dell’intera settimana, abbassandone la media. In più c’è ormai una moltiplicazione dei supplementi, che sembra non giovare più come all’inizio.
Nel 1991 i due quotidiani sono praticamente testa a testa, ventimila copie di differenza a vantaggio del giornale milanese. E comunque ciascuno sopra le 650 mila copie di media giornaliera. Mese per mese gli sbalzi sono notevoli. È un continuo rincorrersi, gareggiare, sorpassarsi a vicenda. Nel 1992 l’arrivo di Paolo Mieli, da La Stampa alla direzione di via Solferino, chiude e stabilizza la partita per un lungo periodo. Nel 1993 il Corriere viaggia a una media di 624 mila copie di media giornaliera, la Repubblica a 624 mila. Poi, nel 1997, 7 surclassa il Venerdì con 757 mila copie contro 741 mila.
Nasce il mielismo
Dell’era Mieli in via Solferino s’è detto, scritto e studiato molto. Il suo modo di guidare il giornale è stato definito un “metodo”, il metodo Mieli. Arriva da Torino, dalla direzione de La Stampa, dove – in coppia con Ezio Mauro, che ne è il vice – ha conseguito ottimi risultati. Di diffusione e anche di immagine. Il sabaudo quotidiano piemontese, tradizionalmente chiuso tra la regione di appartenenza, la Valle d’Aosta e la Liguria, ha varcato il Po ed è sceso dalla pianura verso Roma conquistandosi credibilità e autorevolezza nazionali. Si dice che 75 mila delle sue oltre 400 copie di vendita si sparpaglino lungo il dorso della Penisola.
Mieli è molto più politico del proprio predecessore, Stille. Ha un occhio al prodotto e uno all’edicola, al marketing. Rovescia totalmente la grammatica delle pagine, “sfondando” letteralmente la gabbia che diventa una fisarmonica ad uso delle necessità giornalistiche del giorno, delle notizie, degli argomenti. Mieli opera forse la prima riforma grafica dopo cent’anni di storia fatta di piccoli aggiustamenti: cambia le testatine, introduce il colore e un nuovo genere giornalistico, definito talvolta anche con accezione non sempre positiva: “il mielismo”, contaminazione tra cultura “alta” e cultura “bassa”, serio e faceto.
Lui è naturalmente portato a vedere i dettagli delle notizie, dei fatti e soprattutto delle storie, in politica come nello spettacolo. Crea il genere del “retroscena”, già sperimentato a La Stampa con Augusto Minzolini, il cronista politico sguinzagliato ad arte nei Palazzi, rinomina il primo sfoglio con la testatina “in Primo piano”, unifica le pagine di cultura e spettacoli in un unico nastro senza soluzione di continuità.
Si occupa in modo quasi forsennato di televisione, dove la realtà per altro avviene e si racconta, specie per le questioni politiche con i talk show e gli scontri verbali dentro i talk show, che il giorno dopo il lettore non può non trovare menzionati e raccontati dentro il giornale. Il “mielismo” è una “forma estrema di giornalismo”, più “sgarzolina” si potrebbe dire. O frivola e frizzante rispetto ad un passato plumbeo e compassato.
C’è chi lo ama e chi no. Chi la giudica infantile. Si narra che l’Avvocato Gianni Agnelli, azionista di riferimento del quotidiano milanese, abbia detto a Mieli: «Direttore, lei ha messo la minigonna al Corriere». Vero? falso? All’epoca sul Superdirettore di leggende ne girano parecchie. Tutti hanno gli occhi puntati su via Solferino. Specie la diretta concorrenza. Si dice che ogni giorno Eugenio Scalfari apra la riunione di redazione del mattino chiedendo: «E oggi Paolino cosa ha fatto?»
La competizione è nuovamente riaperta. Mieli alla scuola de l’Espresso e di Scalfari s’è professionalmente formato e forgiato. E ora restituisce tutto quel che ha imparato. Circa i concorrenti, Cristiano Draghi attribuisce a Mieli la seguente espressione: «Bisogna ammazzarli da piccoli».
Nel 1996, all’età di 72 anni, Eugenio Scalfari decide di ritirarsi e di affidare la Repubblica nelle mani di Ezio Mauro, che di Mieli è stato appunto il vice a La Stampa. Come dire: se la vedano loro. Chi ha più filo tessa. Mieli in fondo una rivincita se l’è presa: ha piegato il vecchio Maestro. E così, dopo cinque anni di direzione-turbine, nel 1997, all’età di 48 anni, anche lui lascia la direzione. Come se avesse assolto un compito.
E la passa al suo vice, Ferruccio De Bortoli, allora quarantaquattrenne, un interno promosso sul campo, una novità assoluta in via Solferino. Ma prima di lasciare sferra l’ultimo attacco: il 23 marzo 1996 Mieli manda in edicola, tra grandi squilli di tromba, Io Donna, il primo femminile allegato a un quotidiano per una tiratura di oltre un milione di copie. Il 21 maggio successivo si accoda anche il diretto concorrente che vara D – la Repubblica delle donne. Ancora una volta il Corriere s’è aggiudicato d’un soffio la guerra dei supplementi.
Tra le prime iniziative del successore, il neodirettore De Bortoli, ci sono il decollo degli abbinamenti editoriali, i cosiddetti “panini”. In Campania e a Como, ad esempio. Dove il Corriere si abbina ad una testata locale per lo stesso prezzo di copertina o per un prezzo simbolicamente maggiorato e forfettizzato, comprensivo del costo di due testate in una. Poi il restyling di alcuni inserti, il lancio di nuovi dorsi locali. Sul piano dei contenuti riequilibra i toni del “mielismo”, che tuttavia continua a sopravvivere al proprio inventore anche altrove e con altri mezzi. Non solo sulle stesse pagine, ma persino fuori dal Corriere, avendo questo genere di giornalismo contaminato e trovato inossidabili estimatori e seguaci, anche se non sempre apprezzabili imitatori. De Bortoli lancia invece una nuova formula: «Un giornale moderno con un’anima antica».
Tuttavia è proprio lui a portare l’attacco “fine di mondo” al cuore del diretto concorrente, strappando – in combutta con Mieli – a Ezio Mauro il blasone della ditta giornalistica di piazza Indipendenza, Giuseppe D’Avanzo, il “cavallo di razza”, nato e cresciuto alla scuola di Scalfari, di sicuro il miglior specialista di giudiziaria esistente su piazza, che dopo qualche anno di scorribande e incursioni, con inchieste anche in giro per il mondo (Russingate), rientrerà alla casa madre con il ruolo di vicedirettore. Con De Bortoli nasce anche l’online Corriere.it.
«Nel trimestre settembre-novembre 2000 le ultime dichiarazioni degli editori alla Fieg danno per il Corriere una vendita media (copie in edicola e in abbonamento pagate) di 719.617 copie, mentre la Repubblica è dietro con 664.939» annota Draghi. L’11 settembre 2001 crollano a New York le Twin Towers e pure le Borse mondiali. Finisce l’era della net economy e scoppia pure la “bolla” dell’economia. Si contraggono i consumi, si riduce la pubblicità, scoppia la prima vera crisi e internet apre un po’ per volta la caccia alla carta stampata perché fare un giornale online costa di gran lunga di meno. E leggerlo nulla.
Dodici anni più tardi, giovedì 9 maggio 2013, in una notizia all’interno delle pagine economiche, il quotidiano diretto da Ezio Mauro titola: «Repubblica prima in edicola, bene le copie digitali». Secondo i dati dell’Ads, l’Accertamento diffusione stampa, il quotidiano di largo Fochetti a Roma ha venduto in media ogni giorno 327.587 copie mentre il diretto concorrente milanese di via Solferino 315.117 (410 mila copie con il Venerdì). Le copie digitali, visibili su tablet o smartphone, sono per la Repubblica 48.477 e per il Corriere 44.252).
Quanto all’edicola, rispetto agli anni d’oro, le copie dei due principali quotidiani sono comunque dimezzate. Così come lo sono quelle complessive della stampa in genere. La crisi galoppa. E miete vittime. Tante. Non solo di carta, ma in carne ed ossa.
(3. continua)
Per favore quando sono uscite le altre puntate dell’inchiesta e come si possono avere? Grazie. Molto interessante.