Una delle peggiori crisi politiche italiane si è risolta grazie a una mediazione che lascia sperare in una fase di distensione. Già a dirlo, si sentono fischiare le pallottole di tanti che impugnano la pistola (è una metafora, il Preiti resta un disperato isolato, non una banda terroristica), di tanti che ritengono un tradimento anche solo ipotizzare la non belligeranza o addirittura la «pacificazione» con gli avversari politici che detestano. Io spero che la fiducia al governo Letta non faccia la fine del «bacio di Lamourette», quel curioso episodio che apre il libro, così intitolato, di un bravo storico americano, Robert Darnton.
Nel 1792, nella fase più acuta delle tensioni rivoluzionarie, durante la quale la folla inferocita impicca e decapita rappresentanti del governo accusati di affamare il popolo, il 7 di luglio, un deputato della Rhône-et-Loire, che portava quel curioso nome «buonista», Antoine Adrien Lamourette, si alzò in assemblea per accusare come causa di tutti i mali in corso «la faziosità» e propose di onorare invece «la fraternità», il terzo della triade dei principi rivoluzionari. Per un momento magico tacquero le urla e i parlamentari si abbracciarono e baciarono. L’ondata di fraternità si estese fuori del palazzo tra i francesi. Gli storici hanno trattato l’episodio, carico di emozioni, come un momento passeggero e di scarso peso: un mese dopo ci fu l’insurrezione e tornarono le divisioni. La fraternità tornava nell’angolo.
La stanchezza per la «faziosità» non basta a farla passare. Occorre rimuoverne più in profondità le radici. Sono sicuramente molti quelli che hanno passato i limiti della decenza, da entrambe le parti. La mancata piena legittimazione reciproca ci ha spinti in un vicolo cieco. Negli ultimi due decenni la destra di Berlusconi ha usato sistematicamente l’insulto come carburante per dividere e accrescere, in uno spirito autenticamente «fazioso», i propri consensi nei momenti di difficoltà. Dall’altra parte la campagna contro il leader del Pdl ha conosciuto momenti forsennati ed è diventata, anche lei, un carburante per attizzare mobilitazioni nei momenti di bassa.
Il giorno dopo la rielezione di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica, il Fatto Quotidiano presentava l’evento come un «patto immorale e dissennato», come «una ferita grave» allo spirito repubblicano e alla «coscienza civile». Il solo fatto di non avere votato Rodotà è dipinto dall’autore dell’articolo di fondo, Maurizio Viroli, come un peccato di «immoralità», e i suoi lettori dovrebbero credere alla tesi che ora il Presidente non è più «un potere neutrale di garanzia, ma forza di parte» perché «opposta» al candidato di Beppe Grillo, diventato il titolare esclusivo della «fedeltà alla Costituzione»: sciocchezze imbarazzanti, per chi le scrive, per chi le deve leggere, e anche per Stefano Rodotà, che non meritava di finire trattato come una freccetta, perdente, nel tiro al bersaglio contro Napolitano.
La situazione è dunque meno grave che nel rivoluzionario ’92 parigino, ma gli ardori partigiani continueranno per un po’ a produrre un forte rumore dentro il quale fesserie come queste tentano di passare inosservate. E a spegnere definitivamente i sentimenti incendiari servirà indubbiamente il passaggio a un regime di alternanza tra soggetti politici «regolari», capaci di rappresentare opzioni di governo in competizione tra loro. Il fatto che ne siamo ancora lontani è quel che ci deve fare apprezzare il momento «Lamourette», la prevalenza se non proprio di un abbraccio almeno di una ragionevole mediazione, capace di consentire il transito verso una fase più matura.
Non stupisce che a guidare questo passaggio sia Enrico Letta, insieme ad una squadra che rappresenta bene la «cultura della mediazione» che ha avuto il suo incubatore storico nella Dc, e che è confluita nel Pd, via Margherita, ma che non è stata affatto estranea alla storia del Pci (il compromesso storico, la solidarietà nazionale, Napolitano) come hanno sottolineato in questi giorni Scalfari sulla Repubblica e, qui accanto, Salvatore Vassallo. Si tratta di un governo delle «seconde file». E ben vengano i secondi se i primi incendiano gli animi. Certo insieme agli incendiari come Berlusconi o Brunetta, ci troviamo a sacrificare uno come Giuliano Amato, che avrebbe reso il governo più forte e abile nella mediazione in Italia e all’estero. Nel «prendere o lasciare» si paga un prezzo elevato.
Ma il risultato di questo passaggio, la durata e lo sbocco del momento magico di Lamourette dipenderanno dai protagonisti di un futuro equilibrio nell’alternanza e non solo dai fondamentali aggiustamenti istituzionali. Riusciranno i nostri eroi a destra e a sinistra a cambiare la natura dei loro sgangherati convogli? Il Partito democratico, la cui sconfitta elettorale è la causa ultima della paralisi seguita alle elezioni, ha davanti ora una stagione e il tempo necessario per assumere qualche decisione sulla propria leadership e identità. Non potrà trascinarsi appresso tutti gli enigmi e le incertezze che non ha voluto sciogliere finora: partito del lavoro e del sindacato o partito liberaldemocratico pigliatutto? Non potrà continuare a tenere insieme ipotesi contrastanti attraverso generiche formule retoriche come quelle dell’ultima «carta degli intenti».
E il Popolo delle libertà, o come si chiamerà, non può immaginare che la grazia ricevuta in quest’ultima occasione per il comportamento sciagurato (e quasi perversamente coordinato) di Bersani e Beppe Grillo gli possa abbuonare tutte le insormontabili magagne del conflitto di interesse, delle leggi ad personam, dei conflitti con la giustizia. Se così fosse, se il Pd si ripresentasse tra un anno come l’asino di Buridano al bivio tra agenda Fassina e agenda Renzi, e se il Pdl ci riproponesse le sue trincee intorno alle aziende di famiglia e alla Gasparri, allora saranno di nuovo disordini. E il ciclo senza fine del rancore.