La cosa più facile, naturale, quasi spontanea, è leggerlo come uno spaccato dei metodi, dei tic e dei vizi del potere. Segnatamente quelli della vecchia Dc e dei suoi tanti uomini più o meno di spicco. Però Il cielo è dei potenti di Alessandra Fiori (edizioni e/o, € 18) è anche, se non soprattutto, un libro sull’angoscia che in fondo il Potere produce in chi non ce l’ha e tenta di conquistarlo e, una volta raggiunto, esercitarlo e mantenerlo inalterato nel tempo senza perder posizioni. Tra alleanze, colpi bassi e opportunismi. Un trattato sull’ansia da prestazione da “scalata al”. Un libro sul “fattore umano” e le sue miserie, che Fiori descrive in modo puntuale e grande dimestichezza, a partire da una considerazione generale, valida erga omnes: «Eravamo giovani e masticavamo gli anni nella convinzione che i successi sarebbero stati sempre meglio».
È infatti con questa idea in testa che il protagonista, Claudio Bucci, giovanissimo avvocatino che segue le orme del padre nel modesto e incerto studio di Fiano Romano, con il desiderio di volersene presto affrancare per coronare il suo sogno, si butta in politica. Cominciando dal basso, dalla gavetta, dal concorrere per un posto al consiglio comunale di Roma, città in cui vive. Usufruendo di una piccola base di partenza, il Caspes, centro associativo di studi politici e sociali, «una mezza associazione culturale, primo passo per mettere in piedi un gruppo» perché, «in politica, se vuoi uno spazio per prima cosa devi farti un seguito». Che significa prima di tutto amici, tessere («Quante tessere vuoi? Vorrai pur contare qualcosa!») quindi voti. E poi pacchetti di voti. Da controllare. Quindi lettere da inviare agli elettori in occasione del voto. E poi cordate, padrini e padrinaggi politici, correnti e strategici cambi di corrente per non rischiare di cadere, all’ultimo.
Mentre, parallelamente, scorre anche la vita di tutti i giorni, con tutte le incombenze del caso, l’affitto, le bollette, le difficoltà ad arrivare a fine mese, nonostante i desideri e le ambizioni, economiche e sociali, e poi via via che si ascende il mutuo e i mutui, la moglie, la famiglia, i figli, la scuola dei figli (rigorosamente americana, anche se non sappiamo una parola d’inglese, riflette tra sé e su di sé il protagonista), le tensioni affettive con i loro cali che inducono a uscire e sviare dal “seminato”, dunque l’amante-non-amata, della quale ci si vergogna anche un po’, ma che è un perfetto toccasana antistress, rilassante come una ginnastica, anche se sotto sotto generatore di altre più o meno percettibili tensioni, angosce, sensi di colpa, stati d’animo per lo più non felici e a rischio infarto, insieme a tutte le altre infinite e sfinenti preoccupazioni dentro al grande puzzle di una carriera che non si completa mai. E mentre il tempo scorre, si ambisce a passare dal consiglio comunale a quello regionale, poi a un posto da assessore fino ad uno da parlamentare sperando di diventare prima o poi – tra Camera e anticamere – anche sottosegretario e, perché no?, forse un giorno persino ministro o anche solo sottosegretario, proprio sul filo di lana della caduta della Prima Repubblica, mentre il Paese crolla tra gli scandali.
Usando mezzi, mezzucci, appoggi, sponsor, conoscenze o anche solo millantandole. Compresa una mezza adesione, non confermata, alla Loggia massonica segreta a cui all’epoca si iscrivono tutti per “correre” di più e più facilmente, per smanie di potere, di relazioni o anche solo per esserci ed essere annoverati nell’influente giro.
Una corsa all’occupazione, al presenziare, all’essere à la page, far una gran bella figura o quantomeno non sfigurare, essere sempre nell’empireo e non farsi trombare, vorticando tra riunioni, incontri, provvedimenti urgenti e decisioni «in apparenza fondamentali». Aspirare senza rischiare di essere aspirato e al contempo frullato. «Solo ora – riflette Bucci – mi accorgevo del numero di persone con cui eravamo entrati in contatto durante la campagna elettorale. E adesso che ero stato eletto, erano diventati tutti amici. Saluti, baci, abbracci e inviti. Tanti inviti, da tutte le parti». Che arrivavano anche sotto forma di biglietti per uno spettacolo a titolo gratuito, la prima grande soddisfazione, quella di non dover tirare fuori una lira di tasca propria, a Caracalla per esempio. «Credo di aver realizzato un sogno» confessa Bucci alla moglie Giuliana, che lo bacia «altrettanto ebbra e frastornata». Già, il Potere. C’è, ce l’hai o presumi di averlo, ma non è rassicurante. Anzi. «Non importa quanto lontano senti di essere arrivato, ci sarà sempre qualcuno più forte, più in alto, più potente di te». Già.
«Avevo ricevuto un fracco di preferenze, ero entrato nella giunta al primo colpo, ma non riuscivo a scacciare il presentimento che il gioco vero si facesse da un’altra parte e su altri tavoli» è il tarlo quotidiano di Bucci. Retropensiero in base al quale c’è sempre qualcuno che sta lavorando, altrove o nell’ombra, per fregarti. Dubbio che in breve diventa certezza. Quando scopre che qualcosa non va nei mandati di pagamento del suo assessorato: «Erano sempre gli stessi imprenditori a lamentarsi dei ritardi, mentre altri non li sentivo per niente». Fare politica a propria insaputa. O come ostaggi.
«Mi sentivo gagliardissimo e con la conquista della Regione a un passo». Esaltazione. Potere chiama potere. E vuole altro potere. E lo status conseguente vuole anche i suoi symbols: «Portava un vestito blu al ginocchio con un’ampia scollatura sul davanti. Nel giro di cinque minuti mi ritrovai in un angolo a valutarle le tette. Lei rideva. Marta rideva sempre, pure troppo. Era un po’ scema, ma qualunque cosa dicessi sembrava la interessasse. Magari non mi ascoltava per niente, però fingeva benissimo. Finalmente avevo davanti una donna che mi osservava come un uomo e basta. Una donna che si sarebbe lasciata scopare senza quell’ombra di tenerezza in fondo agli occhi. Senza le carezze e le parole dolci. Scopare per scopare e basta». Antistress.
Salvo poi arrivare più avanti all’epilogo, con lei che gli dice: «Tu ti vergogni di me» dopo che Claudio Bucci, avendola incontrata solo e rigorosamente nella sua piccola casa al centro, cede alle sue richieste e la porta finalmente a cena «in un ristorantino anonimo fuori città», sul lago, quaranta minuti d’auto, lontano da occhi indiscreti, incontri inopportuni. E invece incappa proprio nell’incontro della coppia sbagliata: «Presentai Marta come la mia assistente (…), se fossimo stati in un qualunque e affollato ristorante del centro, allora, forse, sarei stato almeno un po’ credibile. Invece avevo scelto quel buco di merda allo sprofondo. Come mi era venuto in mente? Questo leggevo nello sguardo di Lombardozzi, come nell’atteggiamento imbarazzato di sua moglie che continuava a fingere di non avermi visto per niente». Qui la penna della scrittrice mette a nudo con efficacia tutta la gamma dei sentimenti provati da Bucci, che si sente piccolo piccolo dentro la larga strada della sua grande ascesa programmata, voluta e difesa con i denti. «Sangue e merda» per dirla con il socialista Rino Formica quando descrisse così la chimica della politica.
Nel libro di Alessandra Fiori, dietro i tanti nom de plume si riconoscono bene il sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti (Agostino De Sanctis) e il suo fido Franco Evangelisti («A Fra’ che te serve?»), gli Emilio Colombo, lo squalo Sbardella, il Gran Maestro della P2 Licio Gelli (Camillo Signorelli) dal cui incontro scaturisce l’elezione a Montecitorio, eccetera, eccetera. Personaggi che, lei bambina, se non conosciuti direttamente ha percepito, annusato e ricostruito nella sua percezione in un libro che è al tempo stesso anatomia del potere ma anche romanzo familiare, essendo la figlia di quel Publio Fiori, destra Dc, divenuto sottosegretario alle Poste nel governo Amato e alla Sanità in quello Ciampi, gambizzato dalle Br, iscritto alla P2 ma anche in possesso di una lettera autografa di Gelli in cui il capo della loggia massonica si diceva «dispiaciuto» per la sua mancata adesione all’organizzazione, dopo che Bucci-Fiori nel corso di un incontro a tu per tu gli fa capire di non aver gradito affatto l’ambiguità dei loro rapporti. E il possesso di quella lettera firmata da Gelli, dimenticata tra le scartoffie, diventa l’elemento determinante per l’autodifesa di Fiori e l’essere così scagionato, nel 2001, da una sentenza del Tribunale di Roma che ne ha escluso l’appartenenza.
Il cielo è dei potenti è stato definito in molti modi, come “romanzo democristiano” e come un romanzo che “esorcizza i fantasmi della vecchia Dc”. Il libro vale, ma è anche vero che se Alessandra Fiori non fosse la figlia di Publio forse (forse) lo si leggerebbe diversamente, con più distacco o anche solo come un bel saggio. Ma poiché da noi va assai di moda “il retroscena”, il dietro le quinte, lo spioncino, il buco della serratura, ecco che la parentela finisce per essere il must.
Libro ad ogni modo onesto e coraggioso, candidato al Premio Strega con il sostegno della giornalista Giovanna Botteri e del regista Paolo Sorrentino.
Titolo: Il cielo è dei potenti
Autore: Alessandra Fiori
Editore: e/o
Pagine: 296
Prezzo: 18 €
Anno di pubblicazione: 2013