Un nome condiviso tra Pd e Pdl per il Colle era necessario. Non solo per una mera questione numerica. L’elezione del nuovo Presidente della Repubblica è un po’ come la prova del nove per questo governo nato più di cinquanta giorni fa e ancora in attesa di emettere il primo vagito.
Quando, ieri sera, la rosa dei candidati si è ristretta a due, è iniziato a soffiare il vento della discordia. Da quanto emerge dai vari retroscena pubblicati oggi sui quotidiani, i nomi dell’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato e quello dell’ex sindacalista e presidente del Senato Franco Marini erano destinati a creare comunque una spaccatura interna all’una o all’altra parte. Per trovare i numeri – e finire per dare inevitabilmente ragione agli attacchi di stampo grillino su inciuci e inciucioni – Pierluigi Bersani ha infatti dovuto alzare la bandiera bianca di fronte a quella verde della Lega Nord. Lo scrive Carmelo Lopapa, su Repubblica: “Berlusconi, di suo, aveva scelto Amato. «Ma la Lega non lo voterebbe mai – ha spiegato poi ai suoi – e nel Pd avrebbe più problemi di altri»”. La conferma viene dal Corriere della Sera, dove Francesco Verderami riporta le parole di Alfano: “«Non possiamo votare per Amato perché il Pd è spaccato e perché noi ci spaccheremmo con la Lega»… Se ne sono accorti adesso i berlusconiani che il Carroccio non avrebbe appoggiato l’ex braccio destro di Craxi? E oggi come si comporterà Maroni con Marini? Se è vero che l’ha chiamato per dirgli «Tu sei un uomo di popolo e noi ti votiamo», come mai ieri sera non l’aveva ancora ufficializzato?”.
Paletti rigidi, quelli della Lega, che il Pdl non si è preso la briga di ammorbidire, tanto a pagarne di tasca propria è Pierluigi Bersani. Lo scrive anche Sallusti – un po’ gongolando – nell’editoriale de Il Giornale: “Il Pdl forse avrebbe preferito Amato, ma la strada alla fine è apparsa impercorribile. Meglio così, dico io. E paradossalmente Marini al Quirinale crea più problemi dentro la sinistra che nel Pdl. Già ieri sera Renzi ha annunciato che i suoi non lo voteranno, Vendola ha forti mal di pancia”. Versione confermata da Federico Geremicca che, su La Stampa, torna a prendere in mano proprio i numeri: “A fronte dei 672 voti necessari per essere eletti (maggioranza dei due terzi nelle prime tre votazioni) Franco Marini dispone sulla carta di 739 voti. Ma sulla carta, appunto. Il margine di vantaggio è esiguo: una settantina di voti scarsi. E considerato che i renziani, parte dei giovani turchi, i prodiani e perfino molti veltroniani potrebbero non votare per Marini, si vede bene come la partita sia ad altissimo rischio per il candidato-presidente e per l’intero stato maggiore del Pd”. Ed è sempre Geremicca a descrivere un Matteo Renzi (presentato come “il futuro del Pd”) “furioso”, una Debora Serracchiani dura quando commenta “una scelta gravissima” e un Nichi Vendola minaccioso: “Se insistessero su Marini mi metterei di traverso e sarebbe la fine del centrosinistra”.
Trattativa condotta e conclusa dunque pessimamente da Bersani. Con Giuliano Amato Bersani avrebbe portato un po’ di scompiglio in casa al centrodestra, con Marini lo scompiglio se lo prende in faccia tutto lui. Per non parlare di quel “fattore ‘vecchia Dc’” – come l’ha definito Michele Sorgi su La Stampa – che proprio non deve essere andato giù a Renzi.