Da Reset-Dialogues on Civilizations
Israele e Stati Uniti legati dall’esodo delle origini e dalla consapevolezza che l’aver trovato una terra promessa non è la fine ma l’inizio di un percorso. In quello che a pochi giorni di distanza viene già definito lo storico discorso di Gerusalemme, pronunciato nel Convention Center della città, Obama ha scelto di richiamare alla memoria la storia dei padri fondatori, la Shoah, le similitudini fra l’America, che ha definito nazione di immigrati, e Israele. Ha parlato del diritto, legittimo, degli israeliani a difendersi, e degli sforzi fatti insieme per garantire la sicurezza di uno stato e dei suoi cittadini, della politica militare, del sistema Iron Dome per contenere il lancio di razzi sulle città dalla Striscia di Gaza. Ha citato Begin e poi Rabin, come esempi di leader coraggiosi che si sono assunti dei rischi in nome della pace, per concludere che l’unica vera via per conquistare la sicurezza è “la realizzazione di uno stato vitale e indipendente in Palestina. Perché nessun muro sarà mai abbastanza alto e nessun sistema anti razzo mai abbastanza efficace”.
Obama ha parlato di una pace possibile: del fatto che non si possa contrattare con chi commette atti di terrorismo, ma sottolineando che l’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe davvero essere un partner con il quale sedersi e negoziare. E se il compito dei palestinesi deve essere quello di riconoscere il diritto di esistere dello stato ebraico Israele, allo stesso tempo tutti gli israeliani devono comprendere quanto le attività dei coloni e i continui nuovi insediamenti siano controproducenti per l’avvio di qualsiasi percorso di pace. Basti pensare che soltanto nello scorso anno sono cresciuti del 17%, una cifra record che non si verificava dal 1967.
Ventiquattr’ore prima di Gerusalemme il presidente degli Stati Uniti aveva ribadito lo stesso concetto anche a Ramallah, in Cisgiordania, durante l’incontro con il presidente dell’Anp, Abu Mazen: riprendere subito i negoziati diretti e ripartire da un accordo di massima di accettazione e sicurezza reciproca. Durante il colloquio con Obama, Abu Mazen ha fatto presente a sua volta che la condizione imprescindibile per tornare a discutere con Israele è la sospensione dei nuovi insediamenti.
Per Obama e per la politica degli Usa in Medio Oriente questi quattro giorni di viaggio hanno avuto un’importanza cruciale, e potrebbero davvero segnare un cambiamento di rotta. Per il presidente, al suo secondo mandato, è stata la prima volta in Israele e nei Territori, e quello di Gerusalemme è stato il secondo discorso al mondo arabo dopo Il Cairo di quattro anni fa, il 4 giugno 2009. In mezzo però ci sono stati cambiamenti epocali, fra il Nord Africa e i paesi mediorientali, dal rovesciamento dei vecchi governi di Tunisia, Egitto e Libia fino alla guerra in Siria, ancora in corso eppure a tratti dimenticata dalla comunità internazionale, che ha innescato una nuova fase di instabilità in tutta la regione, dal Libano all’Iran.
Ufficialmente Obama non è partito per proporre una soluzione, ma dall’inizio ha inquadrato la missione nell’ambito di un’operazione di ascolto delle parti e di dialogo, nella quale mettere a tacere qualsiasi voce di divergenza di rapporti con Netanyahu, anche lui rieletto da poco, nel gennaio scorso, e dare un segnale concreto rispetto alla questione più annosa e mai risolta della politica mediorientale, e di riflesso internazionale.
All’inizio del suo primo mandato, Obama aveva creduto di poter riuscire a innescare un nuovo round di negoziati, ma di fatto questo non è accaduto, anche a causa di una politica made in Usa nell’area “distratta” da Iraq, Afghanistan e programma nucleare iraniano. Di fatto il processo di pace langue dal lontano 1993, quando gli accordi di Oslo avevano inaugurato una nuova fase, poi interrotta bruscamente dall’uccisione del premier israeliano Yitzhak Rabin. Con Camp David si era nuovamente sfiorata la possibilità di un’intesa, ancora fra Arafat e questa volta Ehud Barak, poi mai realizzata. Nel frattempo le condizioni sono cambiate, e continuano a mutare incessantemente.
Oggi Israele deve fare i conti con la presenza di una destra nazionalista, influenzata fortemente dai coloni, e la Palestina con la debolezza dell’Anp, che ancora formalmente la rappresenta, e le divisioni interne difficili da appianare, a partire dalle relazioni con Hamas.
Ma se la pace ha bisogno di atti concreti più che di parole, un risultato Obama lo porta a casa: la distensione dei rapporti fra Israele e Turchia, congelati dopo la vicenda della Navi Marmara del 2010, quando l’assalto delle truppe speciali di Tel Aviv era costato la vita a nove attivisti turchi diretti verso Gaza con la Freedom Flottilla e pronti a violare l’embargo.
Netanyahu ed Erdogan si sono parlati, e il premier israeliano si è scusato personalmente per l’accaduto, precisando che quelle tragiche conseguenze non erano mai state premeditate, e che si è trattato di errori operativi.
Una vittoria per Obama, e indirettamente anche per la questione israelo-palestinese, perché Netanyahu ha ammesso con il primo ministro turco di aver predisposto una serie di facilitazioni per il transito di persone e merci da e verso i Territori, a patto che permanga uno stato di calma. La questione sembra risolta, e a due anni e mezzo di distanza, i due paesi torneranno a scambiarsi gli ambasciatori, mentre un’altra tragedia oggi li accomuna: la guerra siriana e gli effetti potenzialmente devastanti per entrambi.
Guarda il video del discorso di Obama agli studenti israeliani con la trascrizione integrale
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