Da Reset-Dialogues on Civilizations
Nel mese di gennaio del 2011 un’ondata di massicce manifestazioni a Piazza Tahrir, al Cairo, chiedeva a gran voce l’allontanamento del presidente Hosni Mubarak e la fine del suo regime. Pochissimi mesi dopo la stessa piazza è stata teatro di altre proteste affinché si mettesse presto termine al controllo dell’Egitto da parte dell’esercito, che di fatto era riuscito con successo a determinare la caduta del presidente Mubarak. Nell’autunno del 2012 abbiamo assistito ad ancora altre manifestazioni contro il presidente di recente nomina Mohamed Morsi, appoggiato dai Fratelli Musulmani. Poi, nelle ultime settimane, abbiamo letto delle prime dimostrazioni pubbliche a favore di un ritorno al regime militare. Il Paese sembra ancora lontanissimo dal raggiungere un qualche equilibrio a livello politico e tuttora in cerca di un’ancora di stabilità.
La base di consenso politico relativamente esigua su cui potevano contare la presidenza di Morsi e la Fratellanza Musulmana – che è apparsa evidente fin dalle elezioni parlamentari del gennaio 2012 – costituisce la principale debolezza dell’attuale governo, si traduce in una parziale carenza di legittimazione istituzionale e politica e continua a condizionare il contesto politico dell’odierno Egitto.
Sono trascorsi tre mesi da quando la nuova Costituzione promossa dal presidente Mohamed Morsi è stata approvata tramite referendum popolare. L’affluenza alle urne (pari al 32,9%) è risultata in quel caso addirittura inferiore a quella registrata in occasione delle elezioni presidenziali di giugno 2012 (43,4%), quindi la maggioranza relativa del 63,8% che ha approvato la nuova Carta Costituzionale difficilmente può essere ritenuta rappresentativa della maggioranza del corpo politico egiziano.
I principali partiti di opposizione – ora riuniti (perlomeno dal punto di vista formale) nel Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) – si sono sostanzialmente rifiutati di prendere parte al processo che ha portato alla ratifica della Costituzione, sostenendo che l’Assemblea Costituente fosse in realtà dominata da una maggioranza di islamisti, il che impediva a qualsiasi posizione discordante di far emergere il proprio punto di vista. Ciò implica che ad oggi quei partiti non riconoscono come legittima la Carta Costituzionale e si rifiutano di partecipare alle elezioni per un nuovo Parlamento. Tutti gli inviti all’apertura di un canale di dialogo avanzati dal presidente egiziano sono stati ripetutamente respinti dal FSN.
Le elezioni, che il presidente Morsi aveva indetto per il prossimo mese di aprile, sono state nel frattempo annullate da una Corte Amministrativa che ha giudicato incostituzionale la nuova legge elettorale. Bisognerà quindi aspettare la delibera di una Corte superiore a quella per sapere se, quando e come tali elezioni avranno luogo.
Intanto, sulla base di un decreto presidenziale, i poteri legislativi sono esercitati dal Consiglio della Shūra, un organo con funzioni puramente consultive dominato, ancora una volta, da membri islamisti, molti dei quali nominati dal Presidente stesso.
Si tratta ovviamente di una situazione di paralisi istituzionale e politica. Malgrado ciò, visto che l’Egitto è, quantomeno “de facto”, un regime presidenziale, Morsi e i Fratelli Musulmani sono comunque riusciti a portare avanti un doppio programma di islamizzazione della società egiziana e di “fratellizzazione” di parecchie delle sue strutture. Ciò si è tradotto, per citare solo due tra i moltissimi esempi possibili, in una fortissima stretta repressiva sui media e nella nomina di un nuovo Procuratore Generale la cui indipendenza è stata messa in serio dubbio dagli oppositori di Morsi.
Tali politiche hanno portato a un brusco calo di popolarità dei Fratelli Musulmani. La tendenza, già evidente a partire da tutta una diffusa serie di aneddoti e testimonianze, ha trovato conferma negli esiti delle elezioni delle Unioni Studentesche in molte università egiziane, dove i Fratelli hanno subito schiaccianti sconfitte in quella che fino ad oggi aveva rappresentato una delle prime basi del loro consenso. I risultati delle recenti elezioni nell’ambito del Sindacato dei Giornalisti, anch’esse conclusesi a sfavore della Fratellanza, sembrano ribadire questo trend.
Parte delle pubbliche proteste che si stanno registrando è diretta non tanto contro il Presidente, ma contro la Fratellanza Musulmana in sé, i cui uffici – sia al Cairo che in altre città – sono stati ripetutamente bersaglio di manifestazioni e in alcuni casi addirittura attacchi. Il mantra dei dimostranti è che il presidente Morsi sia in realtà privo di qualsiasi potere e che il Paese sia di fatto controllato a tutti gli effetti dalla Guida Suprema della confraternita, Mohamed Badie, con il rischio di trasformare l’Egitto in uno Stato a regime clericale come l’Iran.
Anche gli imam delle moschee statali (che sono oltre 106.000 in Egitto!) hanno cominciato a protestare contro i tentativi della Fratellanza – attraverso il Ministero degli Affari Religiosi Awqaf – di marginalizzarli e di utilizzare le moschee per fare propaganda elettorale.
Un problema ancor più serio pare però quello costituito dal proliferare di rivolte contro l’autorità politica vigente che stanno scoppiando in lungo e in largo in tutto il Paese, dal Cairo a Port Said a diverse cittadine di medie dimensioni nella zona del Delta. Il circolo vizioso di rivolta e repressione è ormai arrivato a contare centinaia di vittime. La furia dei rivoltosi – che non traggono ispirazione dai partiti di opposizione e quindi non possono neanche essere controllati da essi – è sempre più diretta contro la Polizia che finora non è mai stata oggetto di riforma e viene considerata, non a torto, lo stesso corpo istituzionale posto a tutela del regime che la Primavera Araba si supponeva avesse fatto cadere.
A complicare ulteriormente la situazione, contribuisce il fatto che la Polizia stessa è spesso in rivolta contro il governo, gli agenti scioperano, si rifiutano di svolgere le proprie funzioni e chiedono le dimissioni del Ministro degli Interni. Le loro rivendicazioni spaziano dal rifiuto della “fratellizzazione” del corpo a cui appartengono al non voler essere sfruttati per difendere gli interessi politici di un singolo partito alla richiesta di una più ampia facoltà di utilizzo delle armi da fuoco nella repressione dei disordini.
Sfortunatamente lo scenario politico egiziano non pare offrire una pronta alternativa politica ai Fratelli Musulmani. I tre maggiori partiti che compongono il Fronte di Salvezza Nazionale non possono competere con l’organizzazione strutturale della Fratellanza e, soprattutto, sono portatori di ideologie assolutamente incompatibili tra loro. Il Partito della Costituzione di Mohamed el Baradei è decisamente liberale, e pertanto inconciliabile con le posizioni nasserite/socialiste del Partito Karama guidato da Hamdeen Sabbahi. Ed entrambi, in quanto rappresentativi dello stravolgimento politico che ha portato alla caduta del presidente Mubarak, difficilmente risultano compatibili con il movimento capeggiato da Amr Moussa, che per parecchi anni è stato ministro degli esteri sotto Mubarak ed è collegato all’esercito e al precedente regime. L’unico tratto comune ai tre gruppi è quello di essere fondamentalmente laici, ma questo non è da ritenere un assetto politico poi così favorevole in un Paese considerato tra i più religiosi al mondo.
Non stupisce e viene spontaneo, in un contesto del genere, chiedersi quale potrà essere nelle prossime settimane il ruolo delle Forze Armate, che fino alla caduta del presidente Mubarak hanno controllato il Paese, ma senza gestire le problematiche collegate al governarlo in maniera diretta.
Finora la posizione delle Forze Armate – come dichiarato a fine gennaio dal ministro della Difesa, il generale Ahmed Fattah el Sisi – è stata improntata al timore che l’attuale condizione degli affari nazionali rischiasse di portare al “collasso dello Stato”. In un’eventualità del genere l’esercito sarebbe rimasto “la pietra solida e coerente su cui lo Stato avrebbe potuto fare affidamento”. Un’espressione quindi di seria preoccupazione, ma accompagnata anche da una velata, seppur generica, ammonizione.
È un dato di fatto che le Forze Armate abbiano fatto sentire la propria voce parecchie volte negli ultimi mesi su questioni anche molto più specifiche. Il generale Sisi ha espressamente negato che nelle Forze Armate potessero esserci degli infiltrati islamisti, insistendo sul fatto che chiunque si avvii al servizio militare è meglio dimentichi qualsiasi altra sua possibile affiliazione, per perseguire solo la devozione primaria che deve allo Stato. In risposta alla decisione del Procuratore Generale di dare il via libera agli arresti anche da parte di comuni cittadini, i portavoce militari hanno violentemente condannato “il tentativo di trascinare il Paese nella guerra civile attraverso l’istituzione di milizie…”. Fonti militari sono inoltre intervenute per mettere a tacere le voci secondo cui il governo sarebbe stato in procinto di concedere al Qatar l’appalto in esclusiva di un progetto per l’ampliamento e sviluppo di una porzione del Canale di Suez.
Questa serie di prese di posizione ribadisce come le Forze Armate si considerino i garanti della stabilità e integrità dello Stato egiziano, ma almeno per il momento non sembrano indicare il desiderio di intervenire direttamente nella mischia politica. Da una parte l’accordo raggiunto dalle Forze Armate con il presidente Morsi nell’ambito della nuova Costituzione garantisce loro la piena autonomia all’interno dello Stato, il mantenimento del proprio conglomerato economico e industriale con tutti i privilegi ad esso collegati, oltre a un certo grado di impunità per i gravi episodi di repressione che hanno avuto luogo nei pochi mesi in cui l’Egitto è stato direttamente governato dal Consiglio Supremo delle Forze Armate (CSFA). E dall’altra nella mente del comparto militare egiziano sicuramente è ancora vivo il ricordo di quell’esperienza di diretta gestione del Paese, nel periodo successivo alla caduta del presidente Mubarak, visto l’alto prezzo politico che l’esercito si è trovato a pagare e il grave danno che ne ha dovuto subire in termini di prestigio.
L’attuale frangente di crescente vuoto politico e caos generalizzato pare aver riportato alla ribalta la questione di un nuovo intervento in prima linea dei militari. Se ne discute sempre di più sulla stampa egiziana, è stato invocato dai dimostranti a Nasr City a inizio marzo e il leader del movimento salafita Alleanza Umma ha invitato a combattere per le strade la “cospirazione” tesa a riportare i militari al potere.
Forse non è una coincidenza che negli ultimi giorni ci sia stata una fuga di notizie estrapolate da un rapporto segreto, stilato la scorsa estate dal presidente Morsi, che sottolinea le responsabilità dell’esercito egiziano nelle sanguinose repressioni avvenute nel periodo in cui il CSFA governava il Paese. Tali responsabilità sembrano implicare l’allora Capo di Stato Maggiore Generale al Sisi, oggi ministro della Difesa.
Di certo sta crescendo la tensione tra l’establishment militare egiziano e la Fratellanza Musulmana, in un clima di reciproca sfiducia. L’esercito sicuramente non ha grandi ambizioni a intervenire nell’arena politica e ad assumersi le conseguenti responsabilità di governo. Ma gli eventi potrebbero precipitare a causa di un progressivo peggioramento della situazione economica. Le riserve complessive dello Stato sono diminuite di due terzi dall’inizio della rivoluzione e sono oggi ben al di sotto dei 15 miliardi di dollari statunitensi necessari a coprire tre mesi di importazioni. Il sostanzioso deficit nella bilancia dei pagamenti fa sì che sicuramente le riserve continueranno ad assottigliarsi. Per un Paese che è il primo importatore di grano al mondo questo potrebbe significare problemi gravissimi in un futuro non molto lontano.
Il presidente Morsi finora non è riuscito a chiudere un accordo per ottenere il supporto del Fondo Montetario Internazionale, o forse non è disposto ad accettarne le condizioni. L’unica alternativa, per guadagnare tempo, sembra quella di ricavare aiuti da fonti esterne.
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Traduzione dall’inglese di Chiara Rizzo