“The election will be twittered!”: è in questa parafrasi di Andrew Sullivan che si può racchiudere l’attesa fiduciosa con cui i media italiani hanno creduto di poter interpretare le scorse elezioni politiche attraverso il termometro dei social network.
È durata poco: la Big Data mania si è rivelata una di quelle cyber-utopie di cui parla Morozov nel suo Net Delusion. Abbiamo così assistito alla ritirata tempestosa di tutte le analisi sul comportamento elettorale dei twittatori italiani che fino a poche ore prima del voto troneggiavano sui giornali.
Molte le cause di questo stordimento collettivo. La mitopoiesi della democrazia digitale, che affonda le sue radici nella crisi dei partiti politici tradizionali e nei successivi processi di disintermediazione, ha pagato lo scotto di un elettorato molto più composito e tradizionale, il cui sentimento elettorale è difficilmente tracciabile in rete.
Un elettorato vecchio, il 60% del quale utilizza ancora la televisione per informarsi e il cui comportamento elettorale ha ricalcato le fratture tradizionali più che i movimenti della rete.
Anche il trionfo del M5S, che ha in parte confortato la teoria della supremazia del Web, non può essere ricondotto soltanto agli umori degli utenti online. Ne è una conferma proprio la dimensione del successo. In un Paese in cui – come ha brillantemente sottolineato qualche giorno fa Fabio Chiusi su Valigia Blu – soltanto il 4,4% degli elettori possiede un account twitter, il trionfo di Beppe Grillo ha delle ragioni più profonde e variegate.
Una forza politica nuova ottiene il 25% al primo appuntamento elettorale nel momento in cui riesce a politicizzare con successo una frattura ben più profonda nel panorama politico italiano, arrivando a larghe fasce di popolazione che ancora subiscono il digital divide e che sono demograficamente lontane dal campione di utenza dei social network.
Quello che è certo, finora, è che l’ascesa del movimento cinque stelle è figlia del progressivo depauperamento dei partiti politici tradizionali. Una crisi, quella del party government, che ha istituito nuove tipologie di relazioni tra partiti e cittadini, incidendo profondamente sui meccanismi di costruzione del consenso. Una crisi che ha costretto partiti svuotati delle loro funzioni primarie di mobilitazione e canalizzazione a inseguire una vasta fascia di elettorato incerto o fluttuante, affetto da una progressiva disaffezione verso la politica tradizionale.
Tale disallineamento ideologico nell’epoca dei partiti personali ha finito per riversarsi sulla classe dirigente politica, interpretata nel suo intero come l’artefice della crisi economica che ha sfiancato il ceto medio e bloccato l’ascensore sociale.
È questo il terreno su cui ha attecchito il modello e la rappresentazione di leadership plebiscitaria perfettamente incarnata da Grillo nelle sue invettive contro la politica tradizionale.
È in questo senso che si realizza la profezia weberiana sul carattere plebiscitario delle moderne democrazie: l’ascesa dei partiti personali e la progressiva erosione del legame tra i partiti e gli elettori ha favorito l’ascesa di quella leadership outsider che, Weber insegna, ha le maggiori possibilità di successo proprio nelle fasi di transizione sociale e politica.
Il cesarismo di Grillo, in questo modo, è perfettamente espresso anche dalla schizofrenia tra la retorica orizzontale su cui il movimento è fondato e l’effettiva organizzazione del gruppo stesso in campagna elettorale e dopo le elezioni. Da esperimento permanente di democrazia deliberativa a ennesimo partito personale, con decisioni post-elettorali prese ai vertici ;attraverso tecniche plebiscitarie di organizzazione del consenso.
E che è riuscito paradossalmente a trovare la propria cassa di risonanza più efficace proprio in quella televisione in cui Grillo ha rifiutato di comparire. È proprio in televisione che il movimento è riuscito a ricucire, dal punto di vista mediale, lo strappo generazionale su cui aveva strutturato il proprio battesimo pubblico: nelle immagini di piazza San Giovanni gremita di giovani e anziani, lavoratori e pensionati. Un perfetto gioco di specchi, impossibile da ottenere soltanto in rete. O nella platea di un teatro.
In questa prospettiva, la televisione è il mezzo che più di ogni altro è riuscito, ancora una volta, a interpretare e amplificare gli avvenimenti e le tendenze elettorali. Sugli interventi televisivi, non a caso, Berlusconi ha fondato quasi tutta la campagna del Pdl, riservando a twitter un’importanza marginale e limitandone l’uso a un’interazione di secondo schermo, prevalentemente in occasione delle ospitate più salienti.
E proprio in televisione il Partito democratico ha perso al rush finale. Con un segretario non pervenuto nelle fasi più delicate della campagna e una pianificazione mediatica centrata sui social network, che ha finito per sancire, agli occhi di un elettorato stremato e atomizzato, un peccato di autoreferenzialità, la consacrazione mediatica di quello scollamento dei ceti medio bassi che si è poi tradotto in un’emorragia elettorale verso il Movimento 5 Stelle.
Una sconfitta che va al di là del risultato immediato e pone il Partito democratico, ancora una volta nella sua breve storia, davanti al dilemma della propria identità. La “sindrome del cittadino critico”, per usare l’efficace espressione di Pippa Norris, sembra aver sanzionato proprio quel partito che aveva provato a istituire il proprio mito fondativo nelle elezioni primarie, un momento di democratizzazione interna oltre che di affermazione identitaria. E che adesso, a urne chiuse, si è trovato a scoprire quanto il percorso per una democrazia di qualità sia ancora una strada tutta in salita. A dispetto dei social network e delle loro deliberazioni.