Il Corriere della Sera: “La carta finale di Bersani. Oggi in direzione il leader insisterà sul tentativo con i 5 Stelle, ma senza evocare il voto. Renzi: io in campo? No, soltanto al prossimo giro”. In alto, la notizia della morte di Chavez: “Addio a Hugo Cavez. L’esercito nelle strade”.
La Repubblica: “Renzi: le quattrosfide a Grillo. Bersani oggi alla direzione: niente aut-aut, ma l’incarico tocca a me”. E poi: “Napolitano esclude la convocazione anticipata delle Camere. Il leader 5 Stelle: nessuna fiducia a un governo tecnico”. A centro pagina: “E’ morto Chavez, l’ultimo caudillo”.
La Stampa: “Bersani all’esame del Pd. Oggi la direzione: o me o il voto. Renzi attacca: però abbiamo sbagliato. Il Quirinale: impossibile anticipare prima del 15 marzo l’avvio delle Camere. Grillo rettifica la linea dei 5 Stelle: mai fiducia a governi tecnici. Berlusconi annuncia: in piazza una volta al mese”.
Il Giornale: “Renzi è già pronto. Il sindaco di Firenze torna in campo, vede Monti e apre al governo Pd-Pdl. Bersani ha i giorni contati”.
Libero: “La parentopoli di Grillo e Pd. I Democratici hanno eletto quantità industriali di rampolli, consorti e nipoti di ex deputati o consiglieri che non potevano più ricandidarsi. Il M5S porta in Parlamento madre e figlio”. A centro pagina: “Bersani all’angolo, Renzi tratta con Monti”.
Il Fatto quotidiano: “Guai a chi tocca Napolitano”. Il quotidiano racconta di una comunicazione della procura di Roma, secondo cui il procuratore della Corte dei Conti del Trentino Alto Adige ha denunciato pressioni “dei superiori e del Colle per salvare dalle inchieste il Presidente della Provincia Durnwalder”. Il Procuratore sarebbe “indagato per ‘calunnia e offese all’onore del Capo dello Stato”. “E se dicesse la verità?”, si chiede il quotidiano, che “pubblica tutte le carte dello scandalo più censurato d’Italia”.
Il Sole 24 Ore: “La liquidità Usa spinge le Borse. Gli acquisti di bond dalla Fed, gli utili delle società americane e la ripresa del settore dei servizi fanno volare i mercati. Dow Jones al massimo storico grazie a Bernanke, Milano a +2,8 per cento”. A centro pagina, notizia che compare anche sulle altre prime pagine, i dati di un rapporto di Bankitalia: “Il reddito non basta a 2 famiglie su 3. Allarme Bankitalia: le difficoltà maggiori per i nuclei in affitto e con il capo famiglia operaio o disoccupato. L’incidenza della povertà tra i giovani raggiunge il 15.2 per cento del totale”.
Chavez
Moses Naim, intervistato da La Stampa, dice che “sta per iniziare un periodo complicato, segnato, probabilmente, da lotte feroci nell’establishment politico per la lotta per il potere”. Moses Naim, ex ministro al Commercio e all’Industria del Venezuela tra gli anni 80 e 90, ora politologo del Carnegie Endowmnent, dice che la fase verso cui si avvia il Paese è delicata perché comunque Chavez “seppur malato, era un coagulatore, unificava la popolazione tenendo insieme i suoi sostenitori e l’opposizione”, “per carisma, pugno duro, ma anche per la forza dei soldi. Durante i suoi mandati i prezzi del petrolio sono schizzati alle stelle, toccando valori record, e permettendo al Venezuela di incassare tanto denaro come mai in passato”. “Il Presidente Chavez ha poi avuto mano libera per utilizzarlo per i suoi obiettivi, senza alcun controllo e restrizione”. C’è il rischio di derive golpiste? “No, perché l’esercito è direttamente controllato da governo e dai gruppi cubani. L’Avana ha un ruolo fondamentale nel gestire l’esercito venezuelano”.
Sullo stesso quotidiano Mimmo Candito traccia un ritratto del personaggio: “Il caudillo che ha riacceso l’orgoglio del sudamerica”. Il suo riferimento era soprattutto Simon Bolivar, il generale che sognò l’integrazione continentale: era il panamericanismo, ambiziosa costruzione di una unità continentale cui pensava come una vera e propria unità politica basata sul riscatto di quella che lui denunciava come una “dipendenza di un continente dall’imperialismo yanqui, analoga, per l’appunto, alla rottura di Bolivar dal potere coloniale della Spagna”. Il modello di Chavez era quello di un socialismo nazionale fatto di alte spese sociali con una relativa stabilità economica dovuta alla dovizia di mezzi che gli offriva il mercato petrolifero. Quando il suo progetto incontrava resistenze, “Chavez scavalcava l’ostacolo intervendo direttamente sulle strutture proprietarie con la nazionalizzazione delle imprese”. Per Candito l’aspetto più interessante del caudillismo di Chavez è stato l’utilizzo dei media per la costruzione del consenso: il controllo dei media è stato il suo obiettivo prioritario, e la geniale invenzioen di un talk show (Halo, presidente) da lui condotto ogni domenica per un tempo senza fine, fino all’ultima luce del pomeriggio, gli ha permesso di sfruttare efficacemente l’istrionismo spontaneo del suo modo di dialogare con gli spettatori, che telefonavano “in diretta”.
Chavez, ricorda Omero Ciai su La Repubblica, ha vinto quattro elezioni consecutive, le sue ricette politiche, magari riviste e corrette, hanno fatto scuola in molti Paesi del sudamerica. Entrò in scena per la prima volta il 4 febbraio 1992, guidato un fallito colpo di stato militare contro il Presidente Peres. E un passaggio chiave, ricorda Ciai, fu il “caracazo”, del 1989: nel febbraio di quell’anno l’esercito represse nel sangue una rivolta popolare contro le misure anticrisi del FMI. Violenza brutale in tutti i quartieri popolari della periferia di Caracas da parte dei militari, che provocò secondo alcuni 3500 morti. Tre anni dopo, in memoria di quella strage Chavez tentò il putsch. Andò male, ma nei “barrios” della capitale divenne un eroe venerato. Nel suo Paese ha occupato tutto quel che c’era da occupare, riuscendo comunque a galvanizzare le masse con i suoi programmi sociali: “Grazie a Chavez migliaia di venezuelani si sono potuti operare gratis, molti hanno avuto una casa, altri un paio di occhiali, altri un vitalizio”. Il suo delfino è il vicepresidente Nicolas Maduro, che ieri ha annunciato in diretta la morte. E’ un ex sindacalista e autista di autobus, ed è considerato a Caracas “l’uomo dei cubani”, quello che per l’Avana garantisce l’essenziale: i consistenti aiuti in petrolio in cambio di “misiones” dei medici cubani in Venezuela. Chavez, prima di recarsi all’Avana a dicembre per l’ultimo intervento, aveva indicato in Maduro il suo successore se “fosse stato necessario”. Ma per collocare Maduro nella linea di successione è stata necessaria una forzatura, poiché la Costituzione, scritta da Chavez nel 2000 prevede che in assenza o in morte del presidente l’incarico passi al presidente del Parlamento, che in questo caso è Diosdato Cabello, che però pare godere di altrettanta fiducia da parte dei cubani. Quando Chavez decise di indicare Maduro, Cabello accettò. Ciai ricorda che Maduro non ha il carisma di Chavez, e che Cabello è molto più forte anche nell’esercito, da cui proviene. Oggi il Venezuela avrebbe bisogno di riconciliazione, ma i primi comportamenti di Maduro vanno nella direzione contraria: ieri infatti, nel corso della riunione con i massimi vertici politici e militari, Maduro aveva detto: “Voi sapete che i nemici della patria hanno deciso di attivare piani per la destabilizzazione globale del Venezuela”. Maduro ha ordinato l’espulsione dal Paese di due addetti militari dell’Ambasciata Usa ed ha sostenuto che il tumore che ha ucciso il Presidente “è il frutto di un attacco dei suoi nemici”, evocando esplicitamente la morte di Arafat.
Rocco Cotroneo sul Corriere (“L’uomo che sfidava l’impero Usa a braccetto con i Castro e gli ayatollah”) scrive che per il Venezuela la prima vittoria elettorale di Chavez fu traumatica: rompeva il consociativismo tra due partiti corrotti (Ad e Copei) che si spartivano il potere da decenni in un Paese seduto su un mare di petrolio. Nei primi 4 anni di potere non indossava camicie rosse, né si definiva socialista, dichiarava ammirazione per Castro e attaccava gli Usa, puntava sull’integrazione latinoamericana contro l’imperialismo yanqui ma non ne faceva una questione ideologica: era “un caudillo classico, più peronista che marxista”. Tra il 2002 e il 2003, il cambiamento, anche a seguito di un fallito golpe dei suoi avversari. Nei mesi successivi affronta la serrata dell’economia, quando annuncia di voler prendere il controllo del colosso petrolifero Pdvsa. Poi lancia le missioni sociali, vara il sistema di distribuzione a prezzi calmierati di beni di primo consumo, e sovvenziona tutto, dai frigoriferi ai regali di Natale per i bambini. Nel 2004 resiste ad un’altra spallata, un referendum per revocarne il mandato, e radicalizza la sua rivoluzione con la nazionalizzazione di tutti i settori strategici dell’economia ed espropri di proprietari terrieri ed imprenditori non allineati. Crea sul piano del welfare un “sistema paternalistico e squilibrato”. Gli investimenti esteri fuggono dal Venezuela degli espropri, il controllo sui prezzi fa crollare la produzione agricola e costringe il governo ad importare di tutto. L’inflazione resta sempre a due cifre, il cambio nero arricchisce la finanza, la corruzione esplode. Ma la fortuna di avere per un decennio il prezzo del barile ad un livello tale da permettergli di espandere la spesa pubblica.
Democrazia via web
La Repubblica intervista Umberto Eco sul fenomeno Grillo: “Ha successo perché non va in tv, ma l’aristocrazia del blog ora non basta”. “Il grillismo parlamentare è una contraddizione. Di qui l’imbarazzo di Grillo, perché la sua idea era quella di un grillismo informatico. Cioè, se è impossibile radunare i cittadini per legiferare in piazza, si crea la piazza informativa, per cui il Sovrano è “online”. Ma l’idea non tiene conto del fatto che gli utenti del web non sono tutti i cittadini (e per lungo tempo non lo saranno) per cui le decisioni non vengono prese dal popolo sovrano ma da una aristocrazia di bloggisti. Per cui non avremo mai il popolo in perpetua assemblea. Questa è l’impasse del grillismo, che deve scegliere tra democrazia parlamentare (che esiste, e che lui ha accettato partecipando alle elezioni) e agorà, che non esiste più o non ancora. Una democrazia informatica è parsa esistere nella cosiddetta primavera araba, e ora vediamo chi poi ne ha approfittato”.
Sulla prima pagina de Il Foglio ci si occupa di una “ex sorpresa” politica, ovvero il partito dei pirati tedeschi: l’anno scorso ha ottenuto il 9 per cento nella placida Berlino, e il 7-8 per cento in altre elezioni regionali. Oggi nei sondaggi vale il 2-3 per cento, e i vertici hanno cercato di correre ai ripari: in nome della trasparenza, hanno indetto una consultazione online sull’attuale leader Iohannes Ponader e sui suoi sostituti. Ma dei 32 mila militanti iscritti al partito, solo 500 si sono scomodati a dare via internet il loro voto. E chi ha partecipato ha bocciato senza possibilità di appello lo stesso Ponader, che “si è beccato un bel 6, che nel sistema scolastico tedesco è il voto peggiore che si possa prendere”. In conferenza stampa Ponader ha detto che se lo aspettava, ma che comunque non pensa minimamente a dimettersi.
Politica
La Repubblica definisce il “dietro front” di Grillo sulla ipotesi di un governo tecnico: “Il movimento 5 Stelle non darà la fiducia a un governo tecnico, né lo ha mai detto”. Due giorni fa il neocapogruppo al Senato Crimi sembrava non aver chiuso del tutto la porta a questa ipotesi”. Ancora parole di Grillo: “Non esistono esecutivi tecnici in natura, ma solo governi politici sostenuti da maggioranze parlamentari”, “noi non ci alleiamo con i partiti, ma con tutti i movimenti e le associazioni. Il presidente del consiglio tecnico è una enorme foglia di fico, per non far apparire le vere responsabilità di governo da parte di Pdl e Pd meno Elle.
Oggi intanto si riunisce la Direzione del Partito Democratico, e tra i presenti ci sarà anche il sindaco di Firenze Matteo Renzi che, secondo La Repubblica, avrebbe maturato in queste ore una convinzione: il Pd non deve inseguire Grillo, va sfidato sul suo terreno, quello della innovazione, perché in tutta la campagna elettorale la sinistra si è fatta dettare l’agenda da Berlusconi ed ora, a campagna finita, non è possibile farsela imporre da Grillo. Secondo La Repubblica per uscire dall’angolo oggi Renzi proporrà una ricetta di riforme pesanti in 4 step: abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, cancellazione dei vitalizi ai parlamentari, trasformazione del Senato in Camera delle autonomie (i cui componenti verrebbero designati e retribuiti dagli enti locali come comuni e regioni) e abolizione delle province. Sul piano interno, secondo il quotidiano, Renzi intende restare a fianco del segretario, “io non sono interessato a scorciatoie. La mia strada è dentro al partito e, attraverso nuove primarie, sarei semmai intenzionato a ripropormi”. Nuove “primarie vere” per “immaginare un approdo a Palazzo Chigi. Nessuna cooptazione”. Secondo lo stesso quotidiano Bersani avrebbe deciso di “aprire” al “piano B” rinunciando all’ultimatum: “dopo di me non ci sono solo le elezioni”, sarebbe il pensiero di Bersani. Che comunque sarebbe tornato ad escludere un governo con Berlusconi. La linea oltranzista – chiosa La Repubblica – è stata abbandonata. Anche il Corriere della Sera evidenzia come Bersani si avvia a comparire dinanzi al parlamentino Pd con accenti nuovi: starà attento a non provocare quei dirigenti che si muovono in sintonia con il Quirinale, ed eviterà di indicare le elezioni anticipate come unica subordinata: “niente aut-aut”.
Ieri peraltro Matteo Renzi ha incontrato Mario Monti a Palazzo Chigi. Il Corriere riassume così il suo pensiero: “Io sono in partita soltanto se c’è un secondo giro”, “nessuna coltellata alle spalle, nessuno strappo, nessun inciucio”. Sul suo discorso oggi in Direzione, esclude un intervento di rottura, dice che “non sarà un regolamento di conti”. Chiaro che lui avrebbe agito diversamente perché “ci voleva più rottamazione, non meno rottamazione”, e perché “se Bersani avesse spinto per l’abolizione del finanziamento pubblico e il dimezzamento dei Parlamentari adesso Grillo non sarebbe al 25 per cento”.
Tutt’altra lettura è quella che dà Il Giornale: “Renzi si vede già nel futuro. Prove tecniche da premier”. Il quotidiano scrive che l’incontro “istituzionale” di ieri con Monti era in calendario da tempo: “ma l’immagine in sé del giovane sindaco che va nel portone di Palazzo Chigi, due giorni prima del segretario Pd (convocato per parlare di Ue) ha avuto un forte impatto nel Pd. Che si sta riconvertendo in blocco al fatto che Renzi sia l’unica carta da giocare in futuro, in vista di elezionio che nessuno dà per troppo lontane, comunque vadano i tentativi di formare un governo”.
E poi
A parlare del rogo a Bagnoli della Città della Scienza (polo scientifico inaugurato nel 2001) è sulla prima de La Repubblica Roberto Saviano, che spiega come si tratti di uno sfregio criminale di come la camorra voglia cementificare Bagnoli.
La Stampa intervista l’urbanista Vezio De Lucia, assessore con Bassolino dal 1993 al 1997 e padre del piano Bagnoli, che aveva portato alla creazione della Città della Scienza. Ricorda che Bagnoli è stato un punto cruciale del cosiddetto Rinascimento napoletano, quando si insediò Bassolino ed era stato appena spento l’ultimo altoforno: “Noi trovammo un vecchio progetto di Iri, governo e sindacati, con una forte cementificazione. Lo rifiutammo, spiegando che il destino di Bagnoli doveva deciderlo Napoli, e ne facemmo altro: parco di 120 ettari, più della metà del totale, sport, tempo libero, cultura, basso impatto edilizio, e la spiaggia, che Napoli non ha”. Poi De Lucia racconta le resistenze di chi pensava che Bagnoli avrebbe dovuto restare zona industriale, ricorda un Bertinotti che ad un convegno gli disse “compagno De Lucia, il bello non ci salverà”. Fu decisiva per far partire il progetto la credibilità di Bassolono. “Lui, ingraiano e operaista, andò a parlare sulla spiaggia di Bagnoli ai cassintegrati Italsider, l’aristocrazia operaia cui era devoto, e disse: lo spazio che vi sta alle spalle sarà il parco pubblico più grande di Napoli”. Cosa è accaduto negli anni? Per De Lucia, “l’attuazione del progetto è stata fondata su una società comunale: doveva essere più effficente della Pa, ma si è trasformata in un feudo autoreferenziale, una sinecura politica lottizzata con il bilancino dei partiti con il criterio della fedeltà. Lo dico da trinariciuto statalista: c’è troppo pubblico a Bagnoli”. Poi ricorda di esser andato via nel 1997, quando cominciò la fase di “onnipotenza” di Bassolino: il limite suo e dei suoi successori “è stato pensare che Bagnoli fosse una autogratificazione, in grado di compiersi quotidianamente. Richiede una fatica quotidiana, invece è stata abbandonata fino alla paralisi”.
L’inserto R2 de La Repubblica è dedicato ad una vicenda che riguarda Israele. Il quotidiano parla di “segregazione” per descrivere la nuova linea della compagnia di autobus Afikim, destinata solo ai pendolari palestinesi. Scrive il Corriere della Sera che fino a lunedì scorso i pendolari delle città e villaggi palestinesi come Tulkarem e Nablus hanno condiviso la corsa con gli altri abitanti della Cisgiordania, i coloni che vivono ad Ariel o negli insediamenti intorno. Adesso le linee 210 e 211 sono destinate agli arabi. Attraversato il valico, i bus si fermano solo per lasciar scendere – all’andata. E gli stop al ritorno raccolgono gli stessi palestinesi. Il ministero dei trasporti ha spiegato che questo sistema è stato lanciato dopo le richieste dei sindaci degli insediamenti. In alcune petizioni i residenti si sono detti preoccupati perché le corse “miste” aumenterebbero i rischi per la sicurezza e il pericolo di attentati suicidi. Il ministro Katz, che ha preso la decisione, ha assicurato che le nuove tratte sono a beneficio dei lavoratori palestinesi, promettendo di aumentare il numero delle corse: “Fino ad ora sono stati taglieggiati da autisti privati e illegali. Li costringevano a pagare fino a tre volte due di più. Lo ammette, intervistato da Haaretz, un muratore di Hebron. “Prima il viaggio mi costava 30 shekels (6 euro), tra andata e ritorno. Adesso ne posso tenere in tasca quasi 20. Al giorno arrivo a guadagnarne 200, il risparmio è importante”. Il governo israeliano ha ribadito che ai palestinesi non è proibito salire su altri autobus, perché il servizio continua a funzionare come prima, ma le organizzazioni per i diritti civili continuano ad accusare il governo di segregazionismo. Peraltro secondo alcuni in questo modo i pullman diventeranno più facilmente oggetto di assalto degli estremisti israeliani.
Il Foglio in prima pagina si occupa dell’imminente arrivo a Gerusalemme di Obama, per la sua prima visita da Presidente degli Usa nella regione. Incontrerà Netanyahu, che sta per costituire il suo terzo governo, e, secondo quanto trapela al Foglio dal gabinetto del primo ministro, il viaggio si concentrerà su Iran e Stato palestinese. Obama avrebbe chiesto a Israele un piano di ritiro dalla Cisgiordania, non sul modello di Gaza, ma un nuovo “freeze”, congelamento delle costurzioni negli insediamenti che sorgono fuori dai blocchi principali. Netanyahu accetterebbe di consegnare all’Anp alcune aree della Cisgiordania, tra cui le vie di accesso alla nuova città palestinese di Rawabi, presso Ramallah. Città completamente nuova finanziata dal Qatar, con tanto di centri commerciali e cinema. Israele individuerà, secondo alcuni, i confini naturali, in modo da includere il massimo numero di israeliani che vivono in Cisgiordania e il minimo numero di palestinesi. Si concentrerà sui grandi blocchi degli insediamenti, mantenendo, oltre alla regione di Gerusalemme, il 10 per cento della Cisgiordania, le fonti idriche e quattro strade principali.