Corriere della Sera: “La Lombardia sceglie Maroni”, “Apertura di Bersani a Grillo. Napolitano: prova complicata, ma la supereremo”.
A centro pagina: “Borsa in caduta, lo spread vola: torna la sfiducia dei mercati. Merkel: Roma troverà la sua strada”.
Il Sole 24 Ore: “Lo shock elettorale travolge Borsa e spread”, “Il differenziale sui Bund vola a 344, all’asta Bot tassi in rialzo dallo 0.73 a 1,24 per cento. Oggi test sui Btp”.
Di spalla apertura di Bersani al Movimento 5 Stelle: niente ‘governissimi’”. In taglio basso: “In Lombardia vince Maroni”, “Ambrosoli sconfitto ma Pd primo partito”. “Zingaretti nuovo governatore del Lazio, M5S contesta il voto”.
La Repubblica: “Bersani apre a Grillo: ‘No al Pdl’, ‘noi primi, ma non abbiamo vinto’”. “Maroni conquista la Lombardia, il Lazio a Zingaretti”. A centro pagina: “Crolla Piazza Affari, si impenna lo spread”.
La Stampa: “Bersani, apertura a Grillo”, “il segretario Pd: dica che cosa vuole fare”. “Il leader 5 Stelle: noi valuteremo legge per legge. Napolitano: supereremo questa prova. Crollo a Piazza Affari: -4,89 per cento, e lo spread vola a 344”.
Il Fatto quotidiano: “Bersani si aggrappa a Grillo”.
Libero: “Bersani ci rovina”; “l’uomo che voleva smacchiare i giaguari rifiuta l’offerta di Berlusconi e apre invece a Grillo per un governo precario che non potrà reggere la sfida della crisi. E il conto lo pagheremo noi”. A centro pagina una vignetta per illustrare la vittoria di Maroni, sotto il titolo: “il cuore del nord alla Lega. Maroni stravince al Pirellone ma sul Carroccio si litiga”.
Il Giornale: “Giù le mani da Berlusconi”. Il quotidiano punta l’attenzione su “l’arma giudiziaria dopo il voto” e scrive che “il risultato elettorale del Cav fa ripartire l’assalto dei Pm: tre processi in un mese”. Poi: “Anche la Lombardia è del centrodestra. Maroni governatore. Bersani ammette la sconfitta e studia l’inciucio con i grillini”. A centro pagina una foto di Roberto Maroni: “Un altro schiaffo ai salotti chic”.
Lombardia
La sfida per la presidenza della Regione Lombardia è stata vinta da Roberto Maroni, candidato del centrodestra, con il 42,8 per cento. Ambrosoli si è fermato al 38,2. “La Regione con il Pil più alto d’Italia sceglie la strada della continuità – scrive il Corriere. “Dopo 17 anni di governo Formigoni la Lombardia incorona ancora una volta il centrodestra”. Silvana Carcano, candidata 5 Stelle, ha ottenuto il 13,6 per cento contro il 17 ottenuto dal Movimento al Senato. Gabriele Albertini, candidato di Monti con la sua lista Lombardia civica, si è fermato al 4,1 per cento, contro il 10,7 ottenuto da Scelta civica al Senato.
Rispetto alle ultime regionali, nel 2010, dove la Lega aveva ottenuto il 26.,2, in questa occasione in Lombardia il Carroccio è al 13 per cento. La lista civica Maroni presidente ha ottenuto il 10,2.
La Stampa scrive che probabilmente Roberto Maroni ha vinto nonostante la Lega e il suo calo di voti. Il successo starebbe nella lista civica “Maroni presidente”, sul modello Verona, quello del sindaco Tosi. Dice lo stesso Maroni: “Sono andato ad intercettare i voti di chi non vota Lega, ma ha votato per me e il mio programma”, “sapevamo che l’accordo con Berlusconi ci avrebbe danneggiato”, “però abbiamo salvato la Lega”.
Per quel che riguarda Ambrosoli, La Stampa sintetizza: “L’avvocato convince solo Milano ed altre 4 città”, ovvero Pavia, Bergamo, Brescia e Mantova. La sua lista e tutta la coalizione che lo sostiene – dal Pd a Sel passando per Idv – va meglio di quanto sia andato il centrosinistra alla Camera, e per questo Umberto Ambrosoli ieri indicava il bicchiere mezzo pieno: siamo dieci punti sopra alle politiche. Un retroscena dello stesso quotidiano porta questo titolo: “Il fiasco perfetto della sinistra che non seduce la Lombardia”. Scrive Michele Brambilla: “Come per i risultati delle politiche anche per queste amministrative risalta l’incapacità del centrosinistra di entrare nel cuore del profondo nord, quello dei capannoni e delle fabbrichette, degli artigiani e delle piccole imprese”. Insomma, il “nord produttivo resta a destra” e la sinistra si era illusa di rivivere la stagione di Pisapia sindaco nel 2011: per quella “rivoluzione arancione” qualcuno pensò ad un passo nel futuro, ma mai come ora si fa forte il sospetto che quella vittoria fu solo l’effetto del tragico momento che stava vivendo il centrodestra, con Berlusconi svillaneggiato in tutto il mondo per il caso Ruby, con il governo di Roma in agonia, e con un sindaco uscente (la Moratti) che non aveva mai legato con la città. Gli elettori di centrodestra, che continuavano a restare la maggioranza, si erano insomma presi un periodo sabbatico.
Sul Corriere della Sera Dario Di Vico scrive che l’ingrediente base della vittoria di Maroni va individuato nella ritrovata sintonia del centrodestra con le categorie produttive della Lombardia: Maroni è figlio di un territorio come il varesotto dove c’è la maggior densità europea di imprese e partite Iva in rapporto al totale dei residenti.
Ambrosoli sociologicamente è espressione della borghesia milanese delle professioni, aveva da recuperare un gap di competenze ed empatia troppo ampio, “Ambrosoli ha finito per pagare i limiti di autoreferenzialità di una certa società civile milanese”.
Su Il Giornale: “L’asse Pdl-Lega non si spezza. E’ la formula vincente al Nord”. Il quotidiano scrive che Ambrosoli non ha raccolto il voto disgiunto di montiani e grillini. L’analisi del voto sottolinea che “i lumbard resistono, ma regalano a Grillo un elettore su due”. Un grafico si sofferma sui voti persi nei feudi lumbard: in Veneto la Lega era nel 2008 al 27,8 per cento, ora ha perso 500 mila voti scendendo al 10.5; in Lombardia era al 21,6, ha perso 590 mila voti, scendendo al 12,9; in Piemonte era al 12,6, ha perso 200 mila voti, scendendo al 4,6. Tradotto in seggi, in Lombardia ha perso 31 parlamentari, in Piemonte 37.
Sul Sole 24 Ore, una analisi del voto al nord dove si legge che la macroregione o euroregione vagheggiata dal Carroccio esce rivoluzionata nella propria geografia politica, poiché trionfano i grillini: l’euroregione leghista “si sveglia a 5 Stelle”.
Sul Sole 24 Ore una analisi di Roberto D’Alimonte e Lorenzo De Sio sui flussi elettorali relativi al voto di Grillo, che arrivano da tutti i partiti. Il focus è relativo alle città di Torino e Palermo, due casi del tutto diversi, poiché nel primo si tratta di una città industriale e postindustriale a forte vocazione di sinistra, mentre nel secondo si è di fronte a un centro dalla realtà sociale complessa e tradizionalmente dominato dal centrodestra. Il paragone vien fatto sugli elettori del 2008.
A Torino Grillo ha colpito in modo particolarmente duro la sinistra: sia per Idv che per la Sinistra Arcobaleno i tassi di passaggio verso Grillo sono molto alti, poiché circa la metà degli elettori di questi due partiti sarebbe passata al Movimento 5 Stelle. Rispetto a Sinistra arcobaleno si tratta del 47 per cento, per quel che riguarda Idv sarebbe il 63 per cento degli elettori ad esser passato con Grillo. Stimata al 20 per cento la quota di elettori Pd che si sono spostati verso Grillo.
A Torino la Lega perde un terzo dei propri elettori a favore di Grillo. Meno colpisce il Pdl, che perde solo un elettore su dieci a favore di Grillo.
Diverso il caso di Palermo, dove la penetrazione di Grillo è, secondo D’Alimonte e De Sio, “straordinariamente trasversale”, poiché tutti i partiti perdono i voti a favore di Grillo in modo assolutamente simmetrico, con percentuali di elettorato stabilmente comprese tra il 23 e il 30 per cento. Per i due studiosi l’analisi che se ne può trarre è che a Torino, forse anche in relazione alle vicende della Tav, si vede apparire “la matrice originaria, partecipativa e bottom up del movimento, che fiorisce in un contesto postindustriale caratterizzato da una tradizione di partecipazione politica”. Non a caso le prime affermazioni di Grillo alle amministrative l’anno scorso si erano manifestate al centro e al nord. “Viceversa a Palermo sembra manifestarsi la componente top-down del grillismo, l’appello personale del leader (spesso con toni fortemente populisti) che fa leva in modo completamente trasversale sulla protesta anti establishment (ottenendo consensi anche a destra) in contesti caratterizzati dal forte disagio sociale e spesso privi di una specifica tradizione partecipativa”, che invece esiste nelle regioni del centro e del nord.
Su La Repubblica, l’analisi dei flussi elettorali verso il Movimento 5 Stelle: “Un terzo dalla sinistra, 18 per cento dal Pdl, così Grillo ha fatto il pieno di voti”. I due blocchi hanno perso 10 milioni di consensi. Si fa riferimento alle analisi dell’Istituto Swg e dell’Istituto Cattaneo di Bologna. Secondo i dati Swg, rispetto al voto europeo del 2009, tra i voti di sinistra arrivati ai grillini l’11 per cento viene dal Pd, il 12 dall’Idv e il 7 per cento da altri. Sull’altro versante, il Pdl ha pagato un 18 per cento, la Lega l’8, e altri l’1 per cento. Il resto del bottino di Grillo arriva dall’astensione: il 37 per cento. Grillo è riuscito nell’impresa di riportare alle urne più di tre milioni di astenuti. Ammonisce il presidente di Swg Weber: “Attenti a dire che ‘si tratta solo di un voto di protesta’, ci sono due strati di elettorato: un primo, che vale il 10-12 per cento ingloba nuove istanze democratiche di gestione del territorio; il secondo strato è invece fortemente insofferente rispetto alla gestione dello stato e ai partiti”.
Bersani, Pd, Pdl
Il Corriere della Sera descrive un Bersani “deluso”, dando conto della conferenza stampa tenuta ieri dal segretario Pd, le cui dichiarazioni vengono sintetizzate così: “noi primi, ma non vincitori”. Bersani ha ammesso che la governabilità, leggendo i dati elettorali, non c’è, ma non si intesta la mancata riforma del Porcellum: “Non siamo stati noi a impedirla”. Ha invitato il leader 5 Stelle a prendersi le sue responsabilità, ha parlato di un governo “di combattimento, di cambiamento”. L’idea secondo il Corriere è ottenere la fiducia alla Camera e poi, al Senato, tentare la sorte voto dopo voto, contando su una dozzina di grillini e su Monti, che pure Bersani non nomina mai. Bersani pensa di procedere “tema per tema” e li ha elencati: riforme istituzionali, legge sui partiti, moralità pubblica e privata, difesa dei ceti più esposti alla crisi. Per quel che riguarda il centrodestra, il segretario Pd ha negato che ci si possa mettere ad “imbastire accordi”, e se il Cavaliere apre “lui ha chiuso brusco: ‘Berlusconi? Si riposi’”.
Anche La Repubblica si occupa di questo appello lanciato da Bersani a Grillo, che si è confermato essere primo partito alla Camera, con 45 mila voti in più rispetto al Pd. Ad insistere per il dialogo con M5S è Vendola. E non mancano i riferimenti al sindaco di Firenze Matteo Renzi. Ieri, come racconta La Stampa, si è sottratto alla riunione dei big del Pd che si è tenuta in serata: “Sto zitto e non faccio polemiche, come dal ballottaggio in poi, ma non mi si chieda di condividere e soprattutto di venire a Roma per fare riunioni di caminetto, come lo chiamano, assieme a Rosy Bindi”, avrebbe detto al suo staff. Renzi non ha ancora commentato i risultati elettorali ma, secondo La stampa, il suo pensiero sarebbe questo: “Dovrei ripetere che il nostro compito era snidare gli elettori delusi del centrodestra? Che non bisognava sottovalutare Berlusconi? O che dovevamo fare nostri alcuni temi di Beppe Grillo? Inutile, ora. Inutile, dopo aver voluto le primarie salvo poi chiuderle al secondo turno per paura che venissero a votare elettori esterni al centrosinistra: che sono precisamente quelli di chi avevamo bisogno alle elezioni vere e che, naturalmente, non ci hanno votato”. Insomma, secondo La Stampa, per ora Renzi non attacca il segretario, ma nemmeno dà sostegno a una linea che non pare condividere granché.
La Repubblica intervista Graziano Del Rio, presidente Anci e renziano della prima ora. Dice: “Sono tra quelli che pensano non sia utile interrogarsi come sarebbe andata se a vincere le primarie fosse stato Matteo”, “non ci sono renziani e bersaniani, se si perde la colpaè un po’ di tutti anche se, certo, bisogna prendere atto che la nostra proposta non ha convinto il Paese”, “penso ad esempio ai ceti produttivi del nord”. Infine, su Renzi: “Penso che se il Pd gli chiede di scendere in campo, Matteo c’è”.
Sulla prima de Il Fatto il direttore Padellaro commenta l’apertura del Pd a Grillo e invita il leader 5 Stelle a dare una mano al segretario Pd: “In fondo, il grillismo nasce da una costola della sinistra, quella più intransigente sui problemi della legalità e della avversione alla casta che, non sopportando più il cinismo di certi professionisti rossi della politica, ha trovato nella ‘altra politica’ l’approdo ideale. E se anche il leader Pd si è scoperto improvvisamente assai sensibile ai costi morali della partitocrazia, come si dice, meglio tardi che mai. Grillo farebbe bene ad agevolare il dialogo, anche a costo di sacrificare un disegno abbastanza evidente: appendere sulla riva del fiume il cadavere di un sistema piuttosto malconcio dopo i risultati di lunedì”. Ancora Il Fatto si sofferma su chi potrebbe prendere l’iniziativa di aprire a Grillo. Se debba essere cioè il segretario o un Matteo Renzi, imponendogli di salvare il partito, forse l’Italia, attraverso un accordo veloce. In alternatvia, si fa il nome di Fabrizio Barca, ministro tecnico che ha scelto di non schierarsi ed ha annunciato il suo obiettivo: quello di rifondare il partito nel dopo Bersani: Barca conosce i grillini, è stimato da Napolitano, ha un volto rassicurante e una biografia eccellente, scrive Antonello Caporale.
Sullo stesso quotidiano si intervista il governatore della Sicilia Rosario Crocetta, che all’Assemblea regionale siciliana ha raggiunto una serie di convergenze con i Grillo boys su una serie di battaglie ambientali: “Fate come me, alleatevi, da noi funziona”.
Su Reset leggi l’articolo di Giancarlo Bosetti “Perché lo sconfitto è il Pd”
La Repubblica intervista Nicola Zingaretti, eletto ieri governatore del Lazio con il 41,3 per cento dei suffragi. Secondo Francesco Storace, candidato del centrodestra, con il 28,7 per cento; terzo Davide Barillari, candidato M5S, 20,3 per cento, quarta Giulia Bongiorno, montiana, 4,5 per cento. Dice Zingaretti: “Voltare pagina rispetto agli scandali non basterà. Qui bisogna mettere in campo una proposta di governo che deve confrontarsi con tre sfide: la prima riguarda la partecipazione”, la seconda “la trasparenza” e “la terza lo sviluppo”. Si rivolgerà anche ai grillini? “Cercheremo di essere aperti al confronto. Durante la campagna elettorale ho parlato della necessità di inaugurare una fase costituente. Ora voglio proseguire con coerenza”. Su questi temi pensa di guadagnarsi l’ascolto e l’appoggio dei 5 Stelle? “Non ci sono pregiudiziali nei confronti di nessuno. La nostra sarà una proposta di governo basata su innovazione, trasparenza, taglio dei costi della politica, sviluppo e lavoro. Su questi punti ci sono affinità. Se ci sarà anche consenso con il Movimento 5 Stelle lo vedremo in aula”. Zingaretti, fa notare La Repubblica, ha conquistato peraltro quasi duecentomila voti in più della sua coalizione.
Libero insiste, con Giampaolo Pansa: “Obbligatorio l’accordo Pd-Pdl per un governo di emergenza. Tornare alle urne significherebbe consegnarsi a Grillo e a una devastante crisi economica. Al leader democratico e a Berlusconi non resta che abbracciarsi”.
Anche sulla prima de Il Foglio si torna su Berlusconi che “pensa intensamente alla Grande coalizione”, ma con una “legislatura costituente che duri cinque anni”, come dice Fabrizio Cicchitto. Al segretario Pd il Cavaliere avrebbe fatto arrivare un messaggio di questo tipo: state attenti a Grillo. Se dialogate con lui e nominate le cariche istituzionali poi potrebbe mollarvi sul piìù bello, e a quel punto non crediate che il Pdl sia disposto a correre in vostro soccorso. Insomma, se deve esserci negoziato sulla grande coalizioen tra Pdl e Pd deve iniziare da subito e comprendere tutto, a cominciare dalla presidenza della Repubblica, fino alla presidenza di Camera e Senato. In questi giorni, il Cavaliere è tornato con forza sul suo “vecchio pallino delle larghe intese”.
Su La Repubblica: “Berlusconi apre, ma incassa il no del Pd. Alfano: ‘Da soli faranno solo disastri’”. E un retroscena ha questo titolo: “’Napolitano al Colle, io al Senato’, ecco il piano del Cavaliere per i due anni di governissimo”. Ai fedelissimi avrebbe spiegato che proporrà a Bersani di chiedere la conferma del Presidente, anche solo per uno o due anni, il tempo necessario a fare le riforme prima di tornare alle urne. Per spianarsi la strada alla sua ascesa alla seconda carica dello Stato, la presidenza del Senato, “che poi equivarrebbe, più o meno, al salvacondotto da inchieste giudiziarie”, chiosa La Repubblica.