Sarà il brand politico di Marco Rubio a salvare i repubblicani?

Definito come “una figura eccellente”, “il Barack Obama del GOP”, o – per dirla con Karl Rove – “il miglior comunicatore dai tempi di Ronald Reagan”, il giovane senatore della Florida, Marco Rubio, sembra promettere di convincere gli elettori giovani e immigrati – ma pure anti-gay e negazionisti del cambiamento climatico – a votare per i Repubblicani. Ma, si domanda National Journal, sarà all’altezza delle aspettative? Tanto più che già Time magazine aveva recentemente dedicato a Rubio una copertina carica di oneri, che lo presentava come “Republican saviour”, il “salvatore dei Repubblicani” (diventata ancora più famosa grazie alla risposta data dallo stesso Rubio via Twitter: “C’è solo un salvatore, e non sono io. Gesù”). All’interno di quel numero, “Immigrant Son”, prendendo spunto dal titolo della sua autobiografia An American Son, ne racconta la storia – dalle origini cubane, al matrimonio con un’altra figlia di immigrati latinos. Mentre “5 Ways Marco Rubio Is Not Your Grandfather’s Republican” elenca i motivi – non proprio ortodossi – che fanno di Rubio una figura repubblicana nuova e di spicco.
Anche il Tampa Bay Times commenta la “ascesa mozzafiato” di Marco Rubio: “Dietro le scene c’è uno sforzo metodico e senza sosta per costruire il marchio Marco Rubio, aiutato da un team di strateghi ed esperti di comunicazione, che [lo] prepara … per una prossima corsa elettorale”. E, nello stesso articolo, ricorda la definizione di Rubio, data da un commentatore repubblicano -“il Backstreet Boy della politica americana, una creazione di Hollywood di come dovrebbe essere il candidato politico modello”. La sua figura giovanile e il suo sangue latino rendono quindi Marco Rubio, un esponente atipico per il partito Repubblicano, che sente senza ombra di dubbio la necessità di rinnovare la propria immagine. Ma a leggere New Republic, che spiega perché il GOP rimane un partito di bianchi e per bianchi, sembra che non si tratti di una scommessa facile da vincere.

 

Donne e lavoro
A Wall Street, le donne lavorano meglio dei colleghi maschi. Lo rivela uno studio della Texas University di cui ha recentemente parlato Maureen Callahan, sul The New York Post. La spiegazione è scientifica – ormonale, per la precisione. Partendo dagli studi che hanno dimostrato che il testosterone tende a schizzare negli uomini quando fanno degli ottimi affari e aumentare, al tempo stesso, la loro fame di rischio, la Callahan arriva al nocciolo dell’argomento: “Il mondo della finanza è composto per il 95% da giovani uomini. Se ci fossero più donne, potrebbe esserci più stabilità”.
Su The Atlantic invece, Anne-Marie Slaughter – l’autrice diventata celebre per l’articolo nel numero estivo della rivista, intitolato “Perché le donne non possono ancora avere tutto” – torna a parlare di maternità e lavoro, con un pezzo che spiega perché le donne non dovrebbero sacrificare i figli per la carriera.

 

Giovani: quanto costa un’opportunità?
“L’opportunità costa: il vero prezzo degli stage” è il titolo di un articolo scritto da Magdeleine Schwartz per il numero invernale di Dissent Magazine. Il pezzo è una disamina del tirocinio, approcciata però dal punto di vista femminista. Quale che sia il suo sesso, è la figura dello stagista così come è richiesta a connotarlo come un ruolo femminile. “Compiacente” e “silenzioso”, flessibile e sottomesso, sempre gentile e riconoscente – sono alcune caratteristiche del tirocinante modello che finisce per essere identificato come una “casalinga felice del mondo del lavoro”. E mentre IBTimes raccoglie alcune storie di stage, finite a colpi di querele; TechCrunch pubblica la classifica americana delle aziende migliori per fare uno stage. E sul tema delle opportunità si sofferma anche Joseph Stiglitz all’interno del suo blog sulla piattaforma Opinionator del NYT. Che l’America sia la terra delle opportunità non è che un “mito nazionale” per Stiglitz che individua in realtà una mancanza di opportunità dovuta a discriminazioni razziali e di genere, ma soprattutto alla disuguaglianza nell’educazione. “Infine – conclude Stiglitz – è irragionevole che un paese ricco come gli Stati Uniti abbia reso l’accesso all’istruzione superiore così difficile per coloro che stanno in fondo o nel mezzo (della scala sociale)”.

 

La grande bugia di Truman Capote
A sangue freddo, il libro che ha aperto le strade al genere del new journalism (forse più noto come romanzo-verità), torna al centro delle polemiche a causa di alcuni recenti studi che mettono in dubbio la precisione dei fatti riportati da Capote nel suo capolavoro del 1966. The Wall Street Journal presenta gli ultimi sviluppi, allegando documenti interessanti, relativi alla strage dei Clutter, mentre Salon presenta il dibattito con un titolo impietoso – “Truman Capote’s greatest lie”, la più grande bugia di Capote.
Ma Truman Capote non è l’unica vittima dallo scetticismo dei critici e su Slate.com, Bryn Williams mette in dubbio l’ultima opera del Premio Pulitzer Jared Diamond in un articolo intitolato “Possiamo fidarci di Jared Diamond?”

 

Foto dal mondo
Cinquanta foto in bianco e nero per ricordare come era il mondo 50 anni fa. Attraverso preziosissimi scatti dell’omicidio di John F. Kennedy e dell’attivismo di Martin Luther King, del fenomeno Beatles e della guerra in Vietnam, The Atlantic ripercorre il 1963. E mentre i giudici di The Eyes of History, il contest fotografico annualmente promosso dalla Casa Bianca, attendono di decretare il vincitore, il Washington Post pubblica la photogallery delle proprie foto più belle del 2012.

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