Forse non si è mai smesso di farci i conti. Dalla nascita. Oppure non li si è mai fatti veramente. Solo perché li si è rinviati di continuo, rimuovendo furbescamente l’oggetto del contendere. Ma prima o poi il momento arriva. E i conti tocca farli. Con quel che è stato, è e sempre sarà nostro padre. Il nostro specchio, ma anche l’altro da noi. Colui che ci ha dato origine nell’incontro con nostra madre. Figura di riferimento, che attrae ma anche respinge, alla quale si sente di assomigliare ma dalla quale ci si vuole differenziare, divergere, non identificare.
Quello con il padre è un rapporto non facile, controverso. “Il” rapporto per antonomasia. Specie per il figlio maschio. Nel peggiore dei casi è un corpo-a-corpo che può durare tutta una vita. Nel migliore, un dialogo che ad un tratto s’è rotto ma in qualche misura è in sé ininterrotto. Che “dura” per sempre. Figura con cui ci si confronta di continuo. Nel bene e nel male. In vita, post mortem e, anche, in mortem, nel corso di una malattia, percorso d’una sofferenza che avvicina, riduce le distanze, rimette in moto e in gioco i sentimenti, livella, rende più uguali, annulla. Tre condizioni diverse tra loro, ma con un sottile comun denominatore.
Ora può essere un caso, ma a distanza di un anno sono usciti ben tre libri che hanno per oggetto della propria indagine proprio la figura del genitore. I più recenti, nelle ultime settimane, sono Geologia di un padre del poeta e scrittore Valerio Magrelli (Einaudi), La forza delle cose di Alexander Stille (Garzanti) cioè “un matrimonio di guerra e pace tra Europa e America”, storia della sua famiglia con al centro il padre Ugo, storico corrispondente dagli Stati Uniti per il Corriere della Sera, pseudonimo di Misha Kamenetzky, diviso e condiviso con l’amico e compagno di studi Giaime Pintor, mentre il terzo è Vita e morte di un ingegnere dello scrittore Edoardo Albinati (Mondadori) uscito esattamente a febbraio 2012, un anno fa. Ma se andiamo a ritroso nel tempo, un po’ più in là fino all’ottobre 2009, ci imbattiamo anche in Scintille di Gad Lerner (Feltrinelli) viaggio alle radici dell’ebraismo aspro, tragico, e pure sulle tracce di un padre terribile, Moshe, che ama definirsi lui come «il vero Lerner» e non quello che appare su La7, che potrebbe esser visto come il ”figlio infedele” e, dunque, per opposto come il “falso Lerner”, l’impostore, il millantatore. E Moshe – già 83enne all’uscita del libro – non ha trovato di meglio che denunciare l’erede «per diffamazione», non essendosi riconosciuto nella descrizione e nelle pagine scritte. Causa intentata ma poi anche subito archiviata dal Pm che ha ravvisato «finalità letterario-narrativa» in un «animo provato da un profondo dolore per un rapporto difficile». Quasi una guerra, “la guerra dei Lerner”.
Infine, nel 2007, un figlio letterato (classe 1964) e un padre psicanalista junghiano (1924), la coppia Emanuele e Mario Trevi, danno alle stampe una conversazione pacata, curiosa e riflessiva dal titolo Invasioni controllate (Castelvecchi).
A questo punto vale la pena chiedersi se non siamo tornati o comunque vi sia una lenta tendenza di “ritorno ai padri”, in funzione di avvicinamento o recupero, ancorché tardivo. Una rivalutazione della loro figura (e persino funzione) dopo gli anni cruenti di una loro messa in discussione o aperta contestazione da parte di una generazione di figli, nella fattispecie quella della fatidica “annata1968”? Una generazione già maggiorenne e certo vaccinata, che nell’anno della “fantasia al potere” si trova o all’ultimo anno di liceo o è appena entrata all’università. Certo, se due coincidenze fanno un indizio, tre sono decisamente una prova. Tantopiù se si parla di figure di intellettuali come Lerner, classe 1954, Albinati 1956, Magrelli e Stille 1957, che nell’anno fatidico della contestazione avevano 14, 12 e 11 anni, forse troppo pochi per essere intaccati dal virus della rivolta antiautoritaria e della messa in discussione dei ruoli e della figura paterna, ma che pur tuttavia a quella linfa negli anni successivi hanno in qualche misura continuato ad attingere.
Diverso il caso dei Trevi, Emanuele nel ’68 ha appena 4 anni, il padre Mario di anni ne ha quaranta di più, 44. Come vedremo, un caso (o due) a parte…
Per un verso o per l’altro non è stato mai semplice per nessuno avere un rapporto disteso e di comprensione con il proprio genitore. Non solo nel senso padre-figlio, ma anche reciproco figlo-padre-figlio. Specie in gioventù, nell’epoca del bisogno, in quanto figli, di affermare la propria personalità, la propria individualità e dare a se stessi un senso di sé. La stagione terribile dell’adolescenza, in cui cerchi ma non trovi e tenti e provi a trovare. Anche solo te stesso. «Il figlio come un filo che deve entrare nella cruna della propria crescita. Il padre come un filo che va sfilato» annota Magrelli in un libro che è anche un pamphlet denso di allegra ironia, di descrizioni e quadretti familiari divertenti. Anche se c’è sempre uno spettro che inquieta, e che è dato da «la somiglianza fra l’imitatore e il suo modello, scriveva Petrarca a Boccaccio» e che «deve essere come quella tra padre e figlio, imponendosi anche quando essi risultino molto diversi d’aspetto». Che è poi la stessa differenza che intercorrere tra l’originale e la sua copia. «La lontananza da mio padre, insomma, più che genealogica, mi appare geologica. Che c’entro io con quell’uomo – si chiede ancora Magrelli – è proprio come se il mio amore per lui avesse a che fare con un’origine remota, con una differenza insanabile». «Mio padre ed io riusciamo a bruciare un anno in mezz’ora». «Sono stato sfrattato dall’infanzia per potermi pagare l’adolescenza».
«È probabile che se mai ho ereditato qualcosa dai miei genitori , io abbia preso da mia madre» dichiara alla seconda pagina Edoardo Albinati, speranzoso. Lei trascorreva lunghi pomeriggi a letto a leggere riviste «svagatamente e a bere il tè», il padre invece «macinava il tempo con vorace determinazione». «Mio padre non amava la musica» è l’incipit del libro. «Mi è difficile spiegare o anche semplicemente raccontare il modo di vita dell’uomo che era mio padre. Per far questo bisognerebbe penetrare nel suo carattere, capirlo, e io mio padre non l’ho mai capito. Era un uomo spaventosamente ambiguo». Giudizi severi, una distanza siderale. «Eppure quando ero ragazzino (…) ai miei occhi l’indifferenza di mio padre ne faceva un essere superiore». Scrive ancora Albinati: «Non conosco quasi niente della persona che mi ha generato, la persona, probabilmente, a cui nel mondo sono più simile e a cui devo di più». «Io sono mio padre» confessa ad un certo punto Magrelli quando riconosce in sé gli stessi impeti d’ira del suo vecchio, che salta su una stampante guasta «così come lui saltava sopra i suoi biscottini» la cui scatola «sempre all’ora di pranzo» non riusciva abitualmente ad aprire: «La carta non cede, lui tira, ma la chiusura tiene. Vedo l’ira riempirlo. (…) Qui si che il contagio ha colpito con tutta la sua forza».
È un continuo gioco di rimandi, di specchi, un continuo vedere se stesso nell’altro, talvolta con raccapriccio, un cercare le differenze, i punti di non contatto per tranquillizzarsi e dire: non sono come lui.
Magrelli ha raccolto appunti sul padre per dieci anni, gli ultimi, e quando il padre muore di recente tutti quei documenti raccolti in preziosi fogliettini diventano il bandolo di una infinità di storie, un affresco, il fil rouge di una vita, se non proprio insieme, quantomeno parallela. Albinati queste pagine le ha scritte vent’anni fa, nel 1990, pochi mesi dopo la scomparsa del padre a causa di una malattia che lo divora e lo annienta in soli nove mesi. Poi lo lascia chiuso in un cassetto, quasi dimenticato, per vent’anni. Come se il solo scriverlo, aver messo quella storia nero su bianco tra riflessioni, annotazioni, ricordi, fosse stato più importante che pubblicarlo. Un lavoro per sé, finito dentro di sé.
Entrambi ingegneri, i senior Magrelli e Albinati, sono personalità forti, ma in modo diverso, freddo, severo, distaccato il secondo: «Io cercavo invano il suo sguardo come il ragazzino di Incompreso» scrive; enigmatico, un po’ attaccabrighe, iroso, forse persino bugiardo il primo: «Padre-Pinocchio» lo definisce in una videointervista.
«La mia più grande soddisfazione era di tenere tutto sotto controllo, la mia più intima aspirazione che non accadesse niente di pericoloso, proprio come mio padre, voglio dire, preciso a mio padre» ammette Albinati.
La chiave di lettura, che risponde in qualche misura anche alla nostra domanda iniziale (è il ritorno dei padri?), la dà proprio lui, Albinati, quando affronta un’«Importante Considerazione» (pag. 51): «Vorrei ripensare, cioè pensare davvero, senza pregiudizi, il concetto dell’obbedienza». E subito dopo riflette: «Appartengo a una generazione che lo ha rifiutato. Non mi pare di aver fatto altro nella mia vita che lottare per l’abolizione dell’autorità: nei rapporti umani, in politica, nello scrivere, nel pensare alla parola come uno strumento che infrange o deroga alla legge un minuto dopo averla creata. La sola autorità che potevo riconoscere era quella che ammettendo la sua stessa infondatezza non pretende alcun obbedienza per sé ma genera piuttosto un amore gratuito, una fede senza obblighi. (…) Ora mi accorgo che gli unici momenti felici con mio padre sono stati quelli in cui gli ho obbedito» riflette Albinati. «In vita sua, mi diede un solo schiaffo» dichiara Magrelli. E ancora, in un altro caso: «Il pistolone (…) mi scivolò di mano e finì in mille pezzi. Ero terrorizzato dalle possibili conseguenze (…) e invece mio padre mi abbracciò come niente fosse. Ne rimasi turbato».
Già, l’autorità. Ma anche l’autoritarismo contrapposto all’autorevolezza, che un’intera generazione ha sempre invocato, ricercato negli adulti, e di cui noi stessi oggi lamentiamo il deficit nei cosiddetti “maestri”, spesso anche tra gli insegnanti dei nostri stessi figli e soprattutto in politica, nella vita in genere (ed è anche, magari, una nostra personale carenza di noi figli diventati padri?). Uomini così forse oggi non ce ne sono più. Con il senso dell’autorità, ma anche autorevoli, ammirati – in fondo – ma al tempo stesso anche rifuggiti, rifiutati, contrastati. Ma il tempo lenisce le ferite, e col tempo ci si riconcilia. Si riconsiderano (nella percezione) le storie, i moventi, le esperienze. Dunque, anche i padri. Che vengono poi pure rivalutati. Chi più, chi meno. Perché le assenze pesano più delle presenze. Anche quelle più incombenti. Scrive Magrelli: «Fu lui a comprarmi casa, e lo ringrazio ancora, ma volle a tutti i costi (cioè a costi zero) ristrutturarla personalmente. Perché le mie persiane non si chiudono? Perché la canna fumaria ha rischiato di uccidermi, insieme ai miei cari, nel sonno? Perché le tubature di tutti i lavandini sono in salita? Perché la mia cassetta della posta ha un vetro scuro, che tutti i giorni dell’anno mi obbliga ad aprire lo sportello per scrutare l’interno? Tutti i giorni dell’anno, aprendo il tabernacolo, girando quella chiave, penso a te, e soprattutto a me. Testimone. Superstite».
Già, perché essere figli è – giocoforza – anche essere padri. Anche se ci sono figli che restano sempre tali, anche diventando padri per esempio. E figli che una volta padri scordano per sempre di essere stati figli anche loro. E figli che non diventeranno mai padri e sono condannati a rimanere solo e sempre figli, con tutte le conseguenze del caso. Perché i loro unici referenti – nel bene come nel male, in pace o nel conflitto – rimangono pur sempre i genitori, padre o madre che siano. Figure d’incontro e scontro. L’ossessione, irriconciliabile, di una vita. Da giovani e da vecchi. Con i genitori anziani o bell’e sepolti. In mortem, post mortem.
E i figli diventano poi padri con, a propria volta, altri figli da accudire e con cui confrontarsi, in un continuo passaggio di testimone: «Dopo la morte di mio padre – scrive Magrelli – pensai bene di regalare a mio figlio il suo rasoio elettrico: una specie di staffetta generazionale, per proseguire nella linea maschile della famiglia». E ancora: «Villa Borghese (…) mio padre mi ci portava da bambino, per cui pensai di ripetere l’usanza con lui e mio figlio. Errore madornale». A differenza del padre di Albinati, quello di Magrelli «amava la musica classica» anche se «fino a un certo punto. Uno dei grandi dolori che dovetti affrontare, fu quando compresi di averlo superato, nei gusti, nelle competenze, nelle informazioni. (…) Però, almeno all’inizio, scoprirmi superiore a lui in qualcosa, me lo fece apparire fragilissimo, e soprattutto, per la prima volta mi diede il senso della mia fragilità: non c’era più nessuno a ripararmi, anzi, adesso ero io a dovermi prendere cura di qualcuno». Così nel regalargli un disco di Schonberg, il figlio Valerio Magrelli scopre di aver toccato «il punto in cui la sua cultura, molto semplicemente, si arrestava. Il mio dio non prevedeva l’esistenza della dodecafonia. Dunque i suoi poteri non erano infiniti. Questo fu il vero scandalo che dovetti affrontare». Fine di un mito e, insieme, sconfitta del mito.
«Mio padre conduceva un’esistenza biforcuta, schizofrenica» scrive il coetaneo di Magrelli Alexander Stille nel suo “ritratto di famiglia in un interno”, quello newyorkese con affaccio sul verde di Central Park. È un giudizio duro, anzi terribile. Ma Alex in tanti anni non ha potuto rimuovere dalla sua memoria la disperazione che lo coglieva quando da bambino era vessato dagli improvvisi colpi d’ira che assalivano il padre vagante per casa, in pigiama, fra pile di giornali che alla madre era interdetto di buttare e che s’accumulavano di giorno in giorno senza speranza. «Ricordo che io andavo in giro ripetendomi continuamente: “Io non sarò mai come lui, io non sarò mai come lui”». Ugo Stille, per altro, non aveva fatto mai nulla – e di fatto ostacolato – perché i suoi figli si avvicinassero all’ebraismo e imparassero la lingua italiana. «Mio padre – scrive l’autore – era un prodotto di quella civiltà ebraica dell’Europa orientale che Hitler ha quasi completamente distrutto nella quale i libri e l’apprendimento occupavano un posto sacro, perché ogni altra cosa nella vita ti può essere strappata (e probabilmente lo sarà)».
Alla fine, tocca ai Trevi. Il libro è una conversazione sinceramente curiosa dell’Emanuele scrittore con il padre Mario. Su di lui, la famiglia, la madre, la loro vita, la sorella, il mestiere del padre, la teoria e la pratica psicanalitica di derivazione junghiana, un dialogo aperto tra un genitore il suo diretto discendente, senza schermi, rivendicazioni, accuse o retro-pensieri. Verrebbe da dire, forse, proprio e anche perché per Emanuele la data di nascita fa la differenza con tutti gli altri (se nel ’68 aveva quattro anni, nel ’77 ne aveva tredici, ancora pochi); e pure per Mario, anche se in questo caso la sua personale biografia (e sensibilità) può aver costituito un vantaggio per il figlio. Nel caso specifico, ma in quello generale non è mai (o affatto) detto. E infatti la prima domanda che Emanuele rivolge al padre indaga un punto nodale: «Quando un analista mette su famiglia, non è spaventato dall’evocare uno dei più terribili fantasmi di Freud, quello del “romanzo familiare del nevrotico”»? Ma anche quella che segue qualche pagina più in là, non è da meno: «So che può suonare come una domanda retorica, ma è stato difficile essere un padre per te?». È un cambio di prospettiva: non essere io figlio tuo, ma essere tu padre, di me, di mia sorella. Al padre, il figlio Trevi riconosce persino di essere in famiglia «l’unica persona ordinata» e quando torna sulla vita familiare, con estrema tranquillità confessa di voler capire «se l’attitudine dello psicologo, le sue abitudini mentali e i suoi criteri di verità influiscono o meno sulla sfera dei rapporti intimi…». Tutto qua.
Chissà, il ’68 è certo un anno di frontiera. Uno spartiacque. Con un ante e un post. Dopo, nulla è stato più uguale. A guardare i fatti personali, le biografie, a leggere i libri, inanellare i fatti, conoscendo in parte anche alcuni protagonisti, viene quasi da chiedersi: a chi avrà fatto più male l’anno della fantasia (e libertà) illimitata e senza frontiere? Chi ci avrà perso di più, i padri o i figli?
La scrittura è anche ricordare, tirar fuori, riappropriarsi. E pure sedare, lenire, dimenticare. Quel che di buono non c’è mai stato.
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