Pochi si prestano tanto poco come Monti alla copertura giornalistica della politica intesa come gara sportiva: si candida, non si candida? Rinvia la decisione e poi però, tra tante pause e tanti “bianchi” di riflessione (più facile avere da lui scena muta e “no comment” che una battuta inconsulta) spiega a Eugenio Scalfari, in un lungo caffè-colloquio, davvero splendido, che «qualcosa gli dice» di non farlo. Il colloquio è splendido non solo perché regala molte informazioni, ma anche perché se ne desume la autenticità dell’incertezza: Monti appare sinceramente e onestamente interessato a inserire nell’incontro qualche sua domanda per avere l’opinione del fondatore di Repubblica. Non è solo cortesia. Lo Scalfari che gli sta davanti non è solo un navigatissimo osservatore della vita pubblica italiana, ma anche un influente leader di opinione, carico di esperienze antiche e recenti, e il centro di relazioni politiche con forze che sono in scena: presidenti, ex presidenti, segretari di partito. Capisco dunque le proteste dei giornalisti che si sono visti anticipare parte del contenuto della solenne conferenza stampa, ma come negare che Scalfari si è guadagnato il carisma di un «fuori concorso»? E che a quell’incontro soddisfaceva una curiosità bidirezionale, reciproca: il che non si può dire di tutte le conferenze stampa.
Non si scioglie dunque definitivamente il problema della candidatura (e restano poche ore per farlo), ma si profila un quadro di alleanze che è diverso da quello che ha retto il ciclo del “governo tecnico” inventato da Napolitano nel novembre dell’anno scorso e sostenuto da Pd, Pdl e Udc. Ma un interrogativo si scioglie: la rottura con Berlusconi è netta, corredata di un giudizio per i parametri montiani sprezzante («fatico a seguire la linearità del suo pensiero») e, soprattutto, la prossima maggioranza, quella del 62esimo governo della Repubblica sarà quasi certamente costituita dal Pd e dall’aggregazione centrista. Alla domanda sulla possibilità di una alleanza post-elezioni con Bersani, Monti risponde a Scalfari: “La considero indispensabile. Dobbiamo ricostruire la pubblica amministrazione e costruire lo Stato dell’Europa federale. Ti sembrano compiti che possano essere portati avanti da un solo partito? Ci vuole una grande alleanza perché si tratta di una vera e propria rivoluzione.»
Il premier uscente non parla formalmente a nome dei centristi, che lo vorrebbero alla guida della loro formazione, ma in modo indiretto ne rappresenta un vertice. Questo rapporto tra Monti e i raggruppamenti che lo invocano appare piuttosto confuso all’opinione pubblica: Casini, Fini e Montezemolo lo vorrebbero candidare, ma Monti potrebbe diventare anche, dopo le elezioni, il candidato alla guida del governo dello stesso Pd, qualora il Pd non ottenesse voti sufficienti per una maggioranza solida sia al Senato sia alla Camera. E in quel caso sarebbe molto più difficile da gestire e giustificare una nomina a primo ministro di un Monti arrivato, neanche secondo, e forse neanche terzo dietro Bersani. Prima di lui si classificheranno certo il candidato del Pd (Bersani), quello del Pdl (Alfano o Berlusconi), e forse quello di 5 Stelle. Tutto questo lascia capire quel che appare ormai scontato, se i voti degli italiani si avvicineranno alle attuali previsioni: la legislatura sarà guidata da una maggioranza di centro-sinistra, anche se non sappiamo per certo chi la guiderà. E se questa avrà la sufficiente stabilità, potrebbe anche gestire nel tempo i propri equilibri, considerando che si troverà davanti la complicata scacchiera, dopo fatto il governo, delle nomine alle tre massime cariche dello Stato, nonché dopo un anno, nel 2014, al rinnovo del Parlamento europeo e dei vertici dell’Unione. Questi ultimi potrebbero certo aver bisogno di una figura come quella di Monti, dato il prestigio internazionale acquisito con la prova cui è stato chiamato in Italia negli ultimi tredici mesi.
Nel frattempo sarebbe bene che i partiti spostassero l’attenzione anche sul programma di governo e sulla necessità di una volontà politica forte per fare quel che serve e che finora non si è fatto di fronte al muro di una politica «resistente» sulla trincea esistenziale di un ceto che non molla le sue posizioni di potere. Monti lascia un promemoria sulle cose da fare: una legge aggiuntiva contro la corruzione, opera iniziata ma da completare; le liberalizzazioni; rendere più penetrante l’azione antitrust in favore della libera concorrenza; portare a termine l’abolizione delle Province, cambiare la legge elettorale basandola sui collegi, dimezzare il numero dei parlamentari, difendere fino in fondo la riforma delle pensioni, cambiare il welfare e creare un sistema generale di ammortizzatori sociali, investire nelle scuole superiori, nell’università e nella ricerca.
Se volessero convincerci che la politica italiana ha finalmente intrapreso un cammino virtuoso, i partiti dovrebbero farci intravedere energie e determinazione sufficienti a reggere questo tipo di agenda. Ai centristi che rimproverano a Bersani l’alleanza con Vendola, non si può non far notare che sono arrivati alla scadenza della legislatura del tutto impreparati, senza aver saputo dare alla aggregazione di formazioni una fisionomia politica chiara. Oggi rischiano di diventare la zattera di salvataggio di un vecchio personale politico, che si fa scudo di Monti per «transitare» nel nuovo mondo, specialmente nel Mezzogiorno. E d’altra parte il Pd che si è rafforzato con le primarie sotto la spinta di una vera competizione politica come quella provocata dalla sfida di Renzi rischia di sedersi nell’attesa del suo meritato momento. Ma il segnale dell’uscita di scena di Ichino, diventato simbolo di coraggiose riforme economiche, lascia pensare a un ripiegamento sulle vecchie trincee insieme alla Cgil. Qui dovrebbe scattare tra i Democratici l’allarme. Per affrontare anche solo una parte dell’agenda di cui parla Monti ci vuole altro. Difficile immaginare che la falange dei guerrieri delle riforme sia rappresentata dalle esili e diversificate schiere di Fini Casini Montezemolo e Giannino. Bersani sembra aver capito quanto l’energia riformista abbia reso più forte il Pd e dovrebbe scongiurare la tentazione della passività. In quel modo il meritato momento potrebbe non arrivare mai.