Sempre in America, gli osservatori sono ancora impegnati a tentare di interpretare la sconfitta del Gop alle elezioni dello scorso novembre. National Journal analizza ciò che deve essere andato storto nella fallimentare propaganda per l’elezione di Mitt Romney e suggerisce ai repubblicani di iniziare sin da adesso a lavorare sulla corsa alla Casa Bianca del 2016, svecchiando il loro modo di fare campagna elettorale: “Per vincere nel 2016, il Gop deve modernizzare la sua campagna adesso”. “Pensate che il Gop abbia dei problemi?”, titola invece American Thinker, senza lesinare un po’ di ironia. E quasi sembra rispondergli Eugene Robinson che, dalle pagine del Washington Post, sprona i repubblicani a svegliarsi attraverso una opinion dal titolo “Republicans must wise up”: “Il problema maggiore che il Partito Repubblicano si trova ad affrontare – scrive Robinson – non sono i candidati insipidi o le strategie malsane. Sono le idee impopolari”.
Come cambia la società americana
Mentre la riforma sull’immigrazione torna in primo piano nell’agenda politica statunitense, la crisi economica e lo spettro del fiscal cliff fanno riscoprire all’America anche la vecchia piaga dell’obesità. “Molti americani sono ancora troppo grassi per difendere l’America” titola Mother Jones che racconta come i chili in eccesso tra i militari, pesino in maniera eccessiva non solo sul rendimento, ma soprattutto sulle casse dell’esercito. Ma un altro problema, evidenziato nel 2011 con il “collasso nel numero dei matrimoni e delle nascite”, torna in evidenza: è quello affrontato dai giovani che, con il lavoro che manca, non riescono a crearsi le basi per una famiglia. A ricordare il tarlo della lost generation è Robert Samuelson che sul Washington Post ammette che sì, la crisi economica e la contingente disoccupazione, si riprenderanno; “eppure ancora la domanda ci assilla: potrebbe essere questa, una generazione perduta?”. Ma i giovani restano una speranza, soprattutto per le relazioni internazionali, dopo che una ricerca Pew ha individuato come tra la cosiddetta Millennial Generation (1982-2003) e la corrispondente generazione di giovani cinesi, ci sia un’ottima considerazione, rispettivamente, di Cina e America.
L’ennesima tragedia impone ancora una volta il dibattito sul divieto delle armi
Il dibattito sulla diffusione e l’utilizzo delle armi da fuoco, è tornato centrale venerdì 14 dicembre, nell’America scioccata e arrabbiata, dopo il massacro di venti bambini e sei insegnanti alla scuola elementare Sandy Hooks di Newtown, compiuto dal giovane Adam Lanza. “Solo negli ultimi due anni, una dozzina di persone sono state uccise mentre guardavano Batman in un cinema di Colorado, sei furono ammazzate fuori da un tempio Sikh in Winsconsin ed altre sei furono freddate nella sparatoria dove la repubblicana Gabrielle Giffords fu gravemente ferita, in Arizona. E adesso, Sandy Hook Elementary si aggiunge in coda a Virginia Tech e Columbine, nella lista di scuole che sono diventate sinonimo di tragedia”. A tenere il tragico conto è UsaToday che, nell’editoriale di domenica, esorta il Paese al “cambiamento di cui c’è bisogno”: “Niente potrà dare conforto ai genitori delle vittime. Ma il Paese può fare qualcosa… per evitare un’altra Newtown. Dopo venerdì, questo è un imperativo morale.”
“L’orrore va oltre le parole”, scrive a caratteri maiuscoli il Washington Post che lo stesso venerdì ha dato il via a una crociata per il controllo delle armi: “Non è il Secondo emendamento, è la vigliaccheria politica che impedisce una regolamentazione sensata.” E tra coloro che prestano la propria penna per la causa del quotidiano, c’è E.J. Dionne Jr. che attacca il governo: “Non possiamo essere solo tristi. Dobbiamo essere arrabbiati. Non possiamo soltanto scuotere la nostra testa. Dobbiamo brandire i nostri voti e dichiarare che arginare la violenza è un argomento di massima importanza per il nostro Paese. […] Se il Congresso non agirà questa volta, finiremo per considerarlo come completamente comprato e pagato dai rappresentanti dei produttori di armi, dai trafficanti e dai loro ben ripagati apologeti.” “Qual è la nostra soglia nazionale per la vergogna?” Si chiede invece il Newyorker, mentre Slate si rivolge direttamente ad Obama: “Reagisca da presidente, non da genitore” – scrive il sito, con la convinzione che sia “il momento di politicizzare” quanto accaduto per dare finalmente all’America una regolamentazione più stringente sull’uso delle armi.
Molto duro anche il commento affidato alle pagine di Opinionator, il contenitore di blog del Nyt, “La libertà della società armata”. “Una società armata è il contrario della società civile”, scrive Firmin DeBrabander, secondo cui la cultura americana delle armi sta producendo sì violenza, ma pure individualismo, un mix pericolosissimo dal quale la storia mette in guardia: “Questa non è libertà. Pittosto, è l’opposto.” In controtendenza è l’opinione di Poynter, che sposta l’attenzione sul killer, affetto da una forma di autismo: “Come possiamo spiegare le sparatorie se non raccontiamo le malattie mentali?”
Ma il Guardian, dall’altra parte dell’Atlantico, affida all’interpretazione dei grafici, i (tristi) dati sull’utilizzo delle armi in America: “La percentuale di americani che vogliono leggi restrittive sull’utilizzo delle armi è attualmente al di sotto del 50%, nella maggior parte dei sondaggi. […] Quasi tre quarti dei cittadini Usa, il 73%, crede che il secondo emendamento garantisca ai cittadini il diritto di possedere delle armi.” Nessuna strage ha mai fatto cambiare idea a questa percentuale. In un primo momento ci riuscì la sparatoria alla scuola di Columbine, nel 1999, ma neanche allora fu un cambio di rotta vero e proprio. Per questo, secondo Harry J. Enten, “non dovremmo aspettarci un cambiamento drastico dalla mattina alla sera. Il supporto per misure più restrittive potrebbe aumentare in maniera graduale all’interno del pubblico americano, ma non aspettatevi un salto repentino e sostanziale.
I rischi della rete
Matthew Ingram su GigaOm prende spunto dalla “caccia al profilo” avviata all’interno dei social network all’indomani della sparatoria di Newtown per difendere il modo di comunicare le emergenze sui social network – ed elogiare il lavoro di chi, come Andy Carvin, si propone di selezionare e verificare le fughe di notizie e le voci che corrono su Twitter: “Non si tratta di Twitter: è il modo in cui le notizie funzionano oggi.”
Il buon proposito per il 2013
Alla fine un buon proposito per l’anno nuovo ci viene suggerito da Robert Cohen sul New York Times nell’articolo “Time to tune out”: troppa condivisione, troppa velocità, troppo network. E allora Cohen ci propone i suggerimenti per un 2013 un po’ meno iperconnesso.
Immagine: AFP PHOTO / TIMOTHY A. CLARY (Photo by TIMOTHY A. CLARY / AFP)