Da Reset-Dialogues on Civilizatrions – KABUL. Nonostante i passi avanti compiuti dal 2001, le donne afghane hanno ancora tanta strada da fare. Oggi alcune di loro ricoprono incarichi importanti a livello istituzionale, e in molti casi sono riuscite ad emanciparsi e a porre le basi per un futuro professionale più libero. Ma si tratta ancora di casi isolati in un paese in cui la condizione femminile, soprattutto al di fuori dei grandi centri abitati, è ancora molto difficile.
Maria Bashir ha un grande ufficio con un enorme tappeto verde, una lunghissima scrivania in legno scuro, un piccolo salotto per accogliere gli ospiti. Entrata nei primi anni Novanta nell’ufficio inchieste criminali della Procura di Herat dopo gli studi in legge, oggi è la prima ed unica procuratrice capo di tutto il paese. Vederla al lavoro rassicura, almeno in apparenza, sui progressi che le donne hanno fatto in Afghanistan, dai tempi del governo dei talebani quando non si poteva uscire di casa, e quando anche lei aveva dovuto sospendere il lavoro, ma anziché arrendersi, aveva messo in piedi una scuola “clandestina” per le ragazze.
Il successo professionale però ha un prezzo molto alto: più volte è stata minacciata, e la sua famiglia vive all’estero, condizione necessaria per poter svolgere al meglio il proprio lavoro, con imparzialità e dedizione, senza la paura di subire ritorsioni. “La comunità internazionale, e qui ad Herat gli italiani, hanno fatto tanto e non penso ci sia il rischio di tornare all’epoca dei talebani – dice – ma la mia preoccupazione è che il popolo afghano non sia ancora pronto a fare da solo. Il terrorismo non è stato vinto, anche se abbiamo raggiunto buoni risultati, e dobbiamo ancora migliorare”.
La procuratrice è la prima a sostenere che qualcosa sia cambiato nella condizione femminile. “Anni fa nessuno considerava i diritti delle donne – dice – oggi possono uscire di casa, studiare, lavorare, arrivare persino in parlamento. Ma è pure vero che abbiamo ancora molti sbarramenti; gli uomini hanno perso potere su di noi e questo crea ulteriori difficoltà nei rapporti, anche perché le donne stanno cominciando ad acquisire consapevolezza di se stesse. Lavorare come procuratore è difficile perché si è l’interfaccia del sistema giudiziario con la società, ma allo stesso tempo si ha anche un grande potere: quello di condannare chiunque abbia commesso un reato, uomo o donna che sia”. Come lei altre donne hanno cominciato a ricoprire incarichi istituzionali, e a livello provinciale esistono un Dipartimento per gli Affari Femminili ed uno per gli Affari Sociali, che si occupa anche di minori, anziani, disabili.
Mahbooba Jamshidi è a capo degli Affari Femminili di Herat da due mesi, e sta lavorando per cercare di incrementare l’occupazione femminile, che a livello nazionale non supera il 15%. Anche lei racconta dei profondi cambiamenti che stanno attraversando la società, e degli obiettivi che non sono stati ancora raggiunti. “Nella costituzione la donna ha il suo posto – dice – e adesso si parla di più anche della violenza domestica, anzi, spesso siamo noi del Dipartimento a farci carico delle segnalazioni e delle denunce di questi casi, se ne veniamo a conoscenza”. L’impianto istituzionale afghano prevede forme di assistenza per i bisognosi, come gli orfani e i parenti delle vittime della guerra, ma deve fare i conti con la scarsità dei fondi e con l’altissimo numero di richieste che spesso non riesce a evadere. Anche il sistema carcerario, nonostante le difficoltà, è improntato sull’idea di riabilitazione e reinserimento del detenuto nella società.
Il carcere femminile di Herat ne è un esempio. La struttura, realizzata con i fondi del Ministero della Difesa italiano e dell’Unione Europea grazie al Prt italiano, il Provincial Reconstruction Team, è stata completata nel 2009 ed oggi ospita 137 detenute. Al piano terra gli spazi sono condivisi e in ogni stanza, rigorosamente aperta, si portano avanti diverse attività, dalla sartoria alla tessitura, dai corsi di inglese a quelli di informatica. Al primo piano ci sono le stanze, ordinatissime e pulite, con quattro o sei posti letto ognuna. Le mamme possono tenere con sé i propri figli fino agli otto anni, e anche per loro c’è una stanza dedicata, con un’educatrice. La maggior parte delle donne che sconta una pena detentiva ha commesso reati minori: i più comuni sono la fuga da casa e la zina, i rapporti prematrimoniali con l’altro sesso. Dunque non c’è da stupirsi se alcune di loro abbiano paura di tornare in “libertà”, una volta terminato il periodo in prigione.
Nel corso di quest’anno Human Rights Watch ha accertato che la maggior parte delle donne che vengono arrestate sono accusate di crimini contro la morale, nonostante sia passato un decennio dalla fine del regime dei talebani. Dall’accordo di Bonn del 2001 per “un nuovo Afghanistan”, firmato dai quattro principali gruppi etnici del paese, pashtun, tagiki, uzbeki e hazara, sono nati il Ministero degli Affari Femminili, la legge per l’eliminazione della violenza, il riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti nella Costituzione. Secondo i dati di United Nations Development Programme (Undp), fra il 70 e l’80% dei matrimoni celebrati dal 2008 ad oggi sono stati combinati dalle famiglie e non contratti liberamente dalle coppie.
Soprattutto nei villaggi più piccoli e isolati, lontano dai grandi centri urbani, la donna è ancora inserita in un contesto di sussistenza dove per parlare di diritti, istituzioni, stato centrale, ci vorranno ancora generazioni. Nella provincia di Farah capita di imbattersi in piccoli agglomerati fra le montagne desertiche fatti di poche case dove si vive di agricoltura e pastorizia, senza corrente elettrica né collegamenti stradali, e dove se si domanda quanti abitanti ci siano, il numero che si ottiene come risposta non include le donne, ma solo gli uomini presenti. In alcune zone rurali, soprattutto nella provincia di Kunaar, la donna è usata come mezzo di compensazione tra famiglie per porre rimedio ad un’offesa ed evitare che si scatenino violenze e faide; è la pratica del baad, un accordo tacito che ufficialmente non viene registrato. Spesso chi rifiuta di sottostare a certe pratiche paga con la vita. È il caso di Mah Gul, una ragazza di 20 anni uccisa dieci giorni fa dai suoceri con la complicità del marito perché si era rifiutata di finire “in prestito” ad un uomo.
Eppure anche nei luoghi più a contatto con la contemporaneità ci sono pilastri culturalmente difficili da superare. All’università di Herat, dove oggi si trovano studenti di entrambi i sessi, le ragazze indossano tutte il khimar, un mantello nero o con stampe fantasia che copre il capo e il resto del corpo, e siedono in aula rigorosamente separate dagli uomini. Larisha, una studentessa ventiduenne nata a Mazar’e Sharif ma residente a Herat, racconta che i matrimoni sono combinati dalle famiglie anche fra i ceti più abbienti, anche se le figlie frequentano l’università o hanno un lavoro fuori casa. È la famiglia dell’uomo che va a trovare quella della donna e si accorda sul futuro dei due giovani, che non si incontreranno prima del matrimonio.
I racconti e le confidenze delle donne che ancora non hanno trovato la via dell’emancipazione però cominciano ad avere delle voci che parlino anche per loro. È il caso di Radio Sharzat, dal nome della Sherazade delle Mille e una Notte, un’emittente messa in piedi da 15 giornaliste e inaugurata ai primi di ottobre, grazie ai finanziamenti di un imprenditore locale. In onda dalle 8 del mattino alle 22, le giovani raccolgono i messaggi delle donne che chiamano per raccontare la loro esperienza, e nel frattempo si preparano ad aprire nuovi spazi di dibattito politico. “Ogni tanto ho avuto la tentazione di mollare tutto – dice la direttrice Somia Ramish – ma poi ho sempre deciso di andare avanti perché stiamo costruendo qualcosa di importante che fino a poco tempo fa sarebbe stato impensabile”. La carriera di giornalista, come conferma Samia, è una delle più ambite fra le giovani afghane, costrette fino ad ora al silenzio e finalmente pronte a far sentire la propria voce.
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