Riceviamo e pubblichiamo.
Premetto che, oltre a praticare apertamente un orientamento storico-materialistico, nutro per ragioni personali una grande riconoscenza verso l’Istituto italiano per gli studi filosofici. E ammetto dunque che il mio punto di vista potrebbe essere distorto da questo coinvolgimento. Tuttavia, la recente presa di posizione dell’amico Corrado Ocone – con il quale spesso sono invece d’accordo, pur militando in un ambito culturale distante, e del quale apprezzo la finezza intellettuale – mi trova fortemente contrario.
Nel suo intervento su “Reset” on line dal titolo Perché non ho firmato l’appello per l’Istituto per gli Studi Filosofici, Ocone riconosce i meriti dell’Istituto e la necessità di salvarne la biblioteca. Contesta però che debba essere lo Stato a farsi carico degli oneri connessi, adducendo come argomenti la crisi economica generale, l’inefficienza manageriale dell’Istituto stesso ma soprattutto il legame che esso e la Società di studi politici avrebbero stabilito nel tempo con un «un marxismo radicale ed antagonista».
Non entro nel merito della gestione patrimoniale dell’Istituto, del quale è comunque noto lo storico mecenatismo e del quale sarebbe possibile elencare le innumerevoli iniziative, spesso diffuse in remote località del meridione che altrimenti nessun contatto avrebbero mai potuto avere con questo genere di studi. Altrettanto facile sarebbe mostrarne il pluralismo degli interessi e delle relazioni, come è confermato dai tanti attestati pubblici di questi mesi e da una pratica di solide e antiche collaborazioni con studiosi delle più diverse tendenze: è un pericoloso marxista Remo Bodei? Lo erano Hans-Georg Gadamer e Giovanni Pugliese Carratelli? Non ha collaborato l’Istituto con figure come Karl Popper ed Ernst Nolte?
Si potrebbe continuare a lungo ma mi sembra più interessante discutere la sostanza degli elementi sottolineati da Ocone.
Nella presentazione del suo articolo, egli sostiene che «se la filosofia ha un futuro non può averlo con i soldi dello Stato» e sembra con ciò attestarsi su una posizione di stampo liberal-conservatore. Questa tesi ricorda infatti la nota polemica di Schopenhauer verso la «filosofia dell’università», ovvero la denuncia delle relazioni pericolose che secondo il grande pensatore tedesco sussistevano tra lo Stato prussiano (in specie quello del Vormärz) e la filosofia accademica. Contro l’insegnamento della filosofia nelle università pubbliche, e in particolare contro la filosofia hegeliana egemone – disprezzata come santificazione dell’onnipotenza della politica e «apoteosi… dello Stato» che giunge «sino al comunismo» -, questi aveva celebrato la ricerca libera da vincoli e condizionamenti, la «filosofia pura» che «non conosce altro scopo se non la verità».
A molti interpreti queste parole di Schopenhauer sono sembrate e continuano a sembrare una difesa dell’indipendenza della cultura da ogni condizionamento politico o religioso e della sua disinteressata purezza. In realtà si trattava dell’esaltazione aristocratizzante dell’individualità geniale – il «pensatore originale» – contro la diffusione pubblica del sapere – i «professori di filosofia» -, della quale lo Stato cominciava ad assumersi l’onere in un momento di grandi trasformazioni sociali.
Ma tornando ai giorni nostri, cosa significa sostenere oggi che «se la filosofia ha un futuro non può averlo con i soldi dello Stato»? E perché questa restrizione del campo alla sola filosofia? E’ chiaro che qui, a partire da un caso particolare, si allude ad un atteggiamento generale che lo Stato sarebbe tenuto ad avere nei confronti della cultura in quanto tale. Allo stesso modo, infatti, si potrebbe sostenere che «se la matematica ha un futuro non può averlo con i soldi dello Stato», oppure che «se il teatro – o la letteratura, o i giornali, o il cinema… – hanno un futuro non possono averlo con i soldi dello Stato» e così via… Ma quali sarebbero le conseguenze di questo approccio?
Non credo affatto che Ocone contesti la legittimità e la necessità della scuola e dell’università pubblica e non credo nemmeno che egli deplori l’insegnamento della filosofia nei licei e nelle università statali. Lo conosco come esponente del liberalismo democratico. Di un liberalismo, cioè, che pur attento alla sfera privata e individuale non rinuncia a sollecitare un intervento pubblico nelle questioni economico-sociali, al fine di correggere quelle diseguaglianze che i rapporti di forza reali lasciano dietro di sé. Di un liberalismo, inoltre, che ha contribuito a scrivere una Costituzione che assegna allo Stato il dovere di rimuovere gli ostacoli ad uno sviluppo autenticamente libero degli individui e dunque, inevitabilmente, alla diffusione della cultura. Tanto più non capisco la sua tesi, che, se presa nella sua generalità, avrebbe probabilmente questa conseguenza: ad occuparsi di filosofia o più in generale di cultura potrebbero essere solo coloro che, per le loro risorse economiche personali o familiari – «i pochi che hanno avuto in sorte un certo patrimonio», avrebbe detto ancora Schopenhauer -, possono permetterselo senza gravare sul contribuente e che perciò sono gli unici a poter essere definiti come autenticamente “liberi”. Insomma, senza i soldi dello Stato la filosofia – e la cultura – non potrebbe avere nessun futuro, quantomeno come disciplina aperta ad un interesse e ad una pratica tendenzialmente universali.
Non è così che funziona in altri paesi, come la Germania o la Francia – o, per guardare più lontano, la Cina -, dove gli studi filosofici e la cultura in generale vengono promossi nelle forme più diverse anche al di fuori del percorso formativo strettamente istituzionale e anche attraverso la collaborazione con enti, fondazioni e centri di ricerca non statali. E’ così, invece, anzitutto nei sogni dell’antistatalismo anglosassone, esso sì, più «radicale e antagonista».
Controversa in linea di principio, questa posizione mi sembra poi tanto più impraticabile nel nostro contesto nazionale. Sappiamo che in Italia il settore privato contribuisce agli investimenti in ricerca e sviluppo con una cifra insignificante e che questo contribuisce non poco all’arretratezza della nostra struttura produttiva ed occupazionale. E’ molto dubbio, allora, che una borghesia imprenditoriale mediamente deculturata sarebbe capace di svolgere un efficace ruolo di promozione culturale, anche nel caso – immagino che Ocone pensi di risolvere in questo modo il problema – di incentivi fiscali che ne facilitino il compito. Va poi notato, per inciso, che a sopperire al ritrarsi dello Stato dovrebbero essere chiamati proprio quei settori che dell’assistenzialismo statale continuano invece sistematicamente ad usufruire nelle forme più varie e spesso mascherate.
Non cambia le cose il fatto che nel testo di Ocone questa tesi “liberista” generale sembri essere relativizzata e condizionata al momento contingente di ristrettezze economiche del Paese. Da un lato, questa circostanza rende ancora più improbabile l’intervento salvifico della munificenza privata (sia dello sponsor, sia dell’eventuale cliente-fruitore di cultura). Dall’altro, ci fa capire che in questo come in altri casi lo Stato e la classe dirigente vengono posti di fronte ad un problema che è fondamentalmente politico: in un paese ricco ma fortemente squilibrato come il nostro, rifiutarsi di operare forme di redistribuzione della ricchezza è una scelta politica precisa; e anche decidere come orientare le risorse dello Stato – se investirle o meno nel finanziamento di uno sviluppo culturale che non è direttamente produttivo ma che può essere volano di crescita economica e di mobilità sociale – è una scelta politica.
Soprattutto, però – e arriviamo al punto conclusivo -, la tesi di Ocone è motivata dal fatto che attraverso i finanziamenti all’Istituto i soldi dei contribuenti andrebbero direttamente o indirettamente a foraggiare studiosi vicini ad una determinata impostazione politico-culturale e dunque, in fin dei conti, finirebbero per favorire il marxismo. Ma perché solo il marxismo? Vale questa clausola d’esclusione solo per questa corrente in quanto particolarmente eversiva, oppure essa vale anche per altri orientamenti, come quello cattolico o lo stesso liberalismo, in quanto essi stessi punti di vista particolari? Perché in quest’ultimo caso bisognerebbe trarne tutte le conseguenze e affermare che lo Stato deve cessare tout court di sostenere qualunque ente o organismo culturale. In quanto ciascuno di questi ha inevitabilmente un proprio orientamento, di adesione o di critica nei confronti degli ordinamenti sociali vigenti, anche quando fa di tutto per nasconderlo oppure quando lo esprime in forme spontanee e senza una preliminare autoriflessione.
Poiché è poco realistico che questo avvenga, l’intervento di Ocone, che pure vorrebbe delineare i compiti complessivi dello Stato verso la cultura, finisce in sostanza per sollecitare una sorta di conventio ad excludendum nei confronti del marxismo dalla scena culturale italiana. E’ un atteggiamento molto diffuso, soprattutto nel mondo accademico. E soprattutto da parte di chi del marxismo come potente forma di legittimazione e instrumentum regni ha saputo abilmente servirsi in passato, salvo convertirsi ad altri orientamenti quando lo spirito del tempo lo ha reso opportuno. Ed è un atteggiamento che in numerosi casi ha già condotto a forme di discriminazione intellettuale insopportabili (soprattutto a danno degli studiosi più giovani), che oggi ricadono su questa corrente ma che domani potrebbero colpire chiunque.
Sono certo che Ocone, il quale non è certo un transfuga ma che di Marx è anche uno studioso, non intendeva affermare questo. La vicenda dell’Istituto costringe però a sollevare una questione più generale. Cosa determina il fatto che una teoria si mantenga all’altezza dei tempi o sia – come viene per lo più rinfacciato al marxismo, con atteggiamento snobistico o addirittura di scherno – obsoleta e definitivamente tramontata?
E’ il giudizio del vincitore del momento a deciderlo, oppure è la capacità che questa teoria conserva nel comprendere la realtà e i movimenti della storia? E’ su questo terreno che il marxismo – che pure esce da una sconfitta storico-politica di enormi dimensioni e che vive un travaglio teorico legato al bisogno di un ripensamento complessivo ma che soprattutto in Italia ha alle spalle una tradizione di elevatissimo livello intellettuale che si colloca nel solco della cultura nazionale – vorrebbe essere giudicato e vorrebbe collaborare e competere con altri orientamenti. Con la pretesa non già di essere avvantaggiato dalle preferenze della politica e, per assurdo, nemmeno di partire alla pari con gli altri; ma quantomeno di non essere definitivamente ostracizzato.
contenuti dell’articolo esaurienti e condivisibili ma di Ocone difficile,almeno in questa caso , apprezzare la finezza intelletuale.
Grazie, prof. Stefano G. Azzarà, per questo bellissimo intervento.
Grazie a lei… SGA.