Ripubblichiamo un’intervista al cardinale Martini scomparso il 31 agosto uscita su Reset 42 (novembre 1997).
L’uomo moderno sembra avere imparato ad affrontare qualsiasi problema senza far ricorso all’ipotesi dell’esistenza e dell’intervento di Dio. Possiamo imparare anche a morire, ad accettare l’inevitabile senza di Lui?
L’uomo moderno ha imparato ad affrontare problemi tecnici con le risorse della tecnica, problemi scientifici con le risorse della scienza. Non ha invece imparato, perché non è possibile, ad affrontare problemi esistenziali senza far riferimento a valori. Ora, la morte è il massimo problema esistenziale. È possibile limitarsi ad accettare l’inevitabile riducendo al massimo le pretese interpretative: facendo così non si affronta veramente la morte, ma si entra in essa in maniera non degna di una persona umana. Una persona ragionevole non può non collocarsi di fronte alla morte se non con il desiderio di leggerla in un quadro di valori. È per questo che è necessario il ricorso a qualcosa di assoluto.
Forme di spiritualità di opinabile rango si stanno sviluppando in questi ultimi anni con grande intensità attraverso la stampa, i libri, la musica, consumi vari e certe mode alimentari. Mi riferisco alla cosiddetta New Age, alla fortuna della Profezia di Celestino e dintorni, alla traduzione del Tao come mezzo di terapia antistress, quasi un equivalente della palestra. Come trattare questi argomenti: come surrogati di una religiosità depotenziata, vie d’accesso secondarie a una spiritualità più profonda, mezzi sostitutivi di rapporti umani venuti meno?
Vi sono forme di terapia naturale, che ci vengono per esempio dall’Oriente, e che possono essere molto utili per lottare contro lo stress, per ridurre l’ansia ecc. Non sono però vere e proprie forme di religiosità: la religiosità, per essere autentica, implica un contatto con il mondo divino, un affidarsi con amore alla divinità e un sentirsene accolto. Non nego che vi possa essere un rapporto tra terapie volte ad approfondire gli stati di consulenza e il cammino religioso. Le grandi religioni hanno tutte conosciuto strumenti e atteggiamenti per aiutare al raccoglimento ecc. Però si ha religione in senso proprio solo quando si ha un rapporto con il mistero insondabile e quando questo rapporto è un rapporto di amore, di fiducia, di dedizione.
La religione cristiana fino a che punto può e deve confrontarsi, apprendere dall’incontro con queste nuove spiritualità?
Occorre distinguere bene fra le cosiddette «nuove spiritualità». Alcune presentano delle utili forme di aiuto alla preghiera, di preparazione al raccoglimento ecc. Altre esprimono idee confuse e vaghe, che non possono essere chiamate espressamente «religiose». La religione cristiana ha una grande tradizione di esperienze psicologiche profonde. Non deve quindi impararle di nuovo dalle cosiddette «nuove spiritualità».Può essere aiutata da alcune di esse a ritrovare nella tradizione, ad esempio nel monachesimo, tali ricchezze, a farne memoria, a riattualizzarle.
Nella Lettera pastorale di quest’anno, nel secondo dei tre racconti dello Spirito («Lo Spirito racconta») lei scrive: «Lo Spirito santo è la memoria potente di Cristo». Compito difficile per lo Spirito santo quello di rinsaldare il significato del presente alla speranza di un futuro dopo la morte del corpo in una società sempre più slegata dalla continuità storica, dalla memoria e dalla speranza.
Lo Spirito santo è lo Spirito della vita, lo Spirito di Cristo risorto. L’azione dello Spirito in questa società consiste nel risollevare continuamente la speranza in persone che tendono a ripiegarsi su se stesse e sul proprio presente immediato. Nella mia Lettera pastorale faccio notare che la grande sfida spirituale del presente è la perdita del significato e del peso di ciò che è invisibile. Per sperare di fronte alla morte occorre avere questo senso dell’invisibile, di ciò che supera il presente. Certamente la nostra società tende a dimenticare il passato e a temere il futuro. Perciò lo Spirito agisce in contrasto con molte tendenze attuali, ma in continuità con le aspettative più profonde del cuore umano. L’uomo sempre spera comunque di sfuggire alla morte e di trovare qualcosa dentro la morte. Perciò la speranza trova delle affinità nel cuore di ogni persona.
Le nuove forme di spiritualità sembrano proprio rinunciare alla memoria e alla speranza, concentrando l’attenzione sul mondo qui ed ora: sono depresso, faccio un massaggio e mi sento meglio, soffro la solitudine e ascolto della musica, in breve la religione concepita quasi come digestivo. Se il dottore mi dice che ho un tumore e mi rimangono pochi giorni di vita, possono queste spiritualità sostenere il peso dell’angoscia e dell’assurdo?
Ho già detto sopra che certe terapie possono aiutare il corpo e la psiche, ma non possono essere chiamate vere e proprie forme di spiritualità e tanto meno di religione. Esse possono aiutare a sostenere, in situazioni semplici, il peso quotidiano dell’esistenza, ma non hanno parole valide contro le grandi sfide esistenziali. Queste sfide, quando si presentano, hanno un carattere di inevitabilità e di totalità: bisogna prendere posizione di fronte ad esse a partire da valori totali, capaci di riempire passato, presente e futuro. Il peso dell’angoscia e dell’assurdo non trova contrappeso se non nella morte e risurrezione di Gesù, il quale ha preso su di sé l’angoscia e l’assurdità dell’esistenza umana e le ha vinte nel suo corpo e nella sua esperienza.
Si parla di religioni senza Dio e senza chiesa. La ricerca spirituale si allontana da soluzioni collettive verso una religiosità à la carte, frutto di scelte individuali. L’etica sembra confondersi con l’estetica, con il gusto personale di comporre soluzioni parziali per risolvere problemi specifici. Non è contraddittorio un Dio locale, diverso per ogni singola necessità?
Tutto ciò che è parziale, non ha che un valore episodico e provvisorio. L’uomo ha bisogno di risposte piene e definitive, capaci di sostenerlo anche nei momenti estremi. L’etica va fondata su valori assoluti, per sostenere l’azione umana anche di fronte alle più gravi minacce e ai più gravi pericoli.
I fedeli che vengono da lei a parlare o a confessarsi, cosa le chiedono a proposito della morte?
La gente parla poco volentieri della morte, almeno in forma diretta. Spesso il dialogo è indiretto, per allusioni. Infatti per molte persone è troppo difficile guardare la morte in faccia con realismo. Non parlo quindi dei discorsi accademici, di quelli che si fanno pensando alla morte degli altri o sentendo la propria morte come una pura eventualità del futuro. Parlo di situazioni nelle quali la morte minaccia da vicino l’esistenza. In questi casi non ho trovato molte persone disposte a porre a tema la propria morte. Vi sono tuttavia alcuni casi straordinari, di persone che hanno raggiungo una pacificazione profonda del loro spirito. Ma anche in altri casi ho visto ugualmente molto coraggio e serenità. Anche senza tematizzare la morte, essa è presente nello sfondo del discorso, in persone che hanno raggiunto una pace del cuore e un abbandono alla volontà di Dio.
Come si convive serenamente con l’angoscia?
Per vivere è necessario convivere con l’angoscia. L’angoscia è infatti sorella della libertà. Quando ci sono scelte libere e occorre misurarsi con l’ignoto, allora sorge l’angoscia. Per questo non è possibile eliminarla del tutto. Occorre far si che essa non domini lo spirito, occorre respingere il panico. Per questo è molto importante la preghiera e la meditazione delle Scritture. Nella Bibbia viene spesso trattato il problema dell’angoscia. Vi sono molte preghiere di persone che sfogano la propria angoscia di fronte a Dio. Familiarizzandosi con queste pagine ciascuno impara a riconoscere l’angoscia che si porta dentro e a dominarla in qualche modo, a superarla, a convivere con essa in maniera sensata e pacifica.