Il 6 luglio scorso è morto Federico Coen. Nato nel 1928, è stato politico e intellettuale socialista appassionato per oltre mezzo secolo. Ha diretto la rivista Mondoperaio dal 1972 al 1984 quando lascia il timone per nette divergenze con Bettino Craxi. Ha fondato e diretto fino al 2009 l’edizione italiana di Lettera internazionale. Tra le numerose attività culturali è anche tra i soci fondatori di Reset.
Per ricordarlo pubblichiamo un articolo che Coen scrisse per il numero 3 di Reset, uscito in edicola nel marzo 1994. A quasi vent’anni di distanza è difficile non apprezzare la lucidità con cui Federico Coen leggeva le vicende politiche italiane e di quanto le cause dell’infinita transizione italiana provengano da lontano. Ed è difficile non vedere quanto le questioni sul tavolo della politica italiana rimangano in molti casi le stesse di due decenni fa.
In un saggio uscito su Dissent, l’eccellente rivista della sinistra americana, il noto politologo Robert Dahl analizza le ragioni che stanno mettendo in crisi il sistema politico statunitense. Secondo l’autore, non solo l’uomo della strada ma anche gli esperti e gli stessi addetti ai lavori incontrano difficoltà crescenti a intendere quali sono i luoghi e i modi in cui vengono prese le decisioni politiche più importanti, e quindi a individuare le relative responsabilità. Si assiste infatti a due fenomeni concomitanti: da una parte è in atto una frammentazione sempre maggiore degli interessi costitutivi (non solo le tradizionali lobbies affaristiche, ma anche una moltitudine di movimenti organizzati per single issues) che premono sui decision makers, dall’altra è in atto una moltiplicazione di centri decisionali, più o meno informali, e una loro crescente inidoneità a operare le mediazioni e le sintesi necessarie per dare all’azione di governo un certo grado di continuità e di coerenza.
I rimedi suggeriti dall’autore sono di due tipi: in un’ottica ravvicinata, occorrerebbe introdurre il finanziamento pubblico dei partiti per assicurare loro un controllo effettivo sui parlamentari le cui campagne elettorali dipendono quasi esclusivamente dai contributi dei privati, coi relativi condizionamenti; in una prospettiva di più lungo periodo, sarebbe necessario ripensare i capisaldi stessi del sistema politico-istituzionale americano: regime presidenziale, bipartitismo, sistema elettorale uninominale.
L’analisi di Dahl non è isolata e non è nuova: l’intera campagna presidenziale del 1992 fu segnata da un coro di critiche sulle disfunzioni del sistema. Ma ho voluto citarla proprio perché si pone chiaramente in controtendenza rispetto alla evoluzione a cui sembra avviato il sistema politico italiano. Il fatto che in una delle due patrie classiche del bipolarismo e della democrazia dell’alternanza questi traguardi, e le relative premesse istituzionali, siano oggi rimessi in discussione non è privo di significato anche per noi, in quanto sottolinea quanto sia delicato il passaggio di sistema a cui l’Italia si avvia. La democrazia dell’alternanza non è una condizione a cui accedere per forza d’inerzia, una volta venute meno le circostanze esterne (guerra fredda e relative contrapposizioni ideologiche) che erano di ostacolo.
È un approdo difficile, tanto più difficile quanto più complessa è la realtà sociale su cui la politica deve operare, che non è più riducibile (se mai lo è stata) a una elementare divisione di classi. Un approdo, quindi, che richiede un dosaggio sapiente di saggezza politica e di risorse istituzionali. Guardando al nostro passato, d’altra parte, non si può ignorare l’ammonimento di quegli studiosi – da Massimo Salvadori a Sergio Romano – che hanno documentato come la cosiddetta anomalia italiana abbia radici ben più lontane della guerra fredda che ha segnato la vita della Prima Repubblica: nel Risorgimento ridotto a conquista regia, nel trasformismo che ne seguì, nel tralignamento delle classi dominanti dal liberalismo al fascismo e delle classi subalterne dal riformismo al massimalismo. E via esemplificando. La lezione che se ne trae è che non c’è democrazia forte, capace di reggere alla prova dell’alternanza, se non c’è un minimo comune denominatore di valori condivisi e di condivisa fiducia nelle istituzioni.
Guardando al presente, dobbiamo chiederci allora per prima cosa se questo denominatore comune esiste o è in grado di emergere in tempo utile. Lo stato confusionale in cui versa la politica italiana, alla vigilia delle elezioni, non induce certo all’ottimismo. E tuttavia questo stato di cose può essere interpretato come l’effetto transitorio del carattere tumultuoso e anomalo della svolta politica in atto. Il ruolo determinante della magistratura (non solo per Tangentopoli, ma anche per la lotta alla mafia, con i suoi eroi eponimi) e quello altrettanto determinante del referendum popolare di aprile giustificano l’uso del termine rivoluzione per definire questa stagione politica. Ma ogni rivoluzione richiede una ricostruzione. Né la supplenza giudiziaria né la democrazia diretta possono bastare a governare una moderna democrazia.
Guardando al futuro, dobbiamo dunque concepire la nuova legislatura come essenzialmente costituente. Non sottovaluto la grande speranza che dalle urne possa scaturire una maggioranza di governo della colazione progressista che si delinea. Ma credo che anche e soprattutto in vista di questa eventualità l’assunzione di una prospettiva costituente, e l’apertura di un dialogo con le altre forze disponibili, sarà il banco di prova migliore della maturità di una sinistra di governo capace di darsi carico dell’interesse generale, tenendo conto dell’esperienza delle democrazie più mature.
La difficoltà dell’impresa è dovuta soprattutto alla compresenza di due esigenze di fondo – di semplificazione e insieme di partecipazione – non facilmente conciliabili. Da una parte c’è bisogno di una guida politica energica, capace di fronteggiare la complessità, aggregando, componendo e se necessario sacrificando istanze, interessi, valori potenzialmente divaricanti, e assumendo la responsabilità piena delle decisioni che ne conseguono, dall’altra si avverte sempre più la necessità di rendere meno abissale la distanza che separa governanti e governati, chi prende le decisioni e chi ne sopporta le conseguenze. E al di là di tutto c’è un bisogno fortissimo di trasparenza, che richiede una personalizzazione dei ruoli e delle responsabilità politiche. Non per caso l’elezione popolare dei sindaci ha avuto il valore di una prova generale del nuovo corso, mettendo tutti gli elettori (in virtù del doppio turno) di fronte a scelte trancianti. È improbabile che le elezioni politiche avranno la stessa capacità di coinvolgimento, data la mancanza del doppio turno. Ma è certo che la lezione del 5 dicembre, che ha premiato la sinistra, dovrà essere messa a frutto in almeno due direzioni: nel senso di un effettivo decentramento del potere, che vuol dire ripensare dalle fondamenta in chiave federalista il nostro anemico ordinamento regionale, e nel senso di sollecitare un’ulteriore semplificazione e responsabilizzazione dei centri decisionali a livello nazionale.
È su questa strada che la sinistra incontra il nodo non risolto del presidenzialismo, nelle sue diverse possibili incarnazioni: da quella più radicale, all’americana, in cui l’elezione popolare del capo dello stato si ricollega alla separazione del potere esecutivo dal legislativo, a quella mista, alla francese, che ripartisce i ruoli di governo tra il presidente eletto dal popolo e il capo del governo di designazione insieme presidenziale e parlamentare, a quella più attenuata, che mantiene l’elezione parlamentare del capo dello stato con funzioni di garanzia, riservando l’elezione popolare al capo del governo.
Al di là degli aspetti tecnici, resta la preoccupazione di fondo suscitata dal presidenzialismo, quella di una degenerazione della democrazia in forme plebiscitarie di tipo caudillista, alimentata dall’uso spregiudicato del mezzo televisivo. Esistono tuttavia riserve istituzionali adatte a fronteggiare questo pericolo: indipendenza della magistratura, una robusta rete di poteri politici regionali e di autonomie locali, una disciplina rigorosa del pluralismo dei media e del loro uso politico, una disciplina altrettanto rigorosa delle campagne elettorali e relativi finanziamenti; e soprattutto un sistema elettorale che, favorendo sul serio l’aggregazione di schieramenti politici alternativi relativamente omogenei, restauri l’autorità del parlamento come contrappeso al rafforzamento del potere esecutivo.
Per concludere, penso che in questa delicatissima fase di transizione la sinistra democratica debba guardarsi da due pericoli: quello di una ricaduta nell’ipergarantismo, tipico di una forza che si assegna in via permanente un ruolo di opposizione, e quello, all’opposto, di un uso spregiudicato dell’innovazione istituzionale che non tenga conto dei vincoli di compatibilità che uniscono i vari segmenti in cui si articola la vita dello stato. La fondazione di una nuova Repubblica non può procedere a pezzi e bocconi. Richiede una lucida determinazione e un disegno coerente, di cui la sinistra è oggi potenzialmente ben più capace delle forze che scompostamente e rissosamente si muovono sull’altro versante politico, nel segno dell’odio e della paura. L’evidente immaturità della maggior parte di queste forze dimostra che un’autentica democrazia dell’alternanza non è ancora a portata di mano. Ma il solo modo in cui le forze progressiste possono contribuirvi consiste nel fare la propria parte nel modo più responsabile e più consapevole.