Da antica festa religiosa a nuovo Capodanno della società dei consumi. Da giorno sacro al riposo contadino a migrazione stagionale del popolo delle vacanze. Da tradizionale celebrazione dell’Assunta a liturgia del tempo libero. Vecchio e nuovo si mescolano nel nostro Ferragosto. E ne fanno un cantiere festivo in continua trasformazione. La lunga marcia dei vacanzieri – con autostrade intasate e aeroporti in overbooking – le cene sotto le stelle, i falò che illuminano gli arenili, gli informali pool party, i rituali bagni di mezzanotte, i barbecue pantagruelici non sono tutta farina del nostro sacco. Perché vengono da molto lontano. E precisamente da cerimoniali come le romane Feriae Augustae – da cui deriva la parola Ferragosto – che accompagnavano il giro di boa del calendario agrario.
La pausa prima di iniziare la discesa verso l’autunno. Un rito di passaggio, un nuovo inizio che noi continuiamo a celebrare sotto altro nome. Come quando ripetiamo, con regolarità da eterno ritorno, il decalogo del dopo vacanza. Primo non ingrassare, secondo iscriversi in palestra, terzo mangiare sano, quarto non farsi travolgere dal lavoro, quinto imparare a dire no, sesto studiare l’inglese, settimo liberare l’armadio da tutti quei vestiti che tanto non mettiamo più. È l’edificante elenco di buoni proponimenti che ogni anno recitiamo come una giaculatoria durante il controesodo. Quando sulle nostre autostrade si consumano gli ultimi atti di quella migrazione estiva della società del tempo libero che ha assunto ormai i ritmi e la regolarità di una transumanza. E le lancette del tempo stanno per iniziare un nuovo giro dopo il fatidico rintocco del Ferragosto.
La data simbolo delle vacanze all’italiana sta diventando in realtà il vero giro di boa del nostro calendario, il nuovo Capodanno di una civiltà ormai emancipata dalla natura e dai suoi ritmi. I tempi che scandiscono la nostra vita, infatti, non dipendono più dal calendario astronomico e dalle condizioni meteorologiche, dalla successione stagionale, dal cammino del sole e dalle fasi della luna, ma sono cadenzati dall’organizzazione dei cicli produttivi. Oggi il bello e il cattivo tempo lo fa la tecnologia – con l’organizzazione del lavoro che ne deriva – che ha finito per produrre una riforma sotterranea del calendario. Una semplificazione che ha tagliato i tempi intermedi e ha diviso in due l’anno. Tempo del lavoro e tempo del riposo. Due sole stagioni per un anno a cristalli liquidi. Ecco perché il nostro Ferragosto è a tutti gli effetti un Capodanno, il rito di passaggio che segna la fine di un ciclo e l’inizio di quello nuovo. Le fabbriche chiudono i battenti, si spengono i computer, la circolazione delle merci si arresta. Il sistema insomma si mette in stand by. Si determina una sospensione prolungata del tempo, una pausa che non è festiva, ma semplicemente non lavorativa.
È tempo libero. Che è ben diverso dal tempo festivo, perché questo è tempo pieno mentre l’altro è tempo vuoto. È una vacanza nel senso letterale del termine che deriva dal latino vacare, cioè mancare. Forse è per riempire il vuoto di un tempo improvvisamente libero, per vincere quest’ansia da vacanza, che tutti noi cerchiamo di inventare nuovi usi e costumi per dare un senso a questo intermezzo. Un senso che ciascuno è costretto a inventarsi, poiché non ci sono comportamenti obbligatori, né tradizioni, né devozioni. Non ci sono cioè gli imperativi indiscutibili delle feste comandate. Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi e Ferragosto dove vuoi. Ma soprattutto come vuoi.
Per una nuova architettura del tempo libero che mescola frammenti di passato e di futuro, accostando i lembi più lontani della nostra storia individuale e collettiva. Dalle orge proteiche, più adatte in verità al rigido clima natalizio che non alla canicola agostana, fino ai riti propiziatori praticati sulle spiagge dalle tribù giovanili. Come quei bagni notturni che sono delle autentiche immersioni lustrali. E i falò che ardono sugli arenili come quei fuochi purificatori che da tempo immemorabile servono a celebrare la fine di un anno e l’inizio di quello nuovo giocando col fuoco. E facendo molto rumore. Due elementi fissi e immancabili che precedono di molto i nostri botti. Prima dell’invenzione della polvere da sparo, infatti, si accendevano grandi falò e contemporaneamente si produceva un rumore assordante con tutti i mezzi disponibili. Tamburi, sonagli, pentole, coperchi. Tutto era buono per far baccano. La simbologia di questi riti era, e in fondo resta, elementare. Il fuoco, tradizionale strumento di purificazione e di rinnovamento, aveva una doppia funzione. Serviva a bruciare i residui negativi dell’anno passato e al tempo stesso a illuminare il cammino di quello nuovo. Il rumore aveva invece lo scopo di spaventare gli spiriti maligni, di scacciare le potenze del male. O, come si dice oggi, allontanare le energie negative. Per la stessa ragione in tante parti del mondo a Capodanno si bruciano o si buttano via le robe vecchie. Per chiudere simbolicamente i conti col passato e ricominciare da zero.
Come un cardine simbolico che fa ruotare gli ingranaggi della nostra esistenza, questo vuoto ci rinnova dentro e fuori. Facendoci rivivere l’esperienza sorgiva di tutti gli inizi, dandoci l’impressione di poter progettare il nostro tempo. Anche se il nostro rito di passaggio agostano, complice la crisi, sta diventando sempre più contratto e last minute. L’ultima spiaggia del relax. Il nostro sogno di una notte di fine estate.